La Federazione della Sinistra, una risposta di classe alla crisi organica del capitalismo

Comitato Politico Nazionale PRC

Roma 28, 29 novembre 2009

Intervento di Gianni Fresu

La Federazione della Sinistra, una risposta di classe alla crisi organica del capitalismo.

 

Se oggi, a fronte della liquefazione di Sinistra e libertà, rinunciassimo ad esercitare un’egemonia più ampia a sinistra, riaffermando la semplice autosufficienza della rifondazione comunista faremmo un errore strategico madornale. La Federazione della sinistra coniuga la necessità dell’unità a sinistra con l’esigenza di evitare scorciatoie organizzative liquidatorie della nostra soggettività. Chi paragona l’esperienza fallimentare della Sinistra arcobaleno con la Federazione sbaglia profondamente per varie ragioni: 1) in questa esperienza i comunisti non sono una semplice “tendenza culturale” ma la forza prevalente, come conferma del resto lo stesso simbolo adottato; 2) la Federazione nasce e si struttura con un netto profilo di alternatività e autonomia dal PD; 3) essa ha un inequivocabile dna sociale anticapitalista. L’esigenza di una più ampia unità a sinistra, costruita a partire da chiari contenuti politici e programmatici, non dall’idea volontaristica di creare un unico e indistinto partito della sinistra senza aggettivi, è dettata dalle condizioni soggettive ed oggettive del nostro agire politico. Ci viene chiesta a gran voce dal nostro stesso popolo, ed è al contempo indispensabile per tornare ad essere incisivi e utili alle classi subalterne. Quella attuale è una crisi organica e fasi di questo tipo, da che esiste il capitalismo, non danno luogo a momenti progressivi di ampliamento dei diritti e conquiste per il mondo del lavoro. Le crisi organiche producono rivoluzioni passive, vale a dire processi autoritari di involuzione delle relazioni sociali e politiche e ristrutturazioni violente del modo di produzione, finalizzate a ottenere maggiori remunerazioni del capitale ed una ancora maggiore condizione di subalternità delle classi sfruttate. Da un lato assistiamo attoniti al quotidiano vilipendio delle regole democratiche sancite dalla costituzione, dall’altro vediamo giorno dopo giorno quanto la crisi stia favorendo un consolidamento e ampliamento dei rapporti di dominio da parte delle classi sfruttatrici. Dopo venti anni di rapina sui redditi da lavoro dipendente, a fronte della crescita di produttività del lavoro, fatturato e profitti delle imprese, i padroni prendono la palla al balzo per avviare le procedure di fallimento, delocalizzare le produzioni all’estero, licenziare per poi riassumere con contratti di lavoro precario. La crisi si sta rivelando un vero affare per i padroni e le vertenze che quotidianamente scoppiano in tutta Italia lo confermano. La Sardegna in particolare vive un processo di desertificazione industriale disarmante. Già oggi la parte preponderante della nostra economia è composta di commercio e servizi, ciò nonostante non c’è distretto produttivo che non sia caratterizzato da dismissioni che mettono in luce le ipocrisie e le acrobazie dialettiche dei profeti del liberismo. A Iglesias opera un’impresa, la Rockwool che – a fronte di un attivo di bilancio, di un mercato consolidato, di impianti all’avanguardia e di finanziamenti e agevolazioni pubbliche di ogni sorta – dall’oggi al domani decide di chiudere, licenziare e trasferire la produzione nei Balcani.

