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Americanismo e fordismo: l’«uomo filosofo» e il «gorilla ammaestrato»

Americanismo e fordismo: l’«uomo filosofo» e il «gorilla ammaestrato»1.

di Gianni Fresu

 

Nell’indagare le trasformazioni che riguardano i modi di produzione e i sistemi di relazione sociale c’è sempre un rischio in agguato: cercare una scorciatoia nella semplificazione concettuale, evitare la fatica che uno studio serio e rigoroso necessariamente comporta. Nel campo del materialismo storico questa inclinazione ha portato anche serissimi studiosi a trovare un rifugio sicuro nel determinismo e nella teleologia proprio sulla base della tendenza a sopravvalutare elementi puramente particolari e contingenti della realtà. Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere più volte si è trovato a fare i conti con la tendenza all’approssimazione analitica, indotta dalla fretta e dalla volontà dilettantesca di giungere a facili conclusioni attraverso scorciatoie che, come ogni improvvisazione teorica, finiscono inevitabilmente per avere le gambe corte e riescono al massimo ad «indovinare all’ingrosso».

Nelle sue note più volte Gramsci metteva in guardia dalla tendenza a sottovalutare la complessità della realtà. Identificare, di volta in volta, staticamente e con precisione la struttura non è infatti un compito semplice, e in ogni caso nell’analizzare un «periodo strutturale» bisogna sempre tenere conto che esso può venire studiato in termini scientifici solo dopo che il periodo in questione ha superato tutto il suo processo di sviluppo, prima di allora si possono fare solo ipotesi. La poca attenzione nel distinguere ciò che è organico e relativamente permanente da ciò che è occasionale e contingente, ha generato le due tendenze del «dottrinarismo ideologico e pedantensco», che esalta l’elemento volontaristico individuale, e quella opposta dell’economismo volgare, che a sua volta sopravvaluta le cause meccaniche «strutturali». Occorre stabilire il nesso dialettico tra «movimenti e fatti organici» da una parte e «movimenti e fatti di congiuntura» dall’altra, non solo sul piano della ricostruzione storiografica – quando si tratta di ricostruire il passato – ma anche e soprattutto nell’arte politica – quando si tratta di costruire il presente e il futuro – e bisogna accuratamente evitare di farlo in base ai propri pii desideri e alle proprie passioni deteriori, piuttosto che ai dati reali.

Nel rilevare l’assenza di questo nesso dialettico tra movimenti e fatti organici emerge la mancanza di un elemento cruciale per la lettura e la comprensione della realtà, la dialettica. La complessità e contraddittorietà dialettica della realtà – sottovalutata da grandi intellettuali della Seconda Internazionale come Bebel e Kautsky – è un tema che angustia profondamente gli ultimi anni di vita di Friedrich Engels. In una lettera del 27 ottobre 1890 Engels con forza prende le distanze dalla volgarizzazione determinista del marxismo sottolineando la necessità di superarne il meccanicismo: «quel che manca a tutti questi signori [scrive Engels] è la dialettica. Essi vedono sempre e solamente qui la causa, là l’effetto. Non arrivano a vedere che questa è una vuota astrazione, che nel mondo reale simili contrapposizioni metafisiche polari esistono soltanto nei momenti di crisi, ma che l’intero grande corso delle cose si svolge nella forma dell’azione e reazione reciproca, anche se di forze molto ineguali, tra cui il movimento economico è di gran lunga il più forte, il più originario, il più decisivo; essi non arrivano a capire che niente è assoluto e tutto è relativo. Per essi Hegel non è esistito»2.

* * *

Questa premessa non è gratuita nel soffermarsi sulla lettura dell’intellettuale sardo dei temi connessi all’americanismo. Del resto è lo stesso Gramsci a chiarire la complessità del tema «americanismo e fordismo» precisando, sin dall’apertura del Quaderno 12, che esso riguarda le condizioni contraddittorie della società moderna, con tutto il loro carico di «complicazioni, posizioni assurde, crisi economiche e morali». Il fascismo e l’americanismo-fordismo sono le due risposte, profondamente diverse, che la civiltà borghese ha dato alla sua «crisi organica» nel Novecento: la prima è una risposta profondamente regressiva, è una rabbiosa difesa dell’ordine costituito tradizionale, del sistema di privilegi e della stratificazione di rendite parassitarie che nel corso dei secoli si era accumulata nella società europea; la seconda costituisce invece una risposta progressiva e razionale – seppur segnata anch’essa dalle sue intime contraddizioni – che avrebbe sancito il passaggio dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica. Come rileva Alberto Burgio, «il tentativo americano contiene agli occhi di Gramsci elementi di indubbia razionalità, potenzialmente in grado di determinare il superamento di quel vecchio individualismo economico la cui difesa costituiva invece, come sappiamo, una finalità costitutiva del fascismo»3.

