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Eutanasia delle cattive abitudini. Andare oltre l’esistente, per una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti.

Eutanasia delle cattive abitudini.

Andare oltre l’esistente, per una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti.
G. Fresu

La storia è segnata da fasi lunghe e rettilinee, contraddistinte da una certa uniformità, e da improvvisi tornanti, sovente premessa di radicali cambiamenti nei modi di produzione, negli assetti delle relazioni sociali e politiche. Il senso progressivo o regressivo di queste svolte non è inscritto deterministicamente nelle leggi dell’economia, nei processi di evoluzione sociale e, meno che mai, nel destino ineluttabile dell’umanità. Come il primo, vittorioso, assalto al cielo nella storia del Novecento sta a dimostrare, le contraddizioni oggettive dell’attualità possono dar luogo a grandi salti storici se, sul piano soggettivo, esistono realtà sociali e politiche capaci non solo di leggere il presente, bensì dare una prospettiva alle grandi masse popolari, facendole irrompere nella scena politica. Mi è già capitato di dirlo, in assenza di ciò, in fasi di crisi organica come questa, sono le classi subalterne a correre i maggiori rischi, poiché le classi dirigenti tradizionali dispongono di quadri e personale dirigente più addestrato, sono capaci di modificare uomini e programmi riacquistando il pieno controllo di una realtà che gli andava sfuggendo, mantenendo il potere e utilizzandolo per rafforzare la propria posizione. Le crisi organiche sono generalmente dominate dalle «rivoluzioni passive», vale a dire, fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le “riforme” vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Oggi siamo di fronte ad un gigantesco tentativo di ristrutturazione internazionale dei rapporti sociali e di produzione da parte delle classi dominanti, la cui portata potrà essere valutata appieno solo tra venti o trenta anni. La crisi organica del capitalismo mondiale, il susseguirsi di una serie infinita di guerre imperialistiche legate alla lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche, l’intensificarsi nel nostro Paese dell’offensiva padronale contro il mondo del lavoro, hanno fornito più di una conferma oggettiva all’esigenza di un Partito non solo genericamente di sinistra, bensì di un’organizzazione che fondasse la sua ragion d’essere su una inequivocabile scelta di campo all’interno del conflitto capitale lavoro. Alle conferme oggettive si sono sommate quelle soggettive: a dispetto di chi per trent’anni ha preconizzato la fine del conflitto sociale e l’inutilità di un’organizzazione autonoma delle classi subalterne, in questi due anni è salita quasi spontaneamente, dal mondo del lavoro e dalle realtà del disagio sociale, la richiesta di una salda rappresentanza sociale e politica, seria e credibile, capace di andare oltre la classica oscillazione schizofrenica tra settarismo e opportunismo. Nonostante la presenza simultanea di questi fattori, a tutt’oggi, manca un soggetto politico in grado di incarnare questa enorme esigenza di protagonismo sociale delle classi subalterne. Bisogna fare un’analisi disincantata, franca e senza indulgenze: quel soggetto non è e non può essere la Federazione della sinistra, né, tanto meno, i singoli partiti che la compongono. La Federazione è nata all’interno di un lungo processo dialettico nella sinistra, con la felice ambizione di porre fine alle lacerazioni e al processo inesauribile di scissioni, più o meno significative. A questo processo dialettico, però, è mancato il salto decisivo, il mutamento dalla mera quantità, puramente sommatoria, alla qualità nella natura dei rapporti federativi. L’infinita transizione verso il nuovo soggetto si è trasformata in una stasi paludosa, capace di mortificare l’entusiasmo di qualsiasi spinta volontaristica all’impegno militante. Tra rallentamenti, fughe in avanti e ripiegamenti repentini, nei fatti, non siamo stati capaci di trasformare il Progetto della Federazione della Sinistra in un soggetto organico con strutture dirigenti, intermedie e di base, e una proposta politica sottoposta a verifica democratica. Abbiamo preferito una costante mediazione su tutto, la ricerca dell’unanimismo, con il risultato di minarne la credibilità, la capacità attrattiva e, in ultima analisi, la tenuta elettorale. A partire dalla presentazione della lista comunista e anticapitalista