E che dire dell’atro caso del Sulcis che ha attirato l’attenzione nazionale? La Sardegna vive il paradosso di essere autosufficiente sul piano energetico ma di pagare un costo per l’erogazione del servizio maggiore di qualsiasi altro distretto produttivo. Così l’intervento pubblico per promuovere tariffe agevolate è ora sotto il giudizio delle istituzioni europee per infrazione delle norme sulla concorrenza, da ciò la scusa per chiudere tutto e mandare a casa gli operai. Viene spontaneo domandarci, per quale ragione è stato possibile utilizzare danaro pubblico per salvare le banche sull’orlo del baratro senza che l’Unione europea avesse nulla da dire in merito alle norme sulla concorrenza? Per quale ragione Germania e Francia sono state in grado di fare massicce iniezioni di capitali pubblici ad un sistema di grandi imprese traballante senza che nessuno opponesse le obiezioni oggi sollevate per l’Alcoa? Come mai per salvare Alitalia il governo non ci ha pensato un minuto ad usare fiumi enormi di danaro pubblico e ad esercitare tutto il suo potere in sede comunitaria per non avere problemi, mentre ora si limita ad un ridicolo quanto inutile balbettio? Tutto questo ci chiarisce senza infingimenti che quando sono in gioco forti interessi capitalistici e i rispettivi governi nazionali decidono di tutelarli non ci sono norme sulla concorrenza o patti di stabilità che tengano. La crisi mette a nudo le iniquità dei dogmi liberisti e la malafede delle forze interessate a mantenerli in vigore. La federazione può costituire l’alternativa capace di rilanciare senza timidezze il tema di una nuova stagione di intervento e programmazione del pubblico in economia, di controllo pubblico del credito, di revisione profonda delle politiche comunitarie. Un ruolo che non può certo essere assolto da PD o IdV che in Parlamento europeo hanno sempre votato a favore di tutte le normative liberiste. È dunque la realtà concreta, segnata dal costante peggioramento delle condizioni di vita e lavoro delle classi subalterne, a spingerci verso uno scatto in avanti per mutare i rapporti di forza. La Federazione tenta di farlo su presupposti politici, sociali e organizzativi che non annacquano la questione comunista nel nostro paese, semmai la rimettono in gioco facendola uscire dall’angolo in cui ci hanno e ci siamo cacciati negli anni passati.

Un comune fronte di difesa democratica

Un comune fronte di difesa democratica.

(Liberazione, 16 novembre 2009)

Di Gianni Fresu, Segretario regionale PRC.

Personalmente non nutro alcun entusiasmo verso le primarie poiché esse si risolvono nell’ennesima delega passiva agli “specialisti della politica”, senza ridurne la distanza dalla società. Non mi seduce l’idea di un rapporto puramente episodico di convergenza tra la vita dei partiti e quella dei cittadini. Pur tra tanti limiti, i partiti del secondo dopoguerra realizzavano una partecipazione costante delle masse popolari alla vita politica e favorivano una formazione di gruppi dirigenti non esclusivamente composta da “specialisti, avevano strutture associative culturali, sociali, e sportive, che favorivano una maggiore organicità tra cittadini e politica. Le primarie invece ripropongono il vecchio schema ottocentesco del comitato elettorale liberale nel quale solo i notabili avevano possibilità di competere. I grandi partiti di massa del movimento operaio e cattolico nascono storicamente proprio per porre fine a questo stato di cose e realizzare una reale partecipazione popolare a tutte le scelte fondamentali della politica: definizione della linea, battaglie da intraprendere, selezione dei quadri dirigenti. Gli apostoli delle primarie risolvono ogni problema attraverso le virtù taumaturgiche del leader e confondono la personale capacità persuasiva del candidato con la costruzione di una comunità politica. Penso si dovrebbe puntare ad una autoriforma dei partiti politici per renderli nuovamente lo strumento principe di una partecipazione democratica quotidiana delle grandi masse popolari, assegnando finalmente ai congressi la funzione alta di luogo collettivo di elaborazione e direzione politica. I partiti dovrebbero tornare allo spirito che li animò nella fase della liberazione nazionale, della Costituente, della ricostruzione del paese, piuttosto che scimmiottare i modelli d’oltreoceano. Del resto gli USA hanno i livelli più alti di astensionismo e disimpegno politico al mondo, pur vivendo le primarie con una carica emotiva, una sovraesposizione mediatica e un dispendio di risorse economiche da noi impensabili. Al di là delle mie valutazioni sullo strumento in sé, il risultato delle primarie manda in soffitta la pretesa autosufficienza del PD, l’idea di imporre con la forza un bipartitismo innaturale attraverso soglie di sbarramento e leggi elettorali su misura. Tra noi e il PD restano profonde differenze che sul piano nazionale pregiudicano una organica politica delle alleanze comune, tuttavia, oggi, si può quanto meno pensare ad una opposizione comune contro il processo di involuzione autoritaria e di smantellamento dei principi costituzionali nel nostro Paese. Il Governo Berlusconi è una delle pagine più buie di reazione antidemocratica nella nostra storia e le forze democratiche non devono aspettare il fallimento di un nuovo Aventino per unirsi in un comune fronte di salute pubblica. In Sardegna, alla vigilia delle elezioni amministrative, è invece urgente la convocazione di un tavolo regionale che a partire da alcuni punti programmatici chiari, dalla presentabilità dei candidati e della linea di condotta, provi ad unire il fronte democratico tenendo fuori quelle forze di “confine” (UDC e PSd’Az) rivelatesi determinanti per la vittoria di Ugo Cappellacci e a tutt’oggi impegnatissime a sostenerne l’azione concreta. L’emergenza sociale non consente distrazioni, con dati sempre più drammatici per innalzamento della soglia di povertà, distruzione di posti di lavoro, ampliarsi delle fasce di emarginazione. Dopo le miracolistiche promesse della campagna elettorale questa Giunta regionale si è distinta soltanto per il rapporto di servile vassallaggio alle esigenze del Premier Berlusconi. Una giunta totalmente distante dai reali interessi della stragrande maggioranza dei sardi, integralmente concentrata nel conseguimento del proprio bottino. Le istituzioni autonomistiche della Sardegna non hanno mai vissuto un livello tanto basso di degrado e assenza di autorevolezza politica, occorre una svolta radicale per disarcionare questa classe di governo arruffona e incapace.

