Sulle ceneri di Gramsci il ridicolo balletto dei soliti revisionisti (“La Nuova Sardegna”, 11-3-2012)

Sulle ceneri di Gramsci il ridicolo balletto dei soliti revisionisti,
“La Nuova Sardegna”, 11-3-2012

di Gianni Fresu
Ci risiamo: sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo alla storia del Pci. La bibliografia su un Gramsci tormentato e proteso a un approdo liberale o socialdemocratico è ampia. A questa si aggiungono altre tesi, sempre di taglio scandalistico, mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile eppure ambite dalle «grandi» testate giornalistiche e dai programmi tv di divulgazione storica. Le richiamo per sommi capi: 1) Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di Gramsci) agenti del Kgb assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3) Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di morte dell’intellettuale sardo.  Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano sulla rilettura forzata di carteggi, necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive, mai suffragate sul piano documentale; su letture parziali degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di documenti. Tutti ricordiamo la famosa lettera di Togliatti sugli alpini prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro da Franco Andreucci.  È strano, mentre in America, Asia e Africa alle categorie gramsciane sono dedicate pubblicazioni monografiche e persino corsi di laurea specialistica, in Italia si preferisce puntare al sensazionale, mostrare l’intima debolezza o il ravvedimento pentito del suo pensiero. Non sfuggono a quest’esigenza neanche «I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista» (Donzelli) di Franco Lo Piparo e «Gramsci e Turati, le due sinistre» (Rubettino Editore) di Alessandro Orsini, che ha entusiasmato tanto Roberto Saviano da spingerlo a scrivere un «Elogio dei riformisti» per «La Repubblica» del 28 febbraio scorso.  Nel caso di Lo Piapro abbiamo l’ennesimo tentativo, di presentare Gramsci come un recluso nelle carceri del Pci e del Pcus, non in quelle del regime fascista, costretto in una cella le cui chiavi erano in mano a Togliatti e non a Mussolini. Oltre a questo, nel saggio di Lo Piparo si cerca nuovamente di usare alcune pagine dei «Quaderni», omettendone volutamente altre, per dimostrare la svolta liberale di Gramsci. All’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica dell’intellettuale sardo nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive all’arresto, così come quella impegnata a distinguere il politico dal «pensatore disinteressato». In realtà, in Gramsci, la lettura analitica s’intreccia strettamente alla battaglia politica e la distinzione delle due fasi può essere riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della prima e nella maggiore libertà analitica, appunto «für ewig», delle riflessioni carcerarie. Tuttavia, tra esse la continuità concettuale è evidente e documentabile. Tra le pagine dei «Quaderni del carcere» e negli abusatissimi concetti di «egemonia» e «guerra di posizione», sono state ricercate le prove della «frattura» per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità assoluta, con il «demone del Novecento». A tal fine, queste riletture evitano accuratamente di fare i conti con le pagine nelle quali Gramsci studia e valorizza al massimo proprio Lenin come un teorico dell’egemonia. Così, anche Lo Piparo fa di tutto per non leggere le note a Lenin dedicate, per poi definire i «Quaderni» «un’opera di profilo crociano», una sorta di «ripensamento filosofico» di Gramsci nella sua transizione dal comunismo al liberalismo. Nei «Quaderni» Gramsci riconosce sicuramente a Benedetto Croce una grandissima statura intellettuale, e degli indubbi meriti filosofici, ma al contempo ne contesta radicalmente il profilo sociale e politico, mettendo persino in dubbio la buona fede del filosofo liberale.  Per quanto riguarda invece il saggio di Orsini, oggetto dell’entusiastica recensione di Roberto Saviano, abbiamo la comparazione tra alcune pagine degli articoli giovanili più polemici e immediatamente legati alla quotidiana lotta politica di Gramsci e quelli più «aulici» e riflessivi di Filippo Turati. Così commenta Saviano: «L’idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli». Gramsci per Saviano condisce con la volgarità la sua insopprimibile tendenza all’intoleranza: «Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato». Saviano forse dimentica, non sa, o magari non vuol ricordare, che a esaltare e salutare positivamente non un cazzotto, ma la «pioggia di pugni» riservati dal nascente movimento fascista verso il sovversivismo di operai e contadini riottosi fu il campione del liberalismo italiano per eccellenza, Benedetto Croce. Di Croce non si ricordano affermazioni e posizioni di questo tipo (molte), ma solo le grandi petizioni di principio su libertà, democrazia, rispetto della diversità. Ovviamente, passano in cavalleria tante cose, compreso il sostegno del mondo liberale al Partito fascista nella fase precedente e successiva all’ascesa al potere di Mussolini. Non sarebbe male ricordare che un manipolo di deputati fascisti potè entrare nel 1921 in Parlamento grazie alla cortese ospitalità delle liste elettorali di Giolitti. Saviano si serve del libro di Orsini – pazienza se passeggia sull’opera e la biografia di Gramsci senza aver mai letto la prima e conosciuto minimamente la seconda – per giungere alle sue conclusioni: la peggiore tradizione della «pedagogia dell’intolleranza» sta fuori dal Parlamento, nell’«estremismo massimalista» dei movimenti. Cito ancora testualmente la sua recensione: «I riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori», mentre «nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è un bene, perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria, è il famigerato tanto peggio tanto meglio». Per Saviano i riformisti sono «realisti e tolleranti», mentre Gramsci e la sue progenie sono per la «società perfetta», dunque utopistici e intolleranti.  Come ha scritto Domenico Losurdo, uno dei più autorevoli studiosi di Gramsci, buona parte della pubblicistica anticomunista basa le sue supposizioni sul «sofisma di Talmon» (in omaggio allo storico Jacob Talmon, tra i più assidui frequentatori di questo pregevole metodo): «I fatti e i misfatti del comunismo vengono messi a confronto non con i comportamenti reali del mondo che esso vuole mettere in discussione, ma con le dichiarazioni di principio del liberalismo, rispetto alle quali la vicenda iniziata con la rivoluzione bolscevica appare in tutta la sua abiezione». Da una parte si parla dei Gulag, della dittatura e delle violazioni della libertà, identificando tutto questo con il marxismo, dall’altra si usano le parole più infiocchettate di Tocqueville, John Locke, Adamo Smith per descrivere il liberalismo tacendo guerre, colonialismo, miseria e sfruttamento da esso generate. Gramsci ha subito, da vivo e da morto, una infinità di processi. Se nel primo processo l’auspicio era quello di «impedire a questo cervello di funzionare», nell’ultimo della serie l’imperativo punitivo – solo italiano, perché nel resto del mondo Gramsci viene letto e tradotto – potrebbe essere quello di «impedire l’utilizzo delle sue idee», delegittimarle, renderle contraddittorie, anticaglia inservibile». Non ci riuscirono la prima volta; non ci riusciranno, ne siamo certi, nemmeno adesso.

Crisi organica e sovversivismo reazionario. Coincidenze politiche di un binomio indissolubile.

Crisi organica e sovversivismo reazionario.
Coincidenze politiche di un binomio indissolubile.

