L’autonomia integrale. Subalternità ed emancipazione nelle vicende del popolo sardo

L’autonomia integrale.

Subalternità ed emancipazione nelle vicende del popolo sardo

 Tratto dal volume Il pensiero necessario. Teoria e prassi nella vita politica di Umberto Cardia, (a cura di) P. Lusci, G. Marci, Isolapalma, Cagliari, 2022, ISBN 978-88-946694-8-0, p. 237-262.

In un passaggio nodale del suo libro di memorie Il mondo che ho vissuto, Cardia descrive il senso di straniamento e umiliazione provocato (nel suo animo di diciannovenne che si affacciava alla vita adulta) dal proclama con cui, il 10 giugno 1940, il Duce annunciava l’ingresso dell’Italia in guerra.

Moralmente ero già fuori dal regime e all’opposizione: ma non sapevo cosa fare, con chi parlare, al di là delle battute d’occasione e dell’indifferentismo, o del sottile cinismo, che, con poche eccezioni, accomunavano la cerchia dei miei familiari e parenti, dei miei coetanei e compagne o compagni di studio e dei nostri professori. Non avevamo, nella nostra ripulsa, né guide né maestri. Eravamo, ciascuno di noi, soli con i nostri dilemmi e i nostri tormenti. Da soli dovevamo trovare la nostra strada[1].

Lo stato di angoscia, lo spaesamento e la solitudine, il non aver «né guide né maestri», erano sentimenti diffusi, in una fase comunque attraversata da un clima di strisciante inquietudine tra un numero sempre maggiore di giovani, educati nella dottrina del fascismo, ma profondamente insoddisfatti delle sue realizzazioni concrete[2]. La mancanza di punti di riferimento alternativi all’ideologia del regime, specie tra le nuove generazioni che non avevano nemmeno memoria di cosa fosse stata l’Italia prefascista, era uno dei segnali più evidenti della vittoria di Mussolini. Essere riusciti a interrompere con il rapporto tra le generazioni, la consapevolezza e la conoscenza dei giovani sul trapasso al fascismo, era uno degli effetti dell’opera di penetrazione capillare nella società, persino nella vita delle singole famiglie, del fascismo.  Tuttavia, proprio le nuove leve allevate a “pane e fascismo” e non contaminate dal germe delle ideologie liberali, democratiche o marxiste, quelle su cui il regime tanto aveva puntato e da cui doveva venir fuori «l’uomo nuovo fascista», si rivelarono in definitiva il suo punto debole. Le generazioni inquiete degli “anni difficili”, infatti, fornirono una parte consistente di quadri e, più in generale, una base di massa alla guerra di liberazione nazionale. Come detto erano giovani cresciuti nel regime, ma furono protagonisti di un processo di distacco e poi di emancipazione dal fascismo, fino all’opposizione aperta e l’arruolamento nelle formazioni partigiane. Tra le vecchie leve di antifascisti, in gran parte esuli sconfitti anche se non piegati dal fascismo, e questi giovani c’era un salto generazionale, ciò nonostante, negli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta si determinò una saldatura fortissima destinata a costituire la spina dorsale della Resistenza[3].

In questo processo storico di frattura e ricomposizione troviamo le premesse ideali e le determinazioni concrete grazie alle quali, insieme a «guide» e «maestri», Cardia riuscì a trovare la propria «strada», definendo le due passioni che animeranno l’intera sua esistenza: 1) l’amore per la politica, intesa come impegno civile teso al riscatto e all’emancipazione sociale degli sfruttati, di coloro che non hanno altra ricchezza al di fuori della propria forza lavoro e subiscono gli effetti della subalternità tanto nella dimensione materiale quanto in quella spirituale; 2) l’amore per la Sardegna e la sua storia, né da mitizzare né da misconoscere, cui andava restituita la sua importanza e dignità nel quadro generale di rinnovamento politico e sociale generato dalla sconfitta del fascismo e dall’edificazione di una nuova democrazia repubblicana con ambizioni progressive. Negli anni dei grandi dibattiti sulla Rinascita della Sardegna, di cui Cardia fu sicuro protagonista, riscattare quella storia dalle consolatorie narrazioni del «regionalismo chiuso» e insieme dalle valutazioni sprezzanti del «cosmopolitismo di maniera»[4] era un’esigenza organicamente connessa ai grandi temi dello sviluppo economico e culturale.

