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LA II CONFERENZA NAZIONALE DEI GC: Bilancio di un dibattito

LA II CONFERENZA NAZIONALE DEI GC

Bilancio di un dibattito

«l’ernesto» n. 4 luglio/agosto 2002

 

Gianni Fresu

 

La II Conferenza Nazionale dei GC, tenutasi a Marina di Massa tra il 4 e il 7 luglio, ha visto la presenza di quattro documenti contrapposti grazie ai quali il confronto dialettico si è espresso nella sua più assoluta chiarezza. Tra questi il nostro documento –Giovani e Comunisti- ha ottenuto il 18,3% dei consensi, risultato più che lusinghiero, soprattutto se consideriamo che per la prima volta ci siamo presentati con un documento alternativo, e che dunque siamo dovuti partire praticamente da zero; il secondo documento –espressione del gruppo di “Proposta”- ha preso il 10,4%; il quarto documento – riconducibile al gruppo di “falce e martello”- il 7,3%; quello di maggioranza il 63,9%.

Nel porci in alternativa alla linea espressa dall’Esecutivo uscente dei GC, ne abbiamo contestato l’inconsistenza sul piano organizzativo, le modalità attuate nella definizione della linea, dell’azione politica e della gestione dell’organizzazione, ma soprattutto la debolezza nell’impostazione analitica e propositiva nel suo complesso, che secondo noi lascia intravedere una certa «volubiltà» ideologica frutto dell’assurda convinzione secondo la quale ciò che deve guidare la nostra azione politica per poter essere al passo con i tempi e accettati nei movimenti, deve essere la «contaminazione», anteposta e in gran parte degli interventi contrapposta all’egemonia, ritenuta invece una categoria, residuo di un vecchio armamentario comunista, superata e autoritaria. In realtà alla base di questa convinzione c’é l’assoluta ignoranza di questa categoria, che viene interpretata come un modo burocratico attraverso il quale un partito comunista ottiene voti e iscritti, cioè un’interpretazione che non ha niente a che vedere con l’egemonia stessa che si basa invece sull’idea che in un paese a capitalismo avanzato le modalità di dominio del potere vanno ben al di là dello Stato e dei suoi apparati repressivi e coattivi, esprimendosi nella capacità egemonica sul piano sociale, politico e culturale delle classi dominanti, dunque l’idea per la quale il compito primario di un partito comunista deve essere lavorare alla creazione di un nuovo blocco sociale delle classi subalterne, teso a costruire un’egemonia da parte di queste ultime e in funzione del superamento del modo di produzione capitalistico.

Dunque questa «volubilità» ideologica di cui parliamo è la conseguenza del fatto che come partito non ci poniamo il compito di costruire e esercitare un’ egemonia a partire dalla nostra visione del mondo e pertanto subiamo costantemente quella degli altri. Lo sviluppo del dibattito, tanto nelle tre giornate di Massa, quanto nel percorso delle conferenze federali del mese precedente, non ha fatto altro che confermare queste nostre valutazioni iniziali e dunque ha ulteriormente rafforzato in noi la convinzione della necessità di una linea alternativa. Gli argomenti oggetto di maggior dibattito sono stati almeno tre: movimenti; questioni internazionali; questioni politico-organizzative.

Per quanto riguarda il primo punto va subito detto che l’Esecutivo uscente ha confermato in pieno la sua linea schiacciata sulle posizioni del «laboratorio della disobbedienza» ben riassunte da una frase storicamente nota che è stata pronunciata in vari interventi, “il movimento è tutto il fine nulla!…”, quasi a sancire un’inconsapevole [ce lo auguriamo] continuità tra revisionismi passati e presenti.

Così si è affermato che la «disobbedienza» ha rappresentato il vero motore dell’innovazione e dello sviluppo del «movimento dei movimenti» e la sua più feconda prospettiva di lavoro. Secondo i compagni della maggioranza, la «disobbedienza», pur ponendosi come profonda innovazione ha però anche radici assai profonde, tanto che in diversi interventi è stato detto e ribadito che anche le occupazioni delle terre nel sud Italia –nel secondo dopoguerra- e persino l’occupazione delle fabbriche nel «biennio rosso» potevano essere annoverate in essa.

Ora ciò che noi abbiamo contestato della «disobbedienza» è proprio il fatto che questa si pone come una pratica che ha esaltato «dogmaticamente» le forme di lotta rispetto ai contenuti, che ha fatto del ribellismo fine a se stesso e in quanto tale il suo unico orizzonte1, che fa del gesto un feticcio, che rende l’atto in se il fine stesso. Se si afferma che ciò che contraddistingue la «disobbedienza» è semplicemente il gesto liberatorio del disobbedire all’ordine costituito allora ad essa andrebbero ascritte non solo le occupazioni delle terre nel dopoguerra e delle fabbriche tra il 19 e il 20, ma anche tutte le rivolte antifeudali e le «jauqeries» che la storia ricordi.