 

Gramsci e il nascente americanismo

Gramsci e il nascente americanismo

Si conclude domani la pubblicazione dei Quaderni del carcere

Martedì 21 luglio 2009
Il pensiero gramsciano si definisce nell’ultimo Quaderno scritto in carcere, ricco di temi ancor oggi d’attualità
Con il volume 18 in uscita domani si conclude l’edizione anastatica dei Quaderni del carcere. Contiene i Quaderni dal 22 al 29 e approfondisce temi come l’americanismo, la critica letteraria, il giornalismo, la storia delle classi subalterne, il folclore. Nel primo Gramsci analizza le profonde trasformazioni prodotte nella società americana dall’introduzione del fordismo-taylorismo. Il fascismo e l’americanismo-fordismo sono per Gramsci le due risposte, profondamente diverse, che la civiltà borghese ha dato alla sua “crisi organica” nel Novecento: la prima era una risposta profondamente regressiva, una rabbiosa difesa dell’ordine costituito tradizionale; la seconda costituiva invece una risposta progressiva e razionale – seppur segnata anch’essa da contraddizioni – che avrebbe sancito il passaggio dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica. Le due risposte erano conseguenti alla differente composizione sociale in Europa e negli Usa.
L’americanismo, per attuarsi concretamente, necessitava che non esistessero classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo. La civiltà europea era invece contraddistinta dal proliferare di “classi parassitarie” generate dalla ricchezza e complessità della storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito. Quanto più vetusta è la storia di un paese tanto più estese e dannose sono queste «sedimentazioni di masse fannullone e inutili che vivono del patrimonio degli avi, di questi pensionati della storia economica».
Questo processo di razionalizzazione necessitava la creazione di un nuovo tipo di lavoratore plasmato, in ogni suo aspetto, sulle esigenze della produzione e della catena di montaggio. L’espressione usata dall’ingegner Taylor “gorilla ammaestrato” esprime alla perfezione questo fine della società americana: «sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale». Ma per quanto i tentativi di spersonalizzazione del lavoro, propri dell’industrialismo taylorista, potessero essere profondamente pervasivi, secondo Gramsci, l’obiettivo di trasformare l’operaio in “gorilla ammaestrato” era destinato a fallire. Come si cammina, senza il bisogno che il cervello sia impegnato su tutti i movimenti che il camminare comporta, allo stesso modo il lavoro dell’operaio “fordizzato” non avrebbe determinato l’annullamento delle sue funzioni intellettuali e quindi politiche. Il tentativo di brutalizzazione dell’industrialismo mirava a rendere invalicabile la separazione tra lavoro manuale e funzioni intellettuali, ma proprio in questa sua irrealistica aspirazione stava il suo maggior limite.
GIANNI FRESU

 