Nel libro curato da Umberto Cardia, nel quale vengono raccolti scritti e interventi su La Sardegna di ieri e di oggi[5], Laconi rilevava come nella storia della filosofia e delle scienze non compariva neanche il nome di un sardo, mentre nella storia letteraria a malapena era compresa Grazia Deledda. Nei manuali di storia, poi, la Sardegna emergeva raramente e in funzione totalmente marginale, fino ad apparire niente altro che terra di conquista disertata dal genio nel corso dei secoli. Dietro a questo taglio della storiografia nazionale unitaria si celava lo stesso indirizzo ideologico che aveva condannato al silenzio la storia delle classi subalterne. Pertanto, rimanevano fuori dalla storia d’Italia tutti quegli episodi nei quali la Sardegna aveva assunto una sua propria soggettività autonoma. Contro questa censura, in Sardegna, tra la fine del XVIII e l’inizio del XX secolo, si era sviluppato un movimento culturale che attraverso la ricerca storica intendeva sottrarre l’isola dall’oblio e dal silenzio delle memorie.

Dal territorio dell’approfondimento storico quel movimento si era esteso agli studi economici, dell’arte, della poesia e della letteratura. Da quest’aspirazione nasceva il progetto politico del sardismo, che era stato soffocato dal fascismo, condannando l’isola ad altri venti anni di dolorosa amputazione della sua storia e delle sue tradizioni, attraverso la cancellazione di ogni spazio che consentisse un proprio fermento culturale. Nella prospettiva nazionalista del fascismo anche gli studi sardi avevano finito per assumere un connotato sovversivo, al punto che fu ridotta al silenzio “Il Nuraghe”, l’unica realtà editoriale che tra mille limiti si era occupata di raccogliere e pubblicare le opere degli scrittori isolani. Questa lunga, pervasiva, stagione di chiusura politica e culturale, secondo Laconi, aveva finito per influenzare anche la mentalità di tanti giovani intellettuali sardi, i quali, magari, pur non essendo divenuti fascisti si lasciarono guidare dall’inerzia e dalla pigrizia, piuttosto che trovare un comune orientamento ideologico attraverso il quale resistere all’oscurantismo. A quella pigrizia e alle sicurezze conformiste che l’impiego intellettuale garantisce Laconi riconduceva anche l’atteggiamento provinciale di buona parte degli intellettuali sardi nei confronti della propria cultura, vissuta con malcelato fastidio e con l’irrisione verso l’ambiente e le tradizioni locali. Questo approccio produceva una frattura tra gli intellettuali isolani e il profondo sentimento sardista che animava il pastore o il semplice contadino.

Firenze, Torino, Roma, culle delle classi dirigenti, sono fin nelle più minute vicende della loro vita municipale, le grandi protagoniste della cronaca e della storia d’Italia. E Firenze, Milano, Roma divengono le patrie ideali dell’intellettuale di provincia. Spesso l’insegnante, il medico, che sono nati in Sardegna, si trovano nella stessa condizione d’animo del funzionario trasferitovi contro sua voglia, pronti a cogliere la prima occasione per ottenere una destinazione sul continente. E poiché i migliori trovano più facile il salto, ogni generazione d’intellettuali si screma e la Sardegna perde, di anno in anno, molti fra i suoi figli più attivi e capaci. Chi resta, se svolge un’attività artistica o culturale, ha sul continente, e non in Sardegna, il giornale o l’impresa culturale a cui far capo, ed è magari, come artista o scrittore, pressoché ignoto nell’Isola[6].