L’americanismo-fordismo, e il suo sforzo nella costruzione di un’economia programmatica, segna la sostituzione dei vecchi ceti plutocratici attraverso la realizzazione di un nuovo sistema di accumulazione e distribuzione del capitale finanziario, fondato immediatamente sulla produzione industriale ed epurato da tutti i filtri di intermediazione propri della civiltà europea. Non è un caso che in Europa i tentativi di introdurre questi elementi di economia programmatica si siano scontrati con molte resistenze «intellettuali» e «morali», ma soprattutto abbiano dato luogo al fallace tentativo di conciliare il fordismo con l’anacronistica struttura sociale-demografica del vecchio continente. «l’Europa [scrive Gramsci] vorrebbe avere la botte piena e la moglie ubriaca, tutti i benefici che il fordismo produce nel potere di concorrenza, pur mantenendo il suo esercito di parassiti che divorano masse ingenti di plusvalore, aggravano i costi iniziali e deprimono il potere di concorrenza sul mercato internazionale»4. È in questa contraddizione che va ricercata l’origine più profonda della «crisi organica» che ha investito le grandi nazioni europee nel dopo-guerra.

Gramsci era consapevole – tale tema fu oggetto di discussione approfondita nei Congressi del Comintern – che la natura instabile del nuovo equilibrio scaturito dalla fine della guerra andava rintracciata nei colossali scompensi di produzione, commercio e credito dell’intero mercato mondiale; non c’era infatti solo la Germania in ginocchio, in preda ad un indebitamento pubblico insostenibile, alla svalutazione monetaria, all’aumento dei prezzi. La stessa Inghilterra era uscita vincitrice dal conflitto mantenendo tutti i suoi possedimenti e conquistandone di nuovi, tuttavia era oramai manifesta la contraddizione tra il suo predominio nel mondo e il suo declino economico che l’avrebbe portata a diventare una potenza di secondo ordine. Paradossalmente proprio l’Inghilterra, tra le potenze vincitrici, fu la nazione più colpita dalla guerra. La sostituzione del carbone con l’energia elettrica e col petrolio, la drastica riduzione delle esportazioni dei prodotti industriali provocano una disoccupazione mai vista sul suolo inglese, con un picco massimo nel 1926. Ad aggravare questa crisi economica concorse anche la nascita dei movimenti di emancipazione e indipendenza nazionale dei popoli coloniali soggetti alla corona britannica, sviluppatisi enormemente specie dopo la rivoluzione d’ottobre.

Alla crisi economica si tentò di rispondere non razionalizzando il sistema economico, vale a dire eliminando tutti i vortici di rendita parassitaria di cui parlano i Quaderni, ma aumentando i livelli di sfruttamento del lavoro e riducendo la quota di plusvalore destinata ai salari. L’Europa, indebitata sino al collo, era in preda ad un declino produttivo di cui non si intuivano ancora i possibili esiti, necessitava di prodotti americani ma trovava un ostacolo insormontabile nella svalutazione delle sue monete principali; il mercato mondiale era totalmente disorganizzato, contraddistinto dal fronteggiarsi tra il dumping europeo e il protezionismo statunitense, dallo scatenarsi di improvvise quanto devastanti tempeste speculative, che portavano la produzione capitalistica a perdere tutti i suoi normali punti di riferimento. A questo andava aggiunto il fenomeno della proletarizzazione della piccola e media borghesia europea, e l’acuirsi delle tensioni sociali. Così se da un lato la distruzione delle forze produttive aveva portato l’Europa ad arretrare di decenni nella sua disponibilità di risorse materiali, dall’altro il livello dello scontro di classe si era accresciuto in maniera esponenziale. In una simile situazione la ricostruzione dell’apparato produttivo distrutto dalla guerra ed una ripresa effettiva dello sviluppo economico richiedeva enormi quantità di capitali che l’Europa non aveva.