Gianni Fresu

In più occasioni mi è capitato di affermarlo, l’opera di Antonio Gramsci è spesso percepita come materia buona giusto per l’archeologia politica o materiale liturgico-iconografico, preso in considerazione per gli anniversari di nascita e morte dell’intellettuale sardo. Al contrario, ritengo l’opera di Gramsci uno straordinario strumento per leggere alcune contraddizioni caratteristiche della società in cui viviamo. Certe dinamiche sociali e storiche tendono a ripresentarsi ciclicamente, con forme, modalità, spinte profondamente diverse, tuttavia, in filigrana è possibile leggere impressionanti elementi in comune. Quanto affermato sopra vale soprattutto per l’analisi di Gramsci sulla «crisi organica» della società capitalistica prima e dopo la guerra mondiale, una crisi non solo economica ma di civiltà, e la conseguente involuzione autoritaria del quadro politico-sociale. Un tema al quale Gramsci ha dedicato tutta la sua esistenza, dagli scritti giovanili alle ultime pagine di Lettere e Quaderni. Oggi ci troviamo esattamente in una condizione di «crisi organica» mondiale che investe sia le modalità di produzione, accumulazione e redistribuzione, sia i modelli politici e sociali fin qui prevalenti.

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La prima guerra mondiale provocò nella società europea una profonda crisi economica, politica e culturale. La guerra era stata invocata come progresso e igiene dell’umanità ma, dopo la sbornia di retorica patriottica e militare, quel che restava era un quadro sociale profondamente disgregato segnato da alcuni fattori destinati a deflagrare tra loro: l’inefficacia e l’instabilità del sistema liberale, l’impoverimento e il ridimensionamento dei ceti medi, l’irrompere sulla scena delle grandi masse popolari mobilitate durante il conflitto. La situazione attuale ha come elemento profondo di diversità la passività o comunque la grande disgregazione delle masse popolari, tuttavia, se allora la crisi fu originata dalla disillusione per i miraggi del bottino bellico, oggi possiamo dire che essa scaturisce dal fallimento delle mirabili promesse della globalizzazione liberista. Con la fine della guerra fredda (la cosiddetta «fine della storia»), secondo gli apologeti delle leggi di mercato, grazie alla concorrenza e l’uniformarsi del mondo a un solo modello di sviluppo, si sarebbe dovuta aprire una fase nuova di prosperità e pace: più lavoro, opportunità e ricchezza per tutti.
Sia dopo la prima guerra mondiale, sia in questa crisi, a fronte del concentrarsi di ricchezze enormi sulle categorie sociali elevate, abbiamo un impoverimento generale della società che raggiunge le sue forme più fragorose nei ceti medi irrequieti. Allora si parlò di proletarizzazione dei ceti medi, oggi magari si usano altre terminologie ma la sostanza delle cose non muta troppo.
Peraltro, oggi come allora, proprio i ceti medi hanno vissuto il proprio declassamento come un tradimento. Se il principale megafono dell’«ideologia astratta e ampollosa della guerra» fu proprio la piccola e media borghesia, dagli anni Ottanta in poi la principale base sociale delle politiche liberiste si ritrova (in Europa come negli USA) tra i ceti medi. Pensiamo al caso italiano, dalla Marcia dei Quarantamila fino all’avvento del berlusconismo. Proprio come nel dopoguerra, la classe più mobilitata nella rincorsa della nuova frontiera è uscita dalla “trincea” con le ossa rotte e un ruolo politico, economico e sociale ridimensionato. In linea generale, secondo Gramsci, nelle fasi di «crisi organica» si hanno insieme un declassamento e una radicalizzazione dei ceti medi, per questo i rischi maggiori di «sovversivismo reazionario» vengono proprio dalle convulsioni di questa classe sociale.
Tutto questo fu descritto con grande capacità di sintesi nell’articolo Il popolo delle scimmie, pubblicato su «L’Ordine Nuovo», il 2 gennaio 1921, nel quale Gramsci descrive la parabola della piccola borghesia italiana: dall’avvento della “sinistra” al potere sino alla nascita del movimento fascista. Con lo sviluppo del capitalismo finanziario la piccola borghesia perde una sua funzione nella produzione divenendo «pura classe politica» che per Gramsci si specializza nel «cretinismo parlamentare». È questo un fenomeno che assume fisionomie diverse e che si esprime attraverso i governi della sinistra, il giolittismo, il riformismo socialista. A questa degenerazione della piccola borghesia corrisponde la degenerazione del Parlamento che diviene «bottega di chiacchiere e scandali, diviene un mezzo al parassitismo», un Parlamento corrotto fino al midollo che perde progressivamente prestigio presso le masse popolari. La sfiducia verso l’istituzione parlamentare porta le stesse masse popolari ad individuare nell’azione diretta dell’opposizione sociale l’unico strumento di controllo e pressione, l’unico modo per far valere la propria sovranità contro gli arbitri del potere. In tal senso Gramsci interpreta la settimana rossa del giugno 1914. Attraverso l’interventismo, l’avventurismo di D’Annunzio e il fascismo, la piccola borghesia «scimmieggia la classe operaia e scende in piazza».
La decadenza del Parlamento è massima nel corso della guerra e la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione barricadera attraverso un miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista e sindacalismo rivoluzionario. Nella sua carica antiparlamentare secondo Gramsci la piccola borghesia cerca di organizzarsi attorno a padroni più ricchi, trova un punto di sostegno tra gli agrari e gli industriali. Così anche se l’avventura fiumana si pone come il «motivo sentimentale» di questa intensa iniziativa, il centro vero dell’organizzazione risiede nella difesa della proprietà industriale e agraria, contro le rivendicazioni delle classi subalterne e la loro crescente efficacia organizzativa. A sua volta la classe proprietaria commette l’errore di credere che si possa difendere meglio dagli assalti del movimento operaio e contadino abbandonando gli istituti del suo Stato e seguendo «i capi isterici della piccola borghesia».
Quando si verifica una condizione di «crisi organica», i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali non riconoscendo più nei propri gruppi dirigenti l’espressione politica dei propri interessi di classe. In situazioni di tale tipo si moltiplicano le possibili soluzioni di forza, i rischi di sovversivismo reazionario, le operazioni oscure sotto la guida di capi carismatici. Il determinarsi di questa frattura tra rappresentati e rappresentanti porta per riflesso al rafforzamento di tutte quegli organismi relativamente indipendenti dalle oscillazioni dell’opinione pubblica come la burocrazia militare e civile, l’alta finanza, la chiesa. Dietro alla crisi di egemonia del regime liberale in Italia c’era l’inutile sforzo per la guerra, con il suo carico di promesse millantate non mantenute, l’irrompere di soggetti sociali prima passivi.

E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò è appunto la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso .

In una fase di crisi organica sono le classi subalterne a correre i maggiori rischi, poiché le classi dirigenti tradizionali dispongono di quadri e personale dirigente più addestrato, esse sono capaci di modificare uomini e programmi riacquistando il pieno controllo di una realtà che gli andava sfuggendo, mantenendo il potere e utilizzandolo per rafforzare la propria posizione. Si ha così il passaggio della massa di manovra dei diversi partiti in un unico partito che riassume gli interessi dell’intera classe centralizzandone la direzione, ritenuta la sola capace di superare il pericolo mortale insito nella crisi. Sempre tenuto conto del riferimento italiano, sembra chiaro per Gramsci che l’avvento del fascismo avesse tra le sue cause sia i limiti del movimento socialista sia quelli delle classi dirigenti tradizionali.

Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere i più disparati, ma in cui prevale l’immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone.