Risorgimento, la via all’unità nazionale

Risorgimento, la via all’unità nazionale

Gramsci critica l’interpretazione liberale del processo storico

Martedì 14 luglio 2009
Con l’avvicinarsi del 2011 e delle celebrazioni per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, i temi sulla storia del Risorgimento stanno tornando di grande attualità. Gramsci dedica alla questione una grande attenzione e il Volume 17, in uscita domani, contiene proprio il Quaderno 19 sul Risorgimento. Quegli avvenimenti sono stati spesso riletti in chiave politica, sia per contestare l’esito del processo, sia per farne la base ideale del nuovo Stato attraverso la costruzione artificiale di una “biografia nazionale”. Una interpretazione che ha dato luogo a rappresentazioni oleografiche totalmente astratte. L’antistoricità di tale approccio deriva dal fatto che esso impediva contemporaneamente la comprensione della realtà, con cui era in contraddizione, e insieme di cogliere la reale portata dello sforzo compiuto dai protagonisti del Risorgimento. L’analisi del passato d’Italia, dall’epoca romana a quella risorgimentale e post-unitaria, era volta a trovare in esso una unità nazionale di fatto, quindi a giustificare il presente con il passato storico. Secondo Gramsci, si è cercato di sostituire l’adesione organica delle masse popolari allo Stato, con la selezione di “volontari” di una nazione concepita astrattamente. Questo modo di rappresentare gli avvenimenti storici rendeva protagonisti della storia d’Italia personaggi astratti e mitologici e così il problema di ricercare le origini storiche di un evento concreto e circostanziato, la formazione dello Stato moderno italiano, nel secolo XIX, veniva trasformato in quello di «vedere questo Stato, come Unità o come Nazione o genericamente come Italia in tutta la storia precedente così come il pollo deve esistere nell’uovo fecondato».
L’idea che l’Italia sia sempre stata una nazione è per Gramsci una pura costruzione ideologica, un preconcetto, che ha portato la classe intellettuale italiana alle acrobazie più antistoriche per rintracciare questa unità nel passato pre-risorgimentale. In Italia nel XIX secolo non poteva esserci questa unità nazionale perché mancava ad essa l’elemento fondamentale del popolo-nazione e un collegamento stretto di questo con gli intellettuali nazionali. Per queste ragioni le ricostruzioni storiografiche erano in realtà propaganda che cercavano di creare quella Unità basandosi sulla letteratura più che sulla storia; per Gramsci quell’approccio all’unità era un “voler essere” piuttosto che un “dover essere”. Il susseguirsi delle diverse interpretazioni ideologiche sulla nascita dello Stato italiano, legate agli impulsi individuali di singole personalità, è specchio fedele della natura primitiva ed empirica dei vecchi partiti politici e quindi dell’assenza nella vita politica italiana di un movimento organico e articolato potenzialmente capace di favorire uno sviluppo politico-culturale permanente e continuo. Al di là delle valutazioni critiche, il Quaderno 19 introduce una gran quantità di strumenti analitici per comprendere approfonditamente l’evento che più di ogni altro ha segnato la storia moderna e contemporanea del nostro Paese.
GIANNI FRESU

 

Partitocrazia figlia della politica malata

Partitocrazia figlia della politica malata

Il pensatore sardo oltre 70 anni fa anticipò temi ancora attuali

Martedì 07 luglio 2009
La crisi della politica ha monopolizzato anche recentemente le pagine dei giornali interessando le stesse riflessioni del presidente della Repubblica. Il volume 16 in uscita domani riproduce i Quaderni 14, 16 e 17 nei quali questo argomento è ampiamente svolto a partire dalle considerazioni sul partito politico, lo strumento attraverso il quale il rapporto di rappresentanza dovrebbe superare la sua condizione di delega passiva. In realtà esso ha finito per convertirsi in luogo di occupazione e gestione oligarchica dei centri di potere e di perpetuazione esclusiva delle sue funzioni dirigenti. Non a caso è sorta ed è diventata di uso comune l’espressione partitocrazia. Il problema della degenerazione del partito politico riguarda anzitutto le relazioni che sussistono tra le sue parti costitutive – direzione nazionale, quadri intermedi, base di massa – e i suoi meccanismi di selezione e formazione dei gruppi dirigenti. Il rapporto tra questi elementi deve presupporre insieme disciplina e partecipazione; un rapporto organico tra governanti e governati tendente a generare una volontà collettiva, non l’accoglimento passivo e meccanico di ordini da eseguire senza discutere. Se concepita in questo modo, la disciplina non annulla la personalità e la libertà, ma diviene consapevole assimilazione di un indirizzo da realizzare.
Il problema non è la disciplina in quanto tale ma la fonte da cui proviene quell’indirizzo: se questa è democratica, non un arbitrio o un’imposizione esteriore, allora la disciplina diviene un elemento necessario. Per Gramsci il rapporto governanti governati è conseguente alla divisione del lavoro, alla distinzione tra funzioni intellettuali e manuali: «ogni uomo è un filosofo», è l’organizzazione tecnica a farne un diretto e non un dirigente, pertanto se lo scopo principale di un partito consiste nel formare dirigenti il suo dato di partenza deve risiedere nel non ritenere naturale e immodificabile quella distinzione. Il problema dell’assenza di un rapporto organico di rappresentanza in politica non riguardava solo i partiti di élite della tradizione liberale, dove la funzione di direzione era esercitata unilateralmente da uomini di cultura, ma anche i cosiddetti partiti di massa del movimento operaio. Se le masse in un partito non hanno altra funzione al di là della fedeltà militare verso i gruppi dirigenti il rapporto dualistico è esattamente lo stesso: «la massa è semplicemente di manovra e viene occupata con prediche morali, con pungoli messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate».
Un partito serio, non l’espressione arbitraria di individualismi, deve essere portatore di qualcosa di simile allo spirito statale, un sentimento di appartenenza che lega il presente e il futuro con la tradizione e rende i suoi cittadini solidali con l’azione storica delle forze spirituali e materiali nazionali. Allo stesso modo deve esistere uno spirito di partito, un senso di responsabilità generale, da non confondere con la “boria di partito”.
GIANNI FRESU