L’americanismo, per attuarsi concretamente, necessita di una condizione preliminare che Gramsci definisce «composizione demografica razionale», vale a dire, che non esistano classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo, «classi parassitarie». Al contrario la civiltà europea era contraddistinta dal proliferare di classi simili generate dalla ricchezza e complessità della storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito. Scrive Gramsci che quanto più vetusta è la storia di un paese tanto più estese e dannose sono queste «sedimentazioni di masse fannullone e inutili che vivono del patrimonio degli avi, di questi pensionati della storia economica». In dettaglio Gramsci analizza come questa realtà fosse operante nel sistema italiano delle «cento città», soffermandosi sull’ apparato di industriosità non produttiva che caratterizza il «mistero di Napoli», per concludere che «si può ripetere per molta popolazione di tal genere di città il proverbio popolare: quando un cavallo caca, cento passeri fanno il loro desinare»5. In tal senso il sistema delle rendite garantite alla proprietà terriera meridionale, attraverso il sistema della mezzadria primitiva o in enfiteusi, generava un modo di accumulazione di capitale dei più mostruosi e malsani, perché basato su un livello di sfruttamento usuraio della miseria agraria e perché costosissimo, dato che per mantenere l’elevato livello di vita delle famiglie dei «signori» che vivevano parassitariamente della rendita dei latifondi occorrevano somme inaudite che non consentivano né accumulazione di risparmio, né, tanto meno, alcun tipo di investimento produttivo della rendita agraria. Le articolazioni di «parassitismo assoluto» di cui si occupano le note dei Quaderni – che certo non si limitano al solo latifondismo agrario – non esistevano solo in Italia, ma erano presenti, in misura minore o maggiore, in tutti i paesi del vecchio continente, come anche in India e in Cina.

Al contrario l’America non era gravata da questa zavorra storica e anche in ciò va ricercata la ragione della sua straordinaria capacità di accumulazione dei capitali pur in presenza di un tenore di vita superiore rispetto a quello delle classi popolari europee. L’assenza di quelle sedimentazioni aveva conferito una base sana all’industria e al commercio consentendo una significativa riduzione di molte fasi intermedie tra la produzione e la commercializzazione dei beni. Ciò inevitabilmente aveva degli effetti positivi nell’accumulazione come nella capacità d’investimento e nella distribuzione della ricchezza prodotta. Queste pre-condizioni avevano pertanto reso relativamente facile il processo di razionalizzazione tra produzione e lavoro attraverso la combinazione della coazione sociale (la distruzione del sindacalismo operaio), e del consenso (alti salari, benefici sociali, propaganda ideologica e politica). L’americanismo consiste nell’imperniare tutta la vita del paese sulla produzione: «l’egemonia nasce nella fabbrica e non ha bisogno per esercitarsi che di una quantità minima di intermediari professionali della politica e dell’ideologia».

Questo processo di razionalizzazione necessitava però la creazione di un nuovo tipo lavoratore plasmato sulle esigenze della produzione. In America la razionalizzazione del lavoro e il proibizionismo avevano profondi momenti di connessione, e alla luce di questa si spiegavano le inchieste sulla vita degli operai e le ispezioni delle aziende per verificarne la moralità. La moralità intesa come necessità del nuovo metodo di lavoro, ovviamente. Chi vedesse in questo una semplice manifestazione di puritanesimo ipocrita non comprenderebbe la portata del «fenomeno americano» che per Gramsci è lo sforzo collettivo più grande che sia stato mai realizzato, con una «coscienza del fine» senza precedenti nella storia, per creare un nuovo tipo di lavoratore e di uomo. L’espressione usata da Taylor «gorilla ammaestrato» esprime alla perfezione, seppur in maniera brutale e cinica, questo fine della società americana: «sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale». Ma per Gramsci non ci troviamo di fronte ad una realtà del tutto originale, bensì al punto di approdo di un lungo processo di trasformazione che si afferma con l’industrialismo.