Oggi, una delle principali professione di fede di movimenti come i “forconi” è la loro contrapposizione alla politica in quanto tale e un odio viscerale vero i partiti, qua non mi interessa discutere su quanto siano profonde e giustificate le ragioni di questo atteggiamento, bensì riflettere sulla sua tipicità e tendenziale emersione nelle fasi di crisi. Gramsci rilevò tra i «caratteri del popolo italiano» un certo inidividualismo apoliticista, in ragione del quale ai partiti politici e al sindacato si preferiscono altre forme organizzate, le cricche, più di carattere malavitoso o camorristico che politico. Ogni livello di civiltà ha un suo tipo di individualismo, e questo corrispondeva alla fase nelle quale i bisogni economici non potevano trovare soddisfazione regolare e permanente a causa della miseria e della disoccupazione. Le origini di tale condizione erano profonde e le responsabilità stavano in capo alla classe dirigente nazionale.
All’apoliticismo delle masse popolari corrisponde una sorta di corporativismo settario negli strati superiori e dominanti, legato però non all’intransigenza su principi e valori (quindi non un settarismo giacobino alla francese o alla russa), bensì a meri interessi economici, allo spirito di consorteria. Espressione politica di questo «carattere del popolo italiano» è il «pressappoco» nella fisionomia dei programmi, delle ideologie, dei partiti. La natura di questo carattere spiega per Gramsci la deteriorità dei partiti politici italiani, sorti tutti non come frazione organica o avanguardie delle classi popolari ma sul terreno elettorale. Quei partiti furono «un insieme di piccoli intellettuali di provincia che rappresentavano una selezione alla rovescia», dato il livello di miseria del paese queste organizzazioni erano attrattive soprattutto per le possibilità economiche che sapevano offrire. Anche in questo caso non occorre troppa fantasia per trovare punti di congiunzione fortissimi con la situazione che abbiamo sotto gli occhi. Per far parte di un determinato partito bastava l’approssimazione del «pressappoco», «bastavano poche idee vaghe, imprecise, indeterminate, sfumate: ogni selezione era impossibile, ogni meccanismo di selezione mancava e le masse dovevano seguire questi partiti perché altri non ne esistevano». La passività e l’apoliticismo delle grandi masse, che facilitano il reclutamento di volontari, rendendole massa di manovra; la composizione sociale italiana, nella quale esisteva una presenza sproporzionata e «malsana» di borghesia rurale improduttiva, di piccola e media borghesia al cui interno si formano intellettuali irrequieti facilmente suggestionabili da qualsiasi iniziativa «anche la più bizzarra che sia vagamente sovversiva», dunque «volontari»; la grande presenza di sottoproletariato urbano e bracciantato agricolo. Tra gli elementi che hanno concorso alla popolarità di D’Annunzio e del fascismo Gramsci elenca: anzitutto, l’apoliticità del popolo italiano e soprattutto della piccola borghesia, una apoliticità, definita irrequieta e riottosa, facilmente seducibile da parte di qualsiasi avventura e avventuriero, specie se a essa le forze dell’ordine costituito si oppongono solo debolmente e senza metodo; l’assenza di una tradizione dominante e forte, riconducibile un partito di massa, capace di orientare le passioni popolari con direttive storico politiche, vale a dire l’assenza di un vero e proprio partito di massa della borghesia; il contesto successivo alla guerra, dove tutti questi fattori di apoliticità riottosa si moltiplicano. Quattro anni di guerra hanno disancorato da qualsiasi disciplina statale gli elementi più irrequieti della piccola borghesia rendendoli, ancora di più, «moralmente e socialmente vagabondi»; «quistioni sessuali, che dopo quattro anni di guerra si capisce essersi riscaldate enormemente».
Oggi ci troviamo in una situazione per molti versi simile, sicuramente diversa, non comprimibile nelle braghe dell’analogia storica, tuttavia, proprio dai drammi passati deve scaturire per le forze politiche della sinistra la consapevolezza che nulla va sottovalutato. Le crisi organiche sono dominate dalle «rivoluzioni passive», vale a dire, fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le “riforme” vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Il fascismo è uno degli esempi più emblematici di ciò, ma non il solo.
Siamo di fronte ad un gigantesco tentativo di ristrutturazione internazionele dei rapporti sociali e di produzione da parte delle classi dominanti, la cui portata potrà essere valutata appieno solo tra venti o trenta anni. Le scorciatoie per raggiungere questo risultato sono sempre in agguato. Le forze favorevoli alle svolte reazionarie tendono a utilizzare le categorie sociali irrequiete, come massa di manovra, e sovente si servono di movimenti più ambigui e bizzarri:

È questo un modo di procedere molto utile per facilitare le «operazioni» di quelle «forze occulte» o «irresponsabili» che hanno per portavoce i «giornali indipendenti»: esse hanno bisogno ogni tanto di creare movimenti occasionali di opinione pubblica, da mantenere accesi fino al raggiungimento di determinati scopi e da lasciar poi illanguidire e morire .

Riflettere e provare a mettere in relazione i tanti segnali contraddittori della situazione attuale non è per niente facile, ma penso sia un dovere impossibile da aggirare, salvo pentirsene amaramente in seguito per non averlo fatto.