 

Gramsci contro l’ipocrisia delle regole

Gramsci: Naturale e contro natura. Il significato convenzionale dei valori morali.

Martedì 30 giugno 2009
Per Gramsci, se si vuole comprendere la storia dell’umanità bisogna evitare una sua rappresentazione per compartimenti stagni. La complessità della realtà è data dalle mille sfaccettature in cui si essa si compone, dallo stretto intreccio di elementi diversi che emergono nel movimento dialettico della storia. In tal senso “I Quaderni del carcere” indagano a 360 gradi senza fermarsi né davanti ai templi incensati dell’alta cultura, né di fronte a quegli aspetti della cultura popolare o del senso comune ritenuti frivoli o insignificanti. Trattano, infatti, con la stessa curiosità e assenza di pregiudizio la grande filosofia come i romanzi d’appendice. Il volume 15 in uscita domani contiene il quaderno 11 intitolato “Introduzione alla filosofia”, e il quaderno 16 “Argomenti di cultura”. Tra essi è possibile trovare temi che ancora oggi riempiono le pagine dei giornali. Oggi come allora, ad esempio, determinati comportamenti personali e manifestazioni del costume sono classificati come “naturali” o “contro natura”. Secondo Gramsci, naturale coincide con ciò che si considera giusto e normale sulla base della coscienza storica attuale, anche se noi tendiamo a rappresentarlo in termini assoluti e immutabili. Sulla base di quella coscienza storica, divenuta senso comune, vengono definiti contro natura determinati comportamenti, specie sessuali, riscontrabili invece nel mondo animale.
La natura dell’uomo è determinata dall’insieme dei rapporti sociali che formano una coscienza storica. I modelli culturali, gli stili di vita e i rapporti sociali non sono fissi e omogenei per ogni uomo, luogo e tempo, ma sono in rapporto contraddittorio e in continuo mutamento e soprattutto non hanno nulla a che vedere con la naturalità delle cose. Ciò che in un periodo storico si afferma come necessario e universale è determinato dal tipo di civiltà economica nel quale si è inseriti. Essa non solo definisce l’obiettività e la necessità di un determinato attrezzo per la produzione, stabilisce norme di condotta morale, gli stili educativi, le regole di convivenza di una determinata società. Nella storia capita che certe concezioni morali risultino invecchiate e non più corrispondenti alla realtà e la loro persistenza sia solo formale, esteriore, inducendo «a una doppia vita, all’ipocrisia e alla doppiezza». La facciata della rispettabilità, dell’ossequio ai valori religiosi e familiari parallelamente a una seconda vita all’insegna della trasgressione e dell’edonismo. Nuovamente, il problema non è la naturalità dei comportamenti ma la natura convenzionale dei valori morali e, se vogliamo, la sincerità con cui li si assume come norma di condotta.
Le fasi esasperate di libertinaggio e dissolvimento della morale tradizionale che in genere reagiscono contro questa condizione di doppiezza, annunciano per Gramsci una nuova concezione morale che si va affermando. Con questa chiave di lettura, ad esempio, la stagione di contestazione culturale del ’68 potrebbe essere compresa molto più razionalmente.
G. F.

Gramsci a Cagliari, gli anni difficili della giovinezza

MEMORIA.