Le attenzioni per il comportamento del lavoratore non sono certo dettate, in industriali come Ford, dalla preoccupazione per la sua «umanità» e «spiritualità», ma hanno il solo fine di conservare, al di fuori del lavoro, un equilibrio psico-fisico che impedisca un collasso del lavoratore sulla produzione. L’umanità e la spiritualità sulla produzione raggiungeva il suo livello massimo nell’opera dell’artigiano, dove la personalità del lavoratore si rifletteva nell’oggetto creato, ma l’industrialismo, e il taylorismo in particolare, dirige la sua brutalizzazione nella divisione del lavoro proprio contro questa umanità e spiritualità del lavoratore. L’industriale americano ha quale sua unica preoccupazione l’efficienza fisica (psico-muscolare) per garantire una stabilità e una continuità nella produzione. L’industriale fordista ha cura delle maestranze per la semplice ragione che «l’azienda è come una macchina che non deve essere troppo spesso smontata e rinnovata nei suoi pezzi singoli senza perdite ingenti». In tal senso anche la crociata del proibizionismo secondo Gramsci era una battaglia contro l’agente più pericoloso di distruzione della forza lavoro, un modo per uniformare gli stili di vita della classe operaia alla nuova divisione del lavoro che il taylorismo andava a creare. Lo stesso discorso vale per i comportamenti sessuali, la cui irregolarità era, insieme all’alcool, un nemico pericoloso delle energie nervose. Anche perché è insito nei lavori monotoni, ripetitivi e ossessionanti l’indurre comportamenti di depravazione alcolica e sessuale. In tal senso si spiega per quale ragione Ford arrivò a creare corpi ispettivi aziendali per controllare come gli operai spendevano il loro danaro e le loro attitudini «private o latenti» sul piano sessuale. È estremamente interessante il modo con cui Gramsci in queste note pone in stretta connessione le esigenze del modo di produzione con i tratti salienti del puritanesimo e dell’ideologia americana, non riducendo la crociata proibizionista e quella per la moralizzazione dei costumi ad una semplice tendenza culturale e religiosa. Gramsci parla in proposito di «ideologia statale» che si innesta nel puritanesimo tradizionale presentandosi come un «rinascimento della morale dei pionieri, del vero americanismo (…) Appare chiaro che il nuovo industrialismo vuole la monogamia, vuole che l’uomo lavoratore non sperperi le sue energie nervose nella ricerca disordinata ed eccitante del soddisfacimento sessuale occasionale: l’operaio che va al lavoro dopo una notte di stravizio non è un buon lavoratore, l’esaltazione passionale non può andar d’accordo coi movimenti cronometrati dei gesti produttivi legati ai più perfetti automatismi»6.

Ma per quanto i tentativi di spersonalizzazione del lavoro, propri dell’industrialismo taylorista, possano essere profondamente pervasivi, secondo Gramsci, l’obiettivo di trasformare l’operaio in «gorilla ammaestrato» è destinato a fallire. Questo perché quando la suddivisione delle funzioni lavorative giunge al suo grado di perfezionamento e specializzazione tecnica – quello che Gramsci definisce «processo di adattamento» – il cervello dell’operaio anziché mummificarsi si libera. La meccanizzazione riguarda solo il gesto fisico: «la memoria del mestiere, ridotto a gesti semplici ripetuti con ritmo intenso si è annidata nei fasci muscolari e nervosi che ha lasciato il cervello libero e sgombro per altre occupazioni»7. Come si cammina, senza il bisogno che il cervello sia impegnato su tutti i movimenti che il camminare comporta, allo stesso modo il lavoro dell’operaio «fordizzato» non determina l’annullamento delle funzioni intellettive nell’atto produttivo. Il tentativo di brutalizzazione dell’industrialismo è dunque orientato a rendere costantemente operante e invalicabile la separazione tra lavoro manuale e funzioni intellettuali e proprio in questa sua irrealistica aspirazione sta il suo maggior limite.

Nel Quaderno 12 Gramsci sottolinea come, nell’identificazione della figura dell’intellettuale, l’errore più grossolano che viene compiuto, risiede nel cercare quale suo elemento distintivo e caratterizzante, la natura intrinsecamente intellettuale delle sue attività, anziché ricercarla «nel sistema dei rapporti in cui esse vengono a trovarsi nel complesso generale dei rapporti sociali», e dunque nella posizione sociale che questi vengono ad assumere in base ai rapporti di produzione esistenti. Per spiegare questo concetto Gramsci porta proprio l’esempio dell’operaio industriale: ciò che lo contraddistingue, infatti, non è la natura intrinsecamente manuale o strumentale della sua attività lavorativa – dato che se così fosse non si distinguerebbe dalle precedenti forme di lavoro anch’esse manuali e strumentali – ma la natura di quel lavoro in relazione a determinate condizioni e a determinati rapporti sociali. Allo stesso modo, nonostante l’imprenditore debba possedere alcune qualifiche di carattere intellettuale, la sua figura sociale è data «dai rapporti generali sociali che caratterizzano appunto la posizione dell’imprenditore nell’industria».

«Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò; ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali (così, perché può capitare che ognuno in qualche momento si frigga due uova o si cucisca uno strappo della giacca, non si dirà che sono tutti cuochi e sarti). Si formano così storicamente delle categorie specializzate per l’esercizio della funzione intellettuale, si formano in connessione con tutti i gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante»8.

Dunque quando ci si riferisce in genere alla distinzione tra intellettuali e non intellettuali, si prende quale solo elemento distintivo quello preponderante nell’attività specifica professionale e quindi dell’elaborazione intellettuale o alternativamente dello sforzo muscolare-nervoso. Ma anche tenendo conto di questa classificazione, assai superficiale, per Gramsci si può parlare di intellettuali ma non si può parlare di non intellettuali, cioè si può affermare che i non intellettuali non esistono, perché in primo luogo, non esiste attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, e perché, in secondo luogo, ogni uomo al di fuori della sua attività professionale esplica una qualche attività intellettuale, è un «filosofo» che partecipa ad una determinata concezione del mondo che contribuisce con il suo operare a sostenere o a modificare9.

Di tale verità gli industriali erano consapevoli: l’operaio «purtroppo» resta uomo e non solo non gli si può impedire di ragionare ma la stessa specializzazione di semplici funzioni ripetitive gli lascia maggiori possibilità di pensare rispetto alle forme di lavoro nel quale è presente una componente di «umanità» e «spiritualità». Questa per Gramsci è massima nel lavoro artigiano, dove esiste ancora un forte nesso arte-lavoro. Al contrario l’insoddisfazione indotta dalla monotonia ossessiva del lavoro, che non consente alcuna sintonia creativa tra la personalità del lavoratore e il frutto del suo lavoro, porta l’operaio a sviluppare pensieri «poco conformisti». La fabbrica taylorista porta dunque alle estreme conseguenze il fenomeno dell’alienazione già presente nelle precedenti forme organizzative della produzione industriale e insieme accresce i fattori essenziali alla deflagrazione del conflitto sociale. Tutto ciò significa che, per quanto sia enormemente più razionale e progressivo delle precedenti forme di organizzazione economica capitalistica, il taylorismo non può dispiegare a pieno tutte le sue potenzialità proprio per le contraddizioni di classe in seno alla direzione di tale processo. In una fase storica in cui l’operaio acquisisce coscienza di sé e della sua funzione e in ragione di questo raggiunge una piena soggettività sociale e politica, l’automatizzazione del lavoro non è in grado di andare oltre la contraddizione fondamentale tra capitale e lavoro. Il taylorismo può dispiegare al meglio la sua natura programmatica solo in un contesto dominato dall’autogestione operaia, dall’assunzione di una funzione di direzione economica da parte del proletariato. Proprio l’assenza di questa, e il pretendere di concentrare tutto lo sforzo verso lo sviluppo delle forze produttive al solo momento della coercizione esteriore, rendeva fallimentare anche la prospettiva della militarizzazione del lavoro proposta da Trockij per far fronte alla disgregazione economica russa. La posizione di Trockij sulla «militarizzazione del lavoro» era per Gramsci strettamente connessa alla problematica della «razionalizzazione della produzione e del lavoro» propria dell’americanismo, ma esprimeva una tendenza assai più arretrata. L’obiettivo essenziale di questa posizione consisteva nel dare supremazia all’industria, sia in termini produttivi che culturali, attraverso un utilizzo di metodi coercitivi che accelerassero i processi di trasformazione della società in direzione della disciplina e dell’ordine nella produzione con l’adeguamento dei costumi alle necessità del lavoro. L’impostazione in questi termini del problema doveva sfociare necessariamente in una forma deleteria di «bonapartismo». Le preoccupazioni che stavano alla base delle posizioni di Trockij erano giuste ma le soluzioni proposte erano per Gramsci profondamente errate.

Come abbiamo visto il perfezionamento del metodo taylorista presuppone una continuità e una stabilità nella composizione delle maestranze, vale a dire una limitazione nei fenomeni di turn over della mano d’opera. Questo alla Ford avveniva attraverso il sistema degli alti salari perché la sola coazione sociale, oltre a non bastare, sarebbe stata anche più costosa degli alti salari. Tuttavia Gramsci ha già allora ben chiaro che il sistema di alti salari sarebbe stato un fatto transitorio, nel senso che sarebbe venuto meno con la fine del monopolio tecnico-industriale da parte di alcune aziende, sia negli USA che all’estero. Con la concorrenza, che la produzione razionalizzata, generalizzata e a basso costo inevitabilmente determina, spariscono gli alti profitti e a quel punto a limitare il fenomeno del turn over può al massimo intervenire la pressione dell’esercito industriale di riserva nel mentre ingrossatosi.