G. Fresu, Nell’analisi di Gramsci la rivoluzione passiva di Benito Mussolini. 25 ottobre 2011, la Nuova Sardegna.

di Gianni Fresu

Nellanalisi di Gramsci la rivoluzione passiva di Benito MussoliniA Gramsci il fascismo appariva per sua natura in profonda contraddizione con i coevi tentativi di razionalizzazione fordista […]. «Lo Stato fascista – scriveva nei Quaderni – crea nuovi redditieri, cioè promuove le vecchie forme di accumulazione parassitaria del risparmio e tende a creare dei quadri chiusi sociali. In realtà finora l’indirizzo corporativo ha funzionato per sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eliminare queste e sta sempre più diventando, per gli interessi costituiti che sorgono dalla vecchia base, una macchina di conservazione dell’esistente così come è e non una molla di propulsione. Perché? Perché l’indirizzo corporativo è anche in dipendenza della disoccupazione: difende agli occupati un certo minimo di vita che, se fosse libera la concorrenza, crollerebbe anch’esso, provocando gravi rivolgimenti sociali; e crea occupazioni di nuovo tipo, organizzativo e non produttivo, ai disoccupati delle classi medie».  Attraverso la trasformazione dello Stato e la creazione del corporativismo, il fascismo produceva trasformazioni nella struttura produttiva tendenti alla socializzazione e alla cooperazione nella produzione, senza intaccare però le modalità individuali e private di appropriazione dei profitti. In concreto questo significava che attraverso il fascismo si cercava uno sviluppo delle forze produttive industriali senza sottrarne la direzione alle classi tradizionali, per consentire al capitalismo italiano di uscire dalla sua crisi organica e competere con le potenze capitalistiche detentrici del monopolio delle materie prime e con capacità di accumulazione maggiore. Lo schema di questa rivoluzione passiva per Gramsci aveva ben poche possibilità di riuscita pratica, tuttavia dal punto di vista della mobilitazione e della capacità egemonica del regime, ciò era di importanza relativa: «Ciò che importa ideologicamente è che esso può avere realmente la virtù di prestarsi a creare un periodo di attesa e di speranze, specialmente in certi gruppi sociali italiani, come la massa dei piccolo-borghesi urbani e rurali, e quindi a mantenere il sistema egemonico e le forze di coercizione militare e civile a disposizione delle classi dirigenti tradizionali» (dai «Quaderni dal carcere»).  In coclusione, le riflessioni sul fascismo di Gramsci sfuggono a troppo rigide classificazioni storiografiche. Il materialismo storico è il dato di partenza, tuttavia, anche i termini soggettivi, compresa la crisi morale della borghesia – hanno un ruolo determinante e centrale. Anche Gramsci interpreta il fascismo come reazione a una fase di profondi rivolgimenti sociali legati alla prima guerra mondiale e soprattutto alla rivoluzione d’ottobre, tuttavia, non giunge mai a considerare la borghesia e il suo modo di produzione come un unico blocco omogeneo. Egli legge all’interno del blocco sociale dominante differenziazioni e contraddizioni palesatisi proprio in rapporto alla nascita e all’avvento del fascismo. Gramsci, come gran parte dei suoi coevi compagni di lotte, ha analizzato il tentativo di centralizzazione degli interessi borghesi dietro al fascismo, ma lo riteneva un fenomeno sociale sorto tra la piccola e media borghesia urbana, sviluppatosi grazie agli apporti degli agrari e quelli, non sempre lineari e armonici, del grande capitale industriale.  Infine, l’intellettuale sardo ha interpretato storicisticamente il fascismo in rapporto alla debolezza delle classi dirigenti e ai limiti nel processo di unificazione politica e modernizzazione economica dell’Italia, ma non lo ha mai inteso un esito inevitabile di quel processo. In tutto questo, un ruolo peculiare è attribuito al ruolo di alcune categorie ampiamente operative in quel dato frangente storico: il cesarismo, il bonapartismo, la fede verso le virtù taumaturgiche del «capo carismatico», cui Grasmci dedica numerose riflessioni e che meriterebbero una trattazione separata per la vastità dei contenuti trattati e delle implicazioni analitiche.  Tutto questo insieme di valutazioni porta a un’ultima conclusione: il fascismo non può certo essere ritenuto una parentesi irrazionale in una storia per il resto segnata dall’inarrestabile progressione liberale e democratica, un’improvvisa malattia morale, capace di obnubilare le menti degli italiani, che ha aggredito un corpo sano per poi sparire senza lasciare traccia. A centocinquanta anni dall’Unità d’Italia, le riflessioni di Gramsci suggeriscono di evitare accuratamente ogni lettura agiografica di quella storia. Senza trasformarla in un’opera di teratologia intellettuale, è opportuno interrogarsi problematicamente sulla totalità e organicità dei processi storici, sui limiti congeniti dell’intera vita politica italiana. Proprio questa problematicità ha spinto Gramsci a evitare qualsiasi lettura storiografica e politica manichea. Il fascismo costituisce la negazione più completa per valori e prospettive del campo marxista, ciò nonostante l’intellettuale sardo lo ha analizzato come fenomeno razionale e reale, scaturito da precise cause storicamente determinate.

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12 settembre 1923, Gramsci e la nascita de «l’Unità». Le origini del quotidiano nel pieno divampare della reazione fascista.

12 settembre 1923, Gramsci e la nascita de «l’Unità».

Le origini del quotidiano, nel pieno divampare della reazione fascista.

Gianni Fresu

Il quotidiano «l’Unità» nacque nel pieno divampare della reazione fascista e in una fase di profonda crisi del neo nato partito comunista, paralizzato da una concezione profondamente settaria tanto dell’organizzazione, quanto delle alleanze di classe da perseguire. Secondo Bordiga non solo non c’era affatto antitesi tra democrazia e militarismo, ma tra fascismo e democrazia vi era assenza di contraddizioni e distinzioni reali, anzi, il fascismo appariva come «una prospettiva di stampo socialdemocratico per quanto espressa con forme e cerimoniali nuovi»[1]. I comunisti dovevano pertanto disinteressarsi del problema democratico, non optare per l’una o l’altra forma di governo borghese, e chiudere risolutamente a qualsiasi ipotesi collaborazione con le altre forze democratiche ed anche socialdemocratiche in opposizione al fascismo. Una linea oramai incompatibile con quella assunta tra il 1921 e il ‘23 dal Comintern, rispetto alla quale il suo esecutivo si preparava a dare battaglia. Per contrastarla con maggior efficacia, la direzione dell’Internazionale approvò la proposta di creare un «quotidiano operaio» in grado di dare corpo all’obbiettivo strategico dell’unità delle masse operaie del Nord con quelle rurali salariate del Mezzogiorno. Proprio per questa ragione, in una lettera all’esecutivo del PCd’I del 12 settembre 1923 Gramsci propose il titolo «l’Unità»:

“Io propongo come titolo «l’Unità» puro e semplice, che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’esecutivo allargato sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non solo come un problema di rapporto di classe, ma anche specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale”[2].

In questa lettera Gramsci propose non solo il nome, ma anche funzione e linea editoriale del quotidiano. Dato il contesto, era necessario un giornale in grado di resistere legalmente il più a lungo possibile alla reazione. Nell’intento di Gramsci, non doveva trattarsi di un organo di partito, ma garantire all’organizzazione una «tribuna legale», consentirgli il raggiungimento, continuo e sistematico, delle più larghe masse:

“Non solo quindi il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di partito, ma esso dovrà essere redatto in modo che la sua dipendenza di fatto dal nostro partito non appaia troppo chiaramente. Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma e alla tattica della lotta di classe, che pubblicherà gli atti e le discussioni del nostro partito, come farà possibilmente anche per gli atti e le discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti e dirà il suo giudizio con un tono disinteressato, come se avesse una posizione superiore alla lotta e si ponesse da un punto di vista «scientifico»”[3].

Il quotidiano doveva servire a imprimere un profondo cambiamento nell’agire politico dei comunisti in Italia. Quella svolta, di cui lo stesso Gramsci fu indiscusso protagonista nella lotta con il vecchio gruppo dirigente legato a Bordiga fino al famoso Congresso di Lione, costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza quanto nella fase successiva alla liberazione. Gramsci, sia nell’idea ispiratrice del quotidiano, sia nelle successve Tesi di Lione colse appieno il valore strategico attribuito da Lenin alla questione contadina e alla politica delle alleanze[4]. Preparare a fondo la rivoluzione, «conquistare le grandi masse», «avere la simpatia delle masse», era per Lenin necessario se si aveva l’aspirazione non solo di iniziare una rivoluzione ma soprattutto vincerla e conservare il potere: «attrarre a noi non solo la maggioranza della classe operaia, ma anche la maggioranza della popolazione lavoratrice e sfruttata della campagna»[5]. Un tema centrale, in un paese come l’Italia dove il proletariato era una minoranza senza carattere nazionale.  Più precisamente, Gramsci cercò di contestualizzare all’Italia il grande tema dibattuto tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista[6]. In essi, preso atto delle difficoltà internazionali, e della complessità dei processi rivoluzionari in Occidente, Lenin e l’Esecutivo del Comintern lanciarono la parola d’ordine della conquista della maggioranza delle classi subalterne e dell’unità della classe operaia tramite la tattica del «fronte unico», essenziale per la definizione della categoria dell’«egemonia» in Gramsci[7].