Nessuna epigrafe oggi ricorda i luoghi che frequentò durante il periodo del liceo

Gramsci a Cagliari, gli anni della difficile giovinezza

Dal caffè Tramer al Dettori, dal circolo Bruno alla trattoria di Stampace

“L’Unione Sarda”, martedì 30 giugno 2009
Nel 1891, quando nasce Gramsci, l’Italia era impegnata da alcuni anni nella guerra doganale con la Francia ingaggiata da Crispi per difendere la nascente industria nazionale e le grandi produzioni agricole dei latifondi. La Sardegna, travolta nell’87 dal crollo del suo sistema bancario, vide chiudersi improvvisamente il mercato della Francia verso cui era destinato la gran parte delle sue esportazioni, in particolare bestiame, agrumi, vino e olio. Ciò provocò l’ulteriore immiserimento e abbandono delle campagne dove l’unica alternativa era la pastorizia, azzoppata però dal costituirsi tra il 1885 e il 1900 delle prime industrie casearie che imponevano un prezzo del latte talmente basso da impedire qualsiasi ipotesi di sviluppo. L’altra alternativa alla fame erano le miniere, ma anche qui le condizioni di vita e lavoro erano disastrose e, a causa della crisi, a fronte di un costante aumento dello sfruttamento si registrava la diminuzione dei salari, enormemente più bassi rispetto al resto d’Italia. L’Isola era considerata dallo Stato una grande prigione a cielo aperto e così i funzionari statali coinvolti negli scandali venivano mandati qua ad esercitare le loro funzioni. L’insieme di queste condizioni creava in Sardegna una contesto potenzialmente esplosivo dato dalla difficile condizione sociale, dal risentimento verso le “ingiustizie subite”, dal bassissimo prestigio di cui godeva lo Stato italiano presso le masse popolari e i ceti medi, dalla convinzione di ricevere dalle autorità un trattamento da dominio coloniale. Anni segnati dall’eccidio di Buggerru, che non a caso originò il primo sciopero generale della storia d’Italia, e dai moti insurrezionali del 1906 partiti proprio da Cagliari.
Tutto questo è importante perché l’opera di Gramsci non è il grande piano “steso a tavolino” da un intellettuale brillante, si tratta semmai di un lavoro che nasce a tamburo battente nel vivo di lotte sociali, dall’esperienza diretta di una condizione di miseria ed emarginazione sociale. Gramsci arriva a Cagliari nel 1908, dopo gli anni nello “scalcinato” ginnasio di Santu Lussurgiu, e un’infanzia a Ghilarza resa difficile dai problemi di salute e da una condizione economica pesantissima conseguente alla carcerazione del padre. Complice l’isolamento geografico, Cagliari era allora in tutti sensi la capitale della regione, percorsa dai fermenti sociali, dalle prime manifestazioni di una politica di massa, da una certa vivacità culturale testimoniata dall’esistenza di ben tre quotidiani e diversi periodici di approfondimento e polemica politica.
A Cagliari, dove il fratello maggiore Gennaro diviene segretario della sezione socialista e tesoriere della Camera del lavoro, Gramsci si avvicina al socialismo ma non disdegna i temi della rivendicazione sardista. Come egli stesso ricorderà criticamente in seguito, negli anni cagliaritani non era inusuale sentirgli pronunciare la frase “a mare sos continentales”. Nel capoluogo Gramsci divide prima una camera in affitto in Via Principe Amedeo 24, poi si trasferisce in un’umida stanzetta nel Corso Vittorio Emanuele 149, e frequenta il Liceo Classico Dettori allora situato in piazza Dettori nel centro della Marina. Sembra impossibile, eppure in nessuno di questi tre luoghi della città esiste una lapide che ricorda il passaggio dell’autore italiano più studiato e tradotto al mondo insieme a Dante e Machiavelli. Potendo contare su una disponibilità economica che a stento gli consentiva di sopravvivere, solo raramente poteva permettersi un qualche tipo di evasione che comunque non andava mai oltre un caffé da Tramer in Piazza Martiri, o un pasto frugale con il fratello nella trattoria di Piazza del Carmine. Negli anni liceali Gramsci si fa promotore con i suoi compagni del circolo “i martiri del libero pensiero: Giordano Bruno”, dove assume anche il suo primo incarico come tesoriere, entra in contatto con le riviste e i giornali socialisti, compie le sue prime investigazioni filosofiche che lo portano dall’idealismo di Benedetto Croce al materialismo storico di Marx.
Cagliari dà a Gramsci anche l’opportunità di cimentarsi con il giornalismo con le prime corrispondenze per “L’Unione Sarda”. Si potrà obiettare che negli avvenimenti epocali che segnano la sua biografia quelli cagliaritani fossero semplici episodi, eppure è in quegli anni che Gramsci forma il suo carattere, inizia a forgiare le sue attitudini intellettuali e la sua propensione alla militanza politica. Anni importanti dunque, che forse meriterebbero di essere indagati più in profondità di quanto si sia finora fatto.
GIANNI FRESU