alle ultime elezioni europee, il progetto della Federazione della Sinistra ha suscitato diverse speranze e molteplici aspettative, via via deluse dal prevalere di logiche che si speravano superate. Il congresso della Federazione, in realtà poco più di un attivo nazionale dei quadri, è stata un’occasione mancata, perché la scelta di determinare organismi dirigenti pletorici, sulla base di quote predeterminate, senza vagliarne il peso a tutti i livelli con congressi veri, ha impedito di risolvere il problema prioritario che la Federazione vive a livello nazionale e locale: la sovranità e l’effettiva capacità decisionale degli organismi federativi rispetto ai soggetti fondatori; la capacità di operare delle scelte politiche andando oltre la drammatica alternativa tra unanimismo e separazione. Se vogliamo essere sinceri fino in fondo, allo stato attuale, la Federazione è poco più di un cartello elettorale, perennemente impastoiato in micro conflitti interni. Tra i soggetti fondatori, rispetto alla reciproca lealtà e alla solidarietà attiva, hanno finito per prevalere deteriori mire egemoniche e controegemoniche. Se il Congresso (non congresso) della FdS è stata un’occasione mancata, i due recenti congressi nazionali di PRC e PdCI, ognuno, a suo modo, autoreferenzialmente ripiegato su sé stesso, sono la logica traduzione di quel fallimento. Il 2010-’12 sarebbe dovuto essere il triennio della svolta e non solo non lo è stato, nonostante il contesto oggettivo di crisi del capitalismo, ma ha rappresentato una fase di ulteriore ripiegamento. Alla Federazione è mancata con una strategia la solidarietà tra i soggetti fondatori, e così il criterio ispiratore del suo agire ha finito per essere una sorta di pilatesca “mano invisibile”: non potendo fare di meglio, ci siamo limitiati a lasciare campo alle libere fluttuazioni tra i soggetti fondatori, nell’assurda speranza che la competizione internatra PRC e PdCI potesse essere tutto sommato positiva. Oggi la Federazione non ha forza attrattiva, non è capace di raccogliere il voto di protesta, né quello alla cui base sta una coerente visione del mondo, così come non riesce a essere elemento catalizzatore del profondo malessere nella costruzione di una seria opposizione sociale. Esistono al di fuori di noi tantissimi soggetti collettivi impegnati sul piano sociale o culturale, milioni di singoli individui costretti alla solitudine politica potenzialmente interessati a un progetto di classe. Sono tanti gli italiani che non trovano seducente né la permanente vocazione al compromesso privo di riferimenti sociali del PD, né le allucinazioni carismatiche di una sinistra senza aggettivi, edificata per cooptazione attorno alle narrazioni immaginifiche del suo leader. Molti di questi sono transitati nelle nostre organizzazioni, o magari hanno guardato a noi con simpatia, ma si sono allontanati senza trovare, poi, nella Federazione un progetto credibile e organico capace di riattivarne la partecipazione. Personalmente ho creduto profondamente alla nostra aspirazione federativa e ho ritenuto i partiti fondatori un valore aggiunto di questa processualità. Oggi non la penso più allo stesso modo, al contrario, ritengo un ostacolo, alla ricomposizione di un quadro sociale più avanzato, la persistenza delle singole organizzazioni. Occorre andare oltre i nostri partiti e la stessa federazione, azzerare tutti gli organismi dirigenti, per dar corso a una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti nel nostro Paese: non si tratta solo di rimettere in moto, con l’entusiasmo e il senso di appartenenza, un ingranaggio inceppatosi, occorre con coraggio costruirne uno nuovo perché quello attuale è oramai inadeguato. Non può più bastare la militanza per inerzia, lo sforzo individuale, spesso ingrato e faticosissimo di dirigenti e militanti del PRC e del PdCI, occorre raccogliere la sfida di una fase ricca di incognite e insieme potenzialità come questa e, da comunisti, saper rilanciare abbandonando “boria di partito” e posizioni consolidate. Serve, con umiltà e apertura, un approccio disinteressato verso tutti quei comunisti e anticapitalisti attualmente non attratti dalle nostre organizzazioni, per questo un processo di questo tipo deve avere come sua premessa essenziale l’azzeramento degli organismi dirigenti esistenti, l’eutanasia di tutte le cattive abitudini che hanno contraddistinto il nostro operare.

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.