Sensibile a questo ordine di problemi, Umberto Cardia trovò in Gramsci e Laconi quelle «guide» e quei «maestri» di cui, nelle giornate tragiche del giugno 1940, sentiva disperatamente bisogno per intraprendere, all’interno di un progetto collettivo di emancipazione sociale, una sua strada verso la liberazione dall’angustia esistenziale imposta dal regime fascista. Dal primo ereditò la passione per la storia disgregata ed episodica dei gruppi subalterni raccogliendo la sua esortazione alla costruzione della “storia integrale”, ossia, un approccio insieme scientifico e politico capace di «cogliere il valore inestimabile di ogni traccia di iniziativa autonoma»[7] delle masse senza voce. Dal secondo assunse il compito programmatico della costruzione di una nuova «autonomia integrale»[8] come soluzione progressiva delle contraddizioni immanenti alla questione sarda: immettere la storia delle masse popolari sarde, con tutto il suo retroterra di tradizioni popolari e manifestazioni culturali, nel grande alveo della storia generale, della politica nazionale ed internazionale. Se la Sardegna in quanto tale esprimeva storicamente il problema di una soggettività marginale e subalterna ciò valeva ancora di più per le sue masse popolari inquadrate in livelli di assoggettamento molteplice persino più profondi e stratificati. Una «autonomia integrale» che andava perseguita non solo attraverso le lotte sociali e l’impegno politico, ma anche attraverso un’indagine storica e filosofica in grado di gettare le basi una nuova «coscienza critica» attraverso la quale popolo sardo potesse intraprendere il cammino verso la propria emancipazione:

Il sentimento del carattere profondo, millenario, delle radici e dell’autonomismo sardo è, in Gramsci, come del resto in Emilio Lussu e nella cultura sarda dell’ultimo secolo […], più istintivo che riflesso, dato lo stato ancora frammentario e monografico della ricostruzione «dall’interno» della vicenda storica del popolo sardo e dei tratti specifici, autonomi e differenziali della sua formazione nel tempo. Gli uomini politici sardi, quello d’elezione almeno, hanno dovuto sopperire a questa vasta lacuna, trasformandosi in storici o, almeno, in studiosi del nostro passato[9].

 

Il problema storico e concettuale di una dolosa rimozione

Nel volume intitolato Gramsci e la svolta degli anni Trenta curati, che raccoglie articoli e materiali pubblicati sulla rivista “Rinascita Sarda” tra il 1966 e il 1967 attorno al dibattito suscitato dalla pubblicazione della famosa biografia di Giuseppe Fiori, Umberto Cardia affronta diversi nodi interpretativi e importanti questioni non sufficientemente studiate[10]. Tra esse, egli ha indicato l’importanza della questione sarda nella definizione di alcune categorie e concezioni a partire dalle quali, nel corso di un’elaborazione di anni, Gramsci giunge a identificare nella questione meridionale lo snodo paradigmatico delle contraddizioni organiche connaturate alla formazione nazionale italiana[11].  A partire dalla sua esperienza sarda, infatti, la centralità dei rapporti di sviluppo diseguali tra Nord e Sud, chiave di volta degli equilibri sociali passivi tradizionali, diventa sempre più chiara a Gramsci.

Come personalmente ho affermato in altre occasioni[12], tenere in debita considerazione il contesto storico e sociale della terra in cui Gramsci nasce, si forma e definisce le sue propensioni intellettuali, è importante non solo per assolvere alle esigenze di ricostruzione biografica, ma per comprendere l’origine di categorie e concezioni che ne contraddistinguono il pensiero. Gramsci arriva non solo negli anni della maturità a una visione complessa del conflitto di classe, concependo la rivoluzione come sintesi di un blocco sociale capace di unire organicamente le rivendicazioni della classe operaia e le istanze storiche dei gruppi rurali subalterni. La centralità della questione contadina è in lui ben precedente alla sua scoperta e lettura di Lenin. Essa è una delle primissime acquisizioni del giovane Gramsci, affondando le proprie radici nella concretezza della formazione sociale sarda, nell’insieme delle esperienze di vita e nell’attenta osservazione di quel mondo, con tutte le sue contraddizioni[13].

Come Guido Melis ebbe modo di chiarire, nei primi anni Venti la Sardegna appariva a Gramsci il terreno ideale per la verifica delle sue idee sulla questione meridionale, per questo, e non solo per riabbracciare i suoi effetti, nell’ottobre del 1924, decise di tornare per l’ultima volta nella sua terra in occasione del Congresso semiclandestino di Is Arenas a Cagliari:

L’aveva ammesso implicitamente egli stesso, quando, nel 1923, aveva definito proprio la situazione del Partito sardo d’Azione, movimento di ex combattenti e come tale “primo partito laico” dei contadini”