Il periodo tra il 1923 e la Conferenza di Como del maggio 1924, fino all’assunzione da parte di Gramsci della Segreteria Generale del Partito, è efficacemente definito da Spriano una fase di «interregno», un periodo di riposizionamento complessivo del partito in Italia, di dinamiche contrastanti e incerte all’interno della vecchia maggioranza, per via del forte ascendente ancora esercitato da Bordiga. L’oramai ex capo del partito, era sempre più deciso ad aprire uno scontro frontale con il Comintern, anche al costo di separarsi definitivamente da esso. L’effettivo cambio di linea e gruppo dirigente che portò Gramsci alla guida del Partito avvenne con due passaggi: una prima riunione del Comitato Centrale il 18 aprile del 1924, quindi in maggio, con la Conferenza nazionale di Como – in sostanza un Comitato centrale allargato ai segretari di federazione e al rappresentante della federazione giovanile con carattere consultivo sulla linea politica del partito – in vista del Congresso nazionale programmato dopo lo svolgimento del V Congresso dell’IC.

La fase successiva, fino al Congresso di Lione, è caratterizzata dal consolidarsi della nuova maggioranza attorno a Gramsci. All’interno di questo processo possiamo individuare nella nascita del quotidiano «l’Unità» un punto di svolta essenziale.

Gramsci ha esercitato la sua attività di capo del Partito comunista e rappresentante in Parlamento proprio nel momento più drammatico di trapasso dal sistema liberale al regime fascista, segnato dal caso Matteotti e concluso con il varo delle «leggi fascistissime», prologo al suo arresto. Il periodo tra la primavera del 1925 e l’autunno 1926 è cruciale per l’evoluzione del pensiero di Gramsci, in relazione al partito, al suo rapporto con le masse, alla funzione svolta in esso dagli intellettuali. Un periodo nel quale giungono a completa maturazione le esperienze di direzione e orientamento politico compiute a partire dal 1923. Una fase nella quale la sua analisi si sviluppa fino a indagare in profondità il ruolo svolto nella società italiana dagli intellettuali, quale tessuto connettivo degli assetti sociali dominanti. Già in queste analisi è presente quella ridefinizione del concetto di Stato e di dominio anticipatrice della categoria egemonica. La riflessione di Gramsci in questa fase è la base essenziale della teoria sugli intellettuali sviluppata poi all’interno della Questione meridionale e delle riflessioni del carcere,  al contempo, è il punto d’arrivo di quella precedente e, nel complesso, affonda potentemente le sue radici nell’esperienza «ordinovista».

 

 

 


[1] A. Gramsci, lettera a Julca Schuct, 21 luglio 1924.

[1] A. Bordiga I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia, «Rassegna comunista», n. settembre/ottobre 1923.

[2] A. Gramsci, lettera all’Esecutivo del PCd’I, 12 settembre 1923.

[3] Ibid.

[4] V. I. Lenin, Opere Complete, Editori Riuniti, Roma, 1967, vol. XXXII

[5] V. I. Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti, Roma, 1970, pag. 233.

[6] Le Tesi sulla tattica del III Congresso, contestate duramente dall’ala sinistra dei tedeschi e da Bordiga, prendevano atto del riflusso generale dell’ondata rivoluzionaria. La presa del potere nei paesi occidentali si allontanava e ciò imponeva la predisposizione di una nuova, più adatta alle mutate condizioni. Il capitalismo era riuscito a riconquistare posizioni perdute ottenendo una tregua, in quella fase, il Comintern doveva puntare non tanto a preparare la guerra civile quanto a un lavoro di organizzazione, radicamento e agitazione. Il diverso grado di acutezza delle contraddizioni capitalistiche, la diversa articolazione sociale e capacità organizzativa della borghesia nei vari paesi, unitamente ai limiti ancora forti nelle organizzazioni proletarie, non aveva portato, con la fine della guerra, alla vittoria immediata della rivoluzione mondiale. Il processo rivoluzionario nel resto d’Europa si rivelava in sostanza ben più lungo di quanto era stato preventivato nel passato. Si apriva dunque una fase difficile nella bisognava fare i conti anche con le probabilità sconfitte per il movimento comunista europeo. Radek e tutto l’Esecutivo dell’Internazionale, lanciò dunque la parola d’ordine della conquista delle grandi masse lavoratrici, per fare dei partiti comunisti europei, non più soltanto piccoli gruppi di avanguardia, ma «grandi eserciti del proletariato mondiale».

 

[7] G. Fresu, Lenin lettore di Marx. Determinismo e dialettica nella storia del movimento operaio, La Città del Sole, Napoli, 2008.


Uscire dal Guado!

Uscire dal guado!

Comitato Politico Nazionale del PRC,

Roma, 9-10 luglio 2011.

Intervento di Gianni Fresu

 

Alla vigilia del nostro VIII Congresso, per quanto possa apparire poco logico, più che un problema di linea politica, su cui tutto sommato (tra tante sfumature) ci si può intendere, intravvedo una questione più stringente e preliminare, quella del soggetto deputato a incarnare e perseguire in maniera coerente e credibile quella linea. Da oramai tre anni continuiamo a dimenarci in mezzo al guado di un processo di transizione che pare infinito. Tra rallentamenti, fughe in avanti e ripiegamenti repentini, nei fatti, non siamo stati capaci di trasformare il Progetto della Federazione della Sinistra in un soggetto organico con organismi dirigenti e proposta politica sottoposta a verifica democratica. Abbiamo preferito una costante mediazione su tutto, alla ricerca dell’unanimismo, con il risultato di minarne la credibilità, la capacità attrattiva e, in ultima analisi, la tenuta elettorale. A partire dalla presentazione della lista comunista e anticapitalista alle ultime elezioni europee, il progetto della Federazione della Sinistra ha suscitato diverse speranze e molteplici aspettative. La crisi organica del capitalismo mondiale, il susseguirsi di una serie infinita di guerre imperialistiche legate alla lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche, l’intensificarsi nel nostro Paese dell’offensiva padronale contro il mondo del lavoro, hanno fornito più di una conferma oggettiva all’esigenza di un Partito non solo genericamente di sinistra, bensì di un’organizzazione che fondasse la sua ragion d’essere su una inequivocabile scelta di campo all’interno del conflitto capitale lavoro.  Alle conferme oggettive si sono sommate quelle soggettive, nel senso che a dispetto di chi per trent’anni ha preconizzato la fine del conflitto sociale e l’inutilità di un’organizzazione autonoma delle classi subalterne, in questi due anni è salita quasi spontaneamente, dal mondo del lavoro e dalle realtà del disagio sociale, la richiesta di una salda rappresentanza sociale e politica, seria e credibile, capace di andare oltre la classica oscillazione schizofrenica tra settarismo e opportunismo. Nonostante la presenza simultanea di questi fattori e le enormi potenzialità della fase, la Federazione stenta però a decollare e, a mio avviso, se non si imprime una severa sterzata, rischia di esaurirsi per autoconsunzione o implodere per deflagrazione interna. Il congresso della Federazione, in realtà poco più di un attivo nazionale dei quadri, è stata un’occasione mancata, perché la scelta di determinare organismi dirigenti pletorici, sulla base di quote predeterminate, senza vagliare il loro peso a tutti i livelli con congressi veri, ha impedito di risolvere il problema prioritario che la Federazione vive a livello nazionale e locale: la sovranità e l’effettiva capacità decisionale degli organismi federativi rispetto a quelli dei soggetti fondatori; la capacità di operare delle scelte politiche andando oltre la drammatica alternativa tra unanimismo e separazione che sistematicamente si presenta nei territori quando si tratta di far parte di un’alleanza o di una giunta, presentare liste, stabilire le modalità comuni di iniziativa politica e lotta sociale. Se vogliamo essere sinceri fino in fondo, allo stato attuale, la Federazione è poco più di un cartello elettorale, perennemente impastoiato in micro conflitti interni, nel quale tra i soggetti fondatori, in particolare i due partiti che dovrebbero costituire il fulcro dell’organizzazione, piuttosto che la reciproca lealtà e la solidarietà attiva e permanente prevalgono deteriori mire egemoniche e controegemoniche. Occorre una svolta urgente, e a mio avviso questo dovrebbe essere anzitutto il compito dell’VIII Congresso del PRC, per dar corso ad un effettivo processo di amalgama delle realtà che danno vita alla Federazione. In assenza di questa svolta, ma sarebbe una sciagura, meglio investire tutte le nostre energie sul rilancio della rifondazione comunista. Di certo non è più ammissibile che il criterio ispiratore della Federazione sia una sorta di pilatesca “mano invisibile”, in ragione della quale, dato che non possiamo fare di meglio, ci limitiamo a lasciare campo alle libere fluttuazioni tra i soggetti fondatori nell’assurda speranza che la competizione internatra PRC e PdCI  possa essere tutto sommato positiva. Non credo che se ognuno persegue il suo utile soggettivo fa, inconsapevolmente o meno, il bene dell’insieme e anche qualora fosse fortunosamente così il bluff si sgonfierebbe immediatamente dopo, quando al momento elettorale subentrano le ordinarie e straordinarie incombenze dell’agire politico.  Personalmente riterrei un grave errore un arretramento del processo federativo, dell’unità organica tra le forze che ne sono protagoniste, perché darebbe un’ulteriore conferma dei limiti della sinistra di classe nel nostro Paese, avviando un nuovo processo di scissione e frammentazione che nella drammaticità della situazione e nei risicati numeri che ci riguardano avrebbe connotati farseschi. Bisogna uscire dal guado, dare testa, corpo e gambe alla Federazione per consentirgli di vivere e misurarsi sul terreno della lotta politica nel cofronto con le altre forze democratiche e di sinistra. Ciò che non è più accettabile è il mantenimento di questo stato di cose dominato dall’inerzia e dalle ambiguità, oltre il quale intravvedo solo il progressivo svuotamento e l’impotenza sia della Federazione, sia dei suoi soggetti costitutivi. La Federazione nasce all’interno di un lungo processo dialettico nella sinistra, con l’ambizione di porre fine alle lacerazioni e al processo infinito di scissioni, più o meno significative. A questo processo dialettico manca il salto decisivo, il mutamento dalla mera quantità, puramente sommatoria, alla qualità nella natura dei rapporti federativi. Occorre il coraggio politico e la necessaria determinazione nella volontà per far compiere questo salto al nostro progetto politico.