Ecco il moderno principe del popolo

Ecco il moderno principe del popolo

Antonio Gramsci applica al marxismo la lezione di Machiavelli

Martedì 23 giugno 2009
Il volume 14 in uscita domani raccoglie i Quaderni 10, 12, 13 e 18, probabilmente tra i più significativi dell’opera carceraria. I primi due si occupano della filosofia di Benedetto Croce e degli intellettuali nella storia d’Italia; gli altri due analizzano gli scritti di Machiavelli attorno al problema della costruzione di un grande Stato nazionale in Italia, sul modello di quanto avvenuto in Francia e Spagna. Per quanto anche in Machiavelli fosse presente un richiamo al passato di Roma, l’esigenza dello Stato non era ricondotta alle glorie dell’antichità, non aveva significato retorico letterario, ma era desunta da specifiche necessità del presente. Il Segretario fiorentino ha il merito di aver pensato la politica come scienza autonoma con le sue leggi e problematiche peculiari. Sebbene ritenesse esagerate certe rappresentazioni di Machiavelli come scienziato della politica per eccellenza, attuale in ogni tempo, Gramsci nutriva nei suoi confronti un interesse che non era di semplice ricostruzione storiografica.
Come Il Principe aveva posto l’obiettivo della creazione di un moderno Stato unitario in Italia, in una fase di assoluta disgregazione nazionale, così Gramsci si proponeva allora di scrivere un Moderno Principe che affrontasse in termini politici il tema della fondazione di un nuovo Stato, quello dei lavoratori, in una fase di sconfitta e arretramento del movimento operaio. Gramsci ipotizzava la stesura di un Moderno Principe inteso non più come una singola persona ma come un organismo che incarna “plasticamente” la volontà collettiva delle masse popolari, egli pensava ad un moderno partito comunista di massa. Il Principe di Machiavelli non era una fredda utopia ma un “libro vivente”, perché riusciva a fondere l’ideologia e la scienza politica con il mito, perché in esso la concezione politica si impersonava in un condottiero ideale che pur non esistendo nella realtà storica immediata, rappresentava la volontà collettiva di un popolo disperso e polverizzato; un libro che attraverso la sua forma fantastica e artistica aveva la capacità di stimolare, persuadere, suscitare l’organizzazione di quella volontà collettiva. La modernità del Principe stava nella comprensione che senza l’irrompere delle grandi masse nella vita politica non era possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare. Questa intuizione era contenuta nell’idea della riforma della milizia per sostituire i mercenari con una milizia nazionale attraverso l’ingresso delle masse contadine. Dalla restaurazione del 1815 in poi tutta la storia mostrava invece lo sforzo delle classi dominanti per impedire questa irruzione.
L’idea gramsciana di un Moderno Principe, vale a dire l’edificazione di un partito reale espressione delle masse popolari, aveva quale suo intento principale proprio la rottura di questo “equilibrio passivo” tramite la realizzazione di una “riforma intellettuale e morale”, ossia una profonda riforma politica ed economica capace di porre fine alla condizione di subalternità, anzitutto sul piano economico-sociale, delle masse popolari.
GIANNI FRESU

 

Forza e consenso nello Stato etico

Forza e consenso nello Stato etico

Rinchiuso in cella Gramsci elabora il modello politico e sociale

Martedì 16 giugno 2009
Insieme all’ideologia, Gramsci ha condiviso con Marx la grande attenzione e ammirazione verso la borghesia e il suo modello politico-sociale. Entrambi aspiravano a fare del socialismo l’erede della borghesia più che il suo becchino. Così non è un caso se i due teorici del comunismo siano tra i più grandi studiosi della storia della borghesia e del capitalismo. I “Quaderni del carcere” sono una delle più alte manifestazioni di questa attenzione e il volume 13, in uscita domani, ne è una significativa testimonianza. Ciò che distingueva maggiormente la borghesia nella sua fase rivoluzionaria – scrive Gramsci -, era la sua capacità di includere altre classi sociali e dirigerle attraverso lo Stato, l’egemonia politica e sociale. Mentre nel feudalesimo l’aristocrazia, organizzata come “casta chiusa”, non si poneva il problema di inglobare le altre classi, la borghesia si rivela ben più dinamica e mobile puntando all’assimilazione del resto della società al suo livello economico e culturale. Questo muta profondamente la funzione dello Stato rendendolo “educatore”, anche attraverso la funzione egemonica del diritto nella società.
La borghesia storicamente opera a rendere omogenee (per costumi, morale, senso comune) le classi dirigenti e creare un conformismo sociale capace di consolidarne il potere, attraverso una combinazione di forza e consenso. In questo modo riesce a irreggimentare e dirigere con schemi culturali propri anche le classi dominate. Ogni Stato è etico nella misura in cui opera per elevare l’insieme della popolazione a un livello culturale e morale confacente allo sviluppo delle forze produttive e agli interessi delle classi dominanti. Tale importantissima funzione trova nella scuola e nei tribunali le attività statali fondamentali, anche se in realtà esse non sono le sole. Devono essere comprese nel concetto di Stato etico anche l’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti. Così la definizione di Stato etico di Hegel, a cui si fa in genere riferimento nella storia delle dottrine politiche, è propria della fase nella quale la tendenza espansiva della società borghese appariva illimitata.
La natura universale dei valori della società borghese e l’eticità della sua organizzazione statuale si sarebbe potuta esprimere nella trasformazione borghese dell’intero genere umano. La capacità espansiva della borghesia però si ritrae nelle fasi di “crisi organica”, come nella prima recessione del capitalismo mondiale alla fine dell’Ottocento e nella crisi che ha preceduto e seguito la prima guerra mondiale. In queste fasi all’egemonia si sostituisce la forza. Gramsci parla di “rivoluzioni passive” per descrivere quelle fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le riforme vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Il fascismo è uno degli esempi più emblematici di ciò, ma non il solo.
GIANNI FRESU