Ma nonostante il sistema degli alti salari alla Ford persisteva una grande instabilità della mano d’opera, una simile tendenza è dovuta al fatto che l’organizzazione taylorista richiedeva un tipo di qualifica che comportava livelli di sfruttamento della forza lavoro molto maggiore che neanche gli alti salari erano in grado di compensare. Alla luce di tutte queste considerazioni Gramsci si pone la domanda se il sistema taylorista sia realmente «razionale», ed in quanto tale da generalizzare, o se invece si tratta di un «fenomeno morboso» da combattere con le lotte sindacali e la limitazione legislativa. Gramsci conclude che il metodo taylorista è razionale ma aggiunge che per trovare applicazione occorre un profondo mutamento delle condizioni sociali, dei costumi e degli stili di vita. Ma soprattutto è necessaria una sua estensione attraverso il consenso, la persuasione e non soltanto attraverso la coazione sociale. Quindi anche attraverso un sistema di alti salari accompagnato ad un miglioramento complessivo della qualità della vita per compensare il forte dispendio di energie muscolari e nervose che un simile modo di lavoro comporta. Questo significa che in primo luogo va garantita la continuità e la stabilità del lavoro, vale a dire, favorire in tutti i modi il formarsi di una competenza delle maestranze che non venga messa in discussione neanche da una crisi congiunturale o da un temporaneo arresto della produzione: «sarebbe antieconomico [aggiunge Gramsci] lasciare disperdere gli elementi di un tutto organico costituito faticosamente perché sarebbe quasi impossibile raccozzarli insieme, mentre la sua ricostituzione con elementi nuovi, di fortuna, costerebbe tentativi e spese non indifferenti»10.

Ma come già accennato, per quanto Gramsci definisca razionale e progressivo l’americanismo-fordismo, ciò non gli impedisce di affermare che esso è destinato a fallire, o meglio che non è in grado di superare le contraddizioni sociali della crisi organica del capitalismo. Esso basa il suo disegno di economia programmatica sul tentativo di rendere il lavoratore una semplice estensione della macchina al punto da pretendere di conformare le sue attitudini e i suoi stili di vita alle esigenze della produzione. Ma, come abbiamo visto, per Gramsci nella lotta tra il «gorilla ammaestrato» e l’«uomo filosofo» è quest’ultimo a prevalere e a questo consegue che anche l’altro presupposto per l’omogeneizzazione della società ai fini della produzione fordista – il superamento del conflitto capitale lavoro – viene a non realizzarsi.

Tenendo conto che le riflessioni di Gramsci sull’americanismo-fordismo potevano essere solo ipotesi – dato che un «periodo strutturale» può venire studiato in termini scientifici solo dopo che il periodo in questione ha superato tutto il suo processo di sviluppo – possiamo senz’altro dedurre che molte di esse hanno trovato una puntuale conferma nella realtà storica successiva. Dunque, se solo di ipotesi si tratta, possiamo trarre da esse anzitutto un canone di lettura possibile essendo certi che attraverso di esso Gramsci non si sia limitato ad «indovinare all’ingrosso», ma ci abbia invece fornito un contributo enorme per comprendere la complessità dei «tempi moderni» che ci è quanto mai utile, ancora oggi, in un’epoca sempre più segnata dalle contraddizioni della cosiddetta «crisi della modernità».

 

1 Pubblicato su NAE, Rivista trimestrale di cultura, Anno V n. 18/2007.

2 F . Engels, Sul materialismo storico, Editori Riuniti Roma, 1949, pag. 84.

3 Alberto Burgio, Gramsci storico, Editori Laterza, Bari, 2002, pag. 212

4 Quaderni del carcere, cit. pag. 2141

5 Ivi, pag. 2143

6 Ivi, pag. 2167

7 Ivi, pag. 2171

8 Ivi, p. 1516

9 Ho avuto modo di trattare con estensione il tema della frattura storica tra lavoro manuale e lavoro intellettuale nel pensiero di Gramsci, nel libro Il Diavolo nell’ampolla, Antonio Gramsci gli intellettuali e il partito, La città del sole, Napoli, 2005, a cui rimando per ulteriori approfondimenti.

10 Ivi, pag. 2174

 

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.