 

Il tempo delle scelte di campo

Il tempo delle scelte di campo.

Di Gianni Fresu (Segretario regionale PRC) 16 marzo 2010

Delineare le prospettive politiche dell’attuale fase è complesso, perché gli esiti possibili di questa crisi sono molteplici e difficilmente prevedibili. Quella che investe il nostro paese e la nostra regione non è infatti solo una crisi economica ben lontana dall’esaurirsi, è una crisi delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali. Possiamo tuttavia fare delle valutazioni su un’epoca che con questa crisi sembra al tramonto e da questo trarre delle valutazioni rispetto al futuro. La fine della cosiddetta “Prima Repubblica” era avvenuta sull’onda di due principi che avrebbero dovuto trasformare in positivo il paese: in primo luogo, si affermava che la trasformazione del sistema politico in senso maggioritario e bipolare avrebbe creato maggior efficienza legislativa, capacità di rappresentanza democratica e persino minor corruzione del sistema politico; in secondo luogo, si affermava che con le privatizzazioni, le liberalizzazioni e la deregolamentazione del mercato del lavoro si sarebbe ottenuta una maggiore democrazia economica e la liberazione di enormi risorse da investire in produzione e nuova occupazione. Per spiegare quanto la prima previsione si sia rivelata fallace basta affidarsi alla minuta cronaca politica e giudiziaria di questi giorni, mentre per mostrare i veri effetti delle politiche economiche perseguite ci vorrebbe un trattato. Per stare in Sardegna, se la stagione degli investimenti pubblici si chiuse con uno stato patologico, la successiva stagione dominata dal dogma dell’iniziativa privata e delle leggi di mercato si è rivelata ancora più fallimentare. I processi di apertura ai privati si sono limitati ad un vergognoso assalto ai finanziamenti e alle agevolazioni pubbliche per accaparrarsi quel che restava della piattaforma industriale dell’isola o per progettare effimere attività produttive mai decollate dopo aver incamerato tutti i sussidi immaginabili. Per ragioni di spazio non mi è consentito trattare dei risultati delle politiche de redditi, degli effetti del patto di stabilità, delle ipocrisie insite nelle norme europee sulla concorrenza, ma anche in questo caso basta guardarsi attorno per comprendere quanto il quadro complessivo sia deficitario sotto ogni punto di vista. A fronte di entrambi versanti, le forze democratiche e di progresso possono sperare di riassumere un ruolo propulsivo e invertire la tendenza, solo divenendo realmente alternative alle destre. Anziché seguire Berlusconi sul terreno a lui confacente del bipartitismo, è necessario favorire il pluralismo delle forze democratiche e di sinistra sforzandosi di costruire una base di valori e obiettivi comuni. Questo può avvenire attraverso scelte di campo finalmente chiare nelle quali la tutela degli interessi popolari, delle funzioni sociali dello Stato, della difesa della Costituzione non siano più in discussione. La crisi ha messo a nudo le iniquità dei dogmi liberisti e la malafede delle forze interessate a mantenerli in vigore, è dunque tempo per rilanciare senza timidezze il tema di una nuova stagione di intervento e programmazione del pubblico in economia, di controllo pubblico del credito, di revisione profonda delle politiche comunitarie. In un contesto segnato dal disfacimento della piattaforma produttiva sarda e dal disarmo dei suoi settori economici strategici, con il conseguente corollario di disoccupazione ed espansione delle fasce di povertà ed esclusione sociale, occorre porre da subito il problema di una alternativa seria, credibile e dal profilo sociale chiaro al peggior governo regionale che la storia autonomistica della Sardegna abbia mai conosciuto. Non ci convince affatto l’idea dell’unità indistinta di un fantomatico “popolo sardo” nel quale si trovino a fianco sfruttatori e sfruttati, speculatori e defraudati, forze di maggioranza e opposizione. Il solo bipolarismo che ci interessa è quello tra forze che rappresentano modelli sociali e culturali realmente diversi e distinti, senza trasformismi e senza ambiguità.

ASSEMBLEA REGIONALE FEDERAZIONE DELLA SINISTRA – Relazione introduttiva di Gianni Fresu

ASSEMBLEA REGIONALE FEDERAZIONE DELLA SINISTRA

CAGLIARI, 12, 12 2009

Relazione introduttiva di Gianni Fresu

 

Finalmente si parte, la Federazione prende vita e cessa di essere solo un’idea. Ciò avviene in un contesto oggettivamente difficile, nel quale sembra essere giunta a compimento l’opera di distruzione delle organizzazioni autonome di classe delle lavoratrici e dei lavoratori e con essa il progressivo restringimento degli spazi di democrazia politica, sociale ed economica conquistati in un secolo di lotte. Sicuramente tutto questo è il risultato di una lunga guerra che ha impegnato sul piano culturale e politico le forze del capitalismo mondiale, ma in esso rientra anche il carico di errori commessi dalla sinistra. Proprio in coincidenza con questo obiettivo storico delle forze conservatrici si è però determinata una gigantesca crisi del modo di produzione capitalistico, con proporzioni e profondità che non si vedevano dal periodo tra le due guerre.