In realtà ciò che distingue il movimento dell’occupazione delle fabbriche nel «biennio rosso» e quello dell’occupazione delle terre nel sud nel secondo dopoguerra, tanto dalle rivolte contadine antifeudali, quanto dall’odierna «disobbedienza» è il fatto, che dietro al primo stava il protagonismo della classe operaia e l’esempio della rivoluzione d’ottobre, e dietro al secondo un partito e un sindacato che avevano fatto della «Questione meridionale» un’asse centrale del processo di costruzione del blocco sociale rivoluzionario delle classi subalterne. Insomma ciò che distingue entrambi dalla disobbedienza e dalle «jacquesries», è il fatto che i due movimenti evocati dal passato erano tesi ad un progetto ben più ampio chiamato socialismo, il fatto cioè che entrambi erano inscindibili da una progetto di trasformazione della realtà, del quale sempre più spesso si ha poca memoria, chiamato marxismo, e non erano movimenti caratterizzati semplicemente dalla ribellione all’ordine politico-sociale esistente, dalla «disobbedienza» in quanto tale.

Al di là di queste considerazioni noi abbiamo sottolineato l’importanza di essere soggetto attivo e integrante nella costruzione dei movimenti, ma al contempo abbiamo posto la necessità di un approccio maggiormente critico e problematico, appunto meno dogmatico, al movimento. Nello specifico la nostra riflessione si è appuntata sul fatto che la scelta di entrare nel «laboratorio della disobbedienza», gruppo nato non a partire da una piattaforma politica comune e unificante, ma sulla base dell’utilizzo di determinate forme di lotta, fosse stata compiuta senza aver coinvolto l’insieme dei GC, senza aver dato seguito alla necessità di dibattito che una tale scelta comportava, e soprattutto abbiamo posto il problema delle divisioni che quella scelta, che portava alla costituzione un’organizzazione separata, un gruppo interno al «movimento dei movimenti», stava producendo all’interno di questo, divisioni che nel frattempo si sono ulteriormente acuite e a cui vanno attribuite molte delle colpe sulla crisi che il cosiddetto «movimento dei movimenti» sta attraversando. Ora per rilanciare le prospettive di questo, ed insieme far crescere la nostra organizzazione poniamo con forza la necessità di un bilancio critico che vada oltre l’autocelebrazione a cui abbiamo assistito tanto al Congresso del partito, quanto alle Conferenze dei GC e quindi l’imperativo di rilanciare la nostra azione all’interno dei movimenti in vista delle prossime impegnative scadenze, prima tra tutte la costruzione di un fronte contro la guerra che sia il più ampio possibile, evitando di rinchiuderci nuovamente in qualche «laboratorio» separato dal resto del movimento.

Per quanto riguarda il secondo punto dibattuto tra quelli da me indicati in apertura, cioè le questioni internazionali, va detto che sia nella relazione del Coordinatore Nazionale uscente Peppe De Cristofaro, che in gran parte degli interventi a sostegno del documento di maggioranza, sono state ribadite e rafforzate le note tesi del passato congresso del PRC, relative alla fine della centralità delle economie nazionali e degli Stati Nazione e al conseguente superamento dell’imperialismo. Così è stata ribadita l’idea secondo la quale ci troveremmo di fronte ad un ordine mondiale unipolare, contraddistinto dal fronte unico contro il terrorismo – nel quale si va dagli USA alla Russia, dalla Cina all’UE – in virtù del quale sarebbero scomparse le contraddizioni interimperialistiche, in questo nuovo ordine unico il ruolo determinante è svolto dagli organismi sovranazionali, che avrebbero svuotato progressivamente gli Stati della loro sovranità, secondo quelli che sono i dettami oramai ben noti del paradigma «negriano» dell’«Impero», all’interno dei quali rientrerebbero dunque anche l’11 settembre e tutto quel che ne è conseguito. Questi compagni sono stati –e sono tuttora- così zelanti nel sostenere le tesi di Michael Hardt e Toni Negri da risultare in definitiva più realisti del re, dato che persino questi due sono stati costretti, dall’evoluzione dei fatti, ad affermare che il contesto internazionale attuale è contraddistinto da quelli che loro definiscono «colpi di coda» imperialistici2 – giusto per non contraddirsi troppo con quanto hanno sostenuto in passato- mentre i nostri continuano pervicacemente a restare abbarbicati ad uno schema interpretativo che la realtà dei fatti si è ampiamente incaricata di smentire da tutti i punti di vista.