 

La crisi della politica vista da Gramsci

La crisi della politica vista da Gramsci

Nei Quaderni del carcere anticipò temi oggi sempre di attualità

Martedì 09 giugno 2009
Uno dei temi più ricorrenti in Gramsci riguarda il rapporto tra governanti e governati alla luce delle degenerazioni leaderistiche e carismatiche nella direzione politica. Un esempio in tal senso è contenuto nel Quaderno 6, riprodotto nel Volume 12 in uscita domani, che affronta una serie assai vasta di argomenti ma trova proprio su questo tema alcuni passaggi di assoluta attualità. In essi l’intellettuale sardo si sofferma sul significato negativo assunto dai termini “ambizione” e “demagogia” nel linguaggio politico, per il semplice fatto che si tende in genere a confondere la “grande” con la “piccola ambizione”. L'”ambizione” è così associata all’opportunismo arrivista, al tradimento dei propri ideali e del proprio gruppo sociale per ottenere un maggior guadagno immediato. In realtà queste sarebbero le “piccole ambizioni”, cioè un atteggiamento mentale che spinge alla fretta, ad evitare le difficoltà e i pericoli che l’impegno politico comporta, per conseguire subito un risultato anche se modesto o meschino.
Tuttavia la politica non è concepibile senza ambizione, così come non può esistere un “capo” che non miri all’esercizio del potere, però anche in questo caso il problema non è l’ambizione in sé ma la natura dei rapporti che intercorrono tra il “capo” e la massa con cui si persegue quella “grande ambizione”. Il problema è se l'”ambizione” del capo si eleva dopo aver fatto attorno a sé il deserto, o se questa ambizione è associata alla crescita di tutto uno strato sociale.
Le stesse osservazioni valgono poi per la cosiddetta demagogia, essa è infatti associata alla tendenza generale che porta servirsi delle masse suscitandone l’entusiasmo, sapientemente eccitato e nutrito, con il solo scopo di perseguire le proprie “piccole ambizioni”, che possono poi assumere le forme del parlamentarismo democratico o del bonapartismo plebiscitario e autoritario. Ma se il capo non considera le masse “carne da cannone”, uno strumento buono per raggiungere i propri scopi e poi gettare via, e invece le rende protagoniste storiche di un fine politico organico e generale, la demagogia assume una funzione positiva. La tendenza del demagogo deteriore è quella di rendere se stesso insostituibile, far credere che dietro di lui ci sia solo l’abisso, a tal fine egli elimina ogni possibile concorrente ponendosi direttamente in rapporto, strumentale, con le masse attraverso «il plebiscito, la grande oratoria, i colpi di scena, l’apparato coreografico fantasmagorico». Mentre per Gramsci il capo politico, non mosso dalla piccola ambizione, concorre a creare uno strato intermedio tra sé e la massa, «tende a suscitare possibili concorrenti ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo» in qualsiasi momento. È il grande tema della partecipazione e del rapporto di rappresentanza, vale a dire dei nodi che ancora oggi animano il dibattito sulla cosiddetta “crisi della politica”. Problematiche rispetto alle quali i Quaderni del carcere continuano ad essere, a tanti anni di distanza, un’opera insostituibile.
GIANNI FRESU