 

La natura della crisi

Una crisi del capitalismo in quanto tale, con i suoi rapporti di produzione, sfruttamento e le sue modalità distorte di appropriazione delle ricchezze, non una semplice difficoltà del cosiddetto neoliberismo e del suo sistema finanziario. Ma la crisi ha radici remote, ben precedenti al crollo delle borse. L’attuale inabissarsi dei dati sui consumi, che tanto allarma Berlusconi, è il frutto dell’autentica rapina operata a danno dei redditi da lavoro dipendente nell’ultimo ventennio, con lo spostarsi del 4% della ricchezza prodotta dal monte salari ai profitti delle imprese. L’Italia è il sesto tra i paesi OCSE ad avere una distribuzione del reddito diseguale: tra il 1993 e il 2008 a fronte di una crescita della produttività del 14,3%, solo il 3,8% è stato ridistribuito al lavoro. A questa condizione catastrofica ci hanno condotto le scellerate politiche dei redditi gestite con continuità dai governi tecnici del 92-93, quelli di centro sinistra e quelli della destra. Una rapina che non è avvenuta solo attraverso la cancellazione della scala mobile e la compressione salariale coatta, nella fase 1993-2008 per risanare il debito dello Stato, il sistema fiscale ha drenato gran parte delle sue risorse proprio dai lavoratori dipendenti non certo dai profitti e dalle rendite. È stato calcolato che lo Stato si è avvantaggiato di una somma pari a112 miliardi di euro, tra maggiore pressione fiscale e mancata restituzione del fiscal drag. Tra il 1995 e il 2006 i profitti netti sono cresciuti di circa il 75% mentre i salari solo il 5,5%. Oggi assistiamo all’ennesimo scippo del TFR, 3,1 miliardi di euro versati da tre milioni di lavoratori sottratti dalle casse dell’INPS per coprire un terzo dell’intera manovra finanziaria. Questo ennesimo esempio di finanza creativa di Tremonti, in una finanziaria scandalosa che ha il merito di scontentare tutti, viene impiegato per mere spese correnti neanche per investimenti produttivi o grandi interventi generali. Ciò la dice lunga sullo stato delle Finanze nel nostro paese.

La Federazione della Sinistra, una risposta di classe alla crisi organica del capitalismo

Comitato Politico Nazionale PRC

Roma 28, 29 novembre 2009

Intervento di Gianni Fresu

La Federazione della Sinistra, una risposta di classe alla crisi organica del capitalismo.

 

Se oggi, a fronte della liquefazione di Sinistra e libertà, rinunciassimo ad esercitare un’egemonia più ampia a sinistra, riaffermando la semplice autosufficienza della rifondazione comunista faremmo un errore strategico madornale. La Federazione della sinistra coniuga la necessità dell’unità a sinistra con l’esigenza di evitare scorciatoie organizzative liquidatorie della nostra soggettività. Chi paragona l’esperienza fallimentare della Sinistra arcobaleno con la Federazione sbaglia profondamente per varie ragioni: 1) in questa esperienza i comunisti non sono una semplice “tendenza culturale” ma la forza prevalente, come conferma del resto lo stesso simbolo adottato; 2) la Federazione nasce e si struttura con un netto profilo di alternatività e autonomia dal PD; 3) essa ha un inequivocabile dna sociale anticapitalista. L’esigenza di una più ampia unità a sinistra, costruita a partire da chiari contenuti politici e programmatici, non dall’idea volontaristica di creare un unico e indistinto partito della sinistra senza aggettivi, è dettata dalle condizioni soggettive ed oggettive del nostro agire politico. Ci viene chiesta a gran voce dal nostro stesso popolo, ed è al contempo indispensabile per tornare ad essere incisivi e utili alle classi subalterne. Quella attuale è una crisi organica e fasi di questo tipo, da che esiste il capitalismo, non danno luogo a momenti progressivi di ampliamento dei diritti e conquiste per il mondo del lavoro. Le crisi organiche producono rivoluzioni passive, vale a dire processi autoritari di involuzione delle relazioni sociali e politiche e ristrutturazioni violente del modo di produzione, finalizzate a ottenere maggiori remunerazioni del capitale ed una ancora maggiore condizione di subalternità delle classi sfruttate. Da un lato assistiamo attoniti al quotidiano vilipendio delle regole democratiche sancite dalla costituzione, dall’altro vediamo giorno dopo giorno quanto la crisi stia favorendo un consolidamento e ampliamento dei rapporti di dominio da parte delle classi sfruttatrici. Dopo venti anni di rapina sui redditi da lavoro dipendente, a fronte della crescita di produttività del lavoro, fatturato e profitti delle imprese, i padroni prendono la palla al balzo per avviare le procedure di fallimento, delocalizzare le produzioni all’estero, licenziare per poi riassumere con contratti di lavoro precario. La crisi si sta rivelando un vero affare per i padroni e le vertenze che quotidianamente scoppiano in tutta Italia lo confermano. La Sardegna in particolare vive un processo di desertificazione industriale disarmante. Già oggi la parte preponderante della nostra economia è composta di commercio e servizi, ciò nonostante non c’è distretto produttivo che non sia caratterizzato da dismissioni che mettono in luce le ipocrisie e le acrobazie dialettiche dei profeti del liberismo. A Iglesias opera un’impresa, la Rockwool che – a fronte di un attivo di bilancio, di un mercato consolidato, di impianti all’avanguardia e di finanziamenti e agevolazioni pubbliche di ogni sorta – dall’oggi al domani decide di chiudere, licenziare e trasferire la produzione nei Balcani.

E che dire dell’atro caso del Sulcis che ha attirato l’attenzione nazionale? La Sardegna vive il paradosso di essere autosufficiente sul piano energetico ma di pagare un costo per l’erogazione del servizio maggiore di qualsiasi altro distretto produttivo. Così l’intervento pubblico per promuovere tariffe agevolate è ora sotto il giudizio delle istituzioni europee per infrazione delle norme sulla concorrenza, da ciò la scusa per chiudere tutto e mandare a casa gli operai. Viene spontaneo domandarci, per quale ragione è stato possibile utilizzare danaro pubblico per salvare le banche sull’orlo del baratro senza che l’Unione europea avesse nulla da dire in merito alle norme sulla concorrenza? Per quale ragione Germania e Francia sono state in grado di fare massicce iniezioni di capitali pubblici ad un sistema di grandi imprese traballante senza che nessuno opponesse le obiezioni oggi sollevate per l’Alcoa? Come mai per salvare Alitalia il governo non ci ha pensato un minuto ad usare fiumi enormi di danaro pubblico e ad esercitare tutto il suo potere in sede comunitaria per non avere problemi, mentre ora si limita ad un ridicolo quanto inutile balbettio? Tutto questo ci chiarisce senza infingimenti che quando sono in gioco forti interessi capitalistici e i rispettivi governi nazionali decidono di tutelarli non ci sono norme sulla concorrenza o patti di stabilità che tengano. La crisi mette a nudo le iniquità dei dogmi liberisti e la malafede delle forze interessate a mantenerli in vigore. La federazione può costituire l’alternativa capace di rilanciare senza timidezze il tema di una nuova stagione di intervento e programmazione del pubblico in economia, di controllo pubblico del credito, di revisione profonda delle politiche comunitarie. Un ruolo che non può certo essere assolto da PD o IdV che in Parlamento europeo hanno sempre votato a favore di tutte le normative liberiste. È dunque la realtà concreta, segnata dal costante peggioramento delle condizioni di vita e lavoro delle classi subalterne, a spingerci verso uno scatto in avanti per mutare i rapporti di forza. La Federazione tenta di farlo su presupposti politici, sociali e organizzativi che non annacquano la questione comunista nel nostro paese, semmai la rimettono in gioco facendola uscire dall’angolo in cui ci hanno e ci siamo cacciati negli anni passati.

Un comune fronte di difesa democratica

Un comune fronte di difesa democratica.

(Liberazione, 16 novembre 2009)

Di Gianni Fresu, Segretario regionale PRC.

Personalmente non nutro alcun entusiasmo verso le primarie poiché esse si risolvono nell’ennesima delega passiva agli “specialisti della politica”, senza ridurne la distanza dalla società. Non mi seduce l’idea di un rapporto puramente episodico di convergenza tra la vita dei partiti e quella dei cittadini. Pur tra tanti limiti, i partiti del secondo dopoguerra realizzavano una partecipazione costante delle masse popolari alla vita politica e favorivano una formazione di gruppi dirigenti non esclusivamente composta da “specialisti, avevano strutture associative culturali, sociali, e sportive, che favorivano una maggiore organicità tra cittadini e politica. Le primarie invece ripropongono il vecchio schema ottocentesco del comitato elettorale liberale nel quale solo i notabili avevano possibilità di competere. I grandi partiti di massa del movimento operaio e cattolico nascono storicamente proprio per porre fine a questo stato di cose e realizzare una reale partecipazione popolare a tutte le scelte fondamentali della politica: definizione della linea, battaglie da intraprendere, selezione dei quadri dirigenti. Gli apostoli delle primarie risolvono ogni problema attraverso le virtù taumaturgiche del leader e confondono la personale capacità persuasiva del candidato con la costruzione di una comunità politica. Penso si dovrebbe puntare ad una autoriforma dei partiti politici per renderli nuovamente lo strumento principe di una partecipazione democratica quotidiana delle grandi masse popolari, assegnando finalmente ai congressi la funzione alta di luogo collettivo di elaborazione e direzione politica. I partiti dovrebbero tornare allo spirito che li animò nella fase della liberazione nazionale, della Costituente, della ricostruzione del paese, piuttosto che scimmiottare i modelli d’oltreoceano. Del resto gli USA hanno i livelli più alti di astensionismo e disimpegno politico al mondo, pur vivendo le primarie con una carica emotiva, una sovraesposizione mediatica e un dispendio di risorse economiche da noi impensabili. Al di là delle mie valutazioni sullo strumento in sé, il risultato delle primarie manda in soffitta la pretesa autosufficienza del PD, l’idea di imporre con la forza un bipartitismo innaturale attraverso soglie di sbarramento e leggi elettorali su misura. Tra noi e il PD restano profonde differenze che sul piano nazionale pregiudicano una organica politica delle alleanze comune, tuttavia, oggi, si può quanto meno pensare ad una opposizione comune contro il processo di involuzione autoritaria e di smantellamento dei principi costituzionali nel nostro Paese. Il Governo Berlusconi è una delle pagine più buie di reazione antidemocratica nella nostra storia e le forze democratiche non devono aspettare il fallimento di un nuovo Aventino per unirsi in un comune fronte di salute pubblica. In Sardegna, alla vigilia delle elezioni amministrative, è invece urgente la convocazione di un tavolo regionale che a partire da alcuni punti programmatici chiari, dalla presentabilità dei candidati e della linea di condotta, provi ad unire il fronte democratico tenendo fuori quelle forze di “confine” (UDC e PSd’Az) rivelatesi determinanti per la vittoria di Ugo Cappellacci e a tutt’oggi impegnatissime a sostenerne l’azione concreta. L’emergenza sociale non consente distrazioni, con dati sempre più drammatici per innalzamento della soglia di povertà, distruzione di posti di lavoro, ampliarsi delle fasce di emarginazione. Dopo le miracolistiche promesse della campagna elettorale questa Giunta regionale si è distinta soltanto per il rapporto di servile vassallaggio alle esigenze del Premier Berlusconi. Una giunta totalmente distante dai reali interessi della stragrande maggioranza dei sardi, integralmente concentrata nel conseguimento del proprio bottino. Le istituzioni autonomistiche della Sardegna non hanno mai vissuto un livello tanto basso di degrado e assenza di autorevolezza politica, occorre una svolta radicale per disarcionare questa classe di governo arruffona e incapace.

 

Gramsci e il nascente americanismo

Gramsci e il nascente americanismo

Si conclude domani la pubblicazione dei Quaderni del carcere

Martedì 21 luglio 2009
Il pensiero gramsciano si definisce nell’ultimo Quaderno scritto in carcere, ricco di temi ancor oggi d’attualità
Con il volume 18 in uscita domani si conclude l’edizione anastatica dei Quaderni del carcere. Contiene i Quaderni dal 22 al 29 e approfondisce temi come l’americanismo, la critica letteraria, il giornalismo, la storia delle classi subalterne, il folclore. Nel primo Gramsci analizza le profonde trasformazioni prodotte nella società americana dall’introduzione del fordismo-taylorismo. Il fascismo e l’americanismo-fordismo sono per Gramsci le due risposte, profondamente diverse, che la civiltà borghese ha dato alla sua “crisi organica” nel Novecento: la prima era una risposta profondamente regressiva, una rabbiosa difesa dell’ordine costituito tradizionale; la seconda costituiva invece una risposta progressiva e razionale – seppur segnata anch’essa da contraddizioni – che avrebbe sancito il passaggio dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica. Le due risposte erano conseguenti alla differente composizione sociale in Europa e negli Usa.
L’americanismo, per attuarsi concretamente, necessitava che non esistessero classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo. La civiltà europea era invece contraddistinta dal proliferare di “classi parassitarie” generate dalla ricchezza e complessità della storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito. Quanto più vetusta è la storia di un paese tanto più estese e dannose sono queste «sedimentazioni di masse fannullone e inutili che vivono del patrimonio degli avi, di questi pensionati della storia economica».
Questo processo di razionalizzazione necessitava la creazione di un nuovo tipo di lavoratore plasmato, in ogni suo aspetto, sulle esigenze della produzione e della catena di montaggio. L’espressione usata dall’ingegner Taylor “gorilla ammaestrato” esprime alla perfezione questo fine della società americana: «sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale». Ma per quanto i tentativi di spersonalizzazione del lavoro, propri dell’industrialismo taylorista, potessero essere profondamente pervasivi, secondo Gramsci, l’obiettivo di trasformare l’operaio in “gorilla ammaestrato” era destinato a fallire. Come si cammina, senza il bisogno che il cervello sia impegnato su tutti i movimenti che il camminare comporta, allo stesso modo il lavoro dell’operaio “fordizzato” non avrebbe determinato l’annullamento delle sue funzioni intellettuali e quindi politiche. Il tentativo di brutalizzazione dell’industrialismo mirava a rendere invalicabile la separazione tra lavoro manuale e funzioni intellettuali, ma proprio in questa sua irrealistica aspirazione stava il suo maggior limite.
GIANNI FRESU