Per passare ora alle questioni organizzative, la nostra attenzione si è concentrata su alcune disfunzioni che fino ad ora –a nostro avviso- hanno impedito il corretto funzionamento della nostra organizzazione contribuendo a rendere strutturali e cronici alcuni dei suoi problemi: «turn over» elevatissimo, difficoltà nel radicamento territoriale e sociale, forti limiti nel corretto funzionamento democratico. Queste disfunzioni sono da ricercare secondo noi nella natura assembleare dell’organizzazione dei GC, nella ristrettezza dei suoi gruppi dirigenti, nella poca propensione a coinvolgere l’insieme degli iscritti nella definizione della linea politica, nel disinteresse nei confronti della formazione di questi. Su tutto ciò ho già avuto modo di esprimermi in un precedente articolo – pubblicato nel numero de «l’ernesto» di marzo/aprile – al quale per ragioni di spazio rimando, in questa occasione mi limito a rilevare che a Massa, anche su tali questioni, non c’è stata alcuna ricerca autocritica e conseguentemente non si è intervenuto in alcun modo a modificare i limiti riscontrati nelle modalità organizzative dei GC, anzi. Nei diversi interventi in proposito –oltre ad alcuni graziosi panegirici nei confronto dei dirigenti uscenti – le nostre proposte di riforma sono state ridicolizzate e in risposta, si è parlato invece di “partito del saper fare”, definito e guidato dall’empirismo più assoluto, nel quale la prassi si rivolta e si sbarazza della filosofia, e nel quale si considerano l’approfondimento teorico e la formazione (definiti da alcuni come inutili orpelli), con enorme fastidio. Secondo questi compagni nei GC tutto gira a meraviglia ed anzi bisogna proseguire nella strada intrapresa con buona pace delle annuali emorragie di iscritti, di gruppi dirigenti ristrettissimi e di un’organizzazione che risulta concentrata in poche realtà (metropolitane) e quasi totalmente assente in tante altre.

Ovviamente gli argomenti affrontati nel corso di questa conferenza sono stati tanti altri oltre ai tre sui quali mi sono soffermato, ma se su questi evito di entrare per evidenti ragioni di spazio, non posso però astenermi dal dire che il dato che maggiormente mi ha colpito in questa Conferenza è stato l’assoluta chiusura a riccio da parte delle maggioranza, l’arroccamento imperturbabile nelle proprie convinzioni ideologiche, il fastidio, la durezza -e in alcuni casi il disprezzo- con il quale sono state affrontate le diversità di opinioni, ritenute in vari interventi “come piombo nelle ali”.

Per quanto riguarda i compagni che hanno sostenuto il documento Giovani E Comunisti, è stato detto e ribadito che le nostre diversità non sarebbero state un alibi per non lavorare nel partito, che non ci interessava costituire una setta, un partito nel partito e che, chiusasi la conferenza, saremmo tornati nei territori a lavorare insieme a tutti i compagni alla costruzione del partito (così come tanti di noi hanno fatto dal 1991 ad oggi e così come continuerà ad essere), allo sforzo per renderlo più radicato e incisivo nella realtà politica e sociale italiana, certo gli arroccamenti ideologici contro i quali ci siamo scontrati e le varie forme di intolleranza nei confronti delle diversità d’opinione hanno lasciato in molti di noi una certa amarezza e vari temi di riflessione, a partire dalla constatazione che anche noi siamo pienamente d’accordo con il nostro Segretario Nazionale Fausto Bertinotti, che nelle sue conclusioni alle conferenze ha affermato che “per i comunisti il dogmatismo e l’intolleranza sono peccati non veniali ma capitali”, e dunque a partire dalla convinzione che contro di essi è giusto lottare.

1 Quando Gramsci analizzava i moti anarchici degli anni 70 dell’ottocento, rilevava che le forme di ribellismo endemico di questi, se anche erano in condizione di determinare una radicalizzazione del conflitto, non erano assolutamente in grado di andare oltre uno stato costantemente febbrile delle masse, un tumulto vacuo e improduttivo, che non soltanto rendeva fuori portata l’obbiettivo del superamento della società borghese, ma che non era nemmeno capace di ottenere l’obbiettivo minimo del miglioramento delle condizioni di vita e lavoro delle classi subalterne.

2Il backlash imperialistico sull’impero” , il manifesto, sabato 14 settembre 2002, pag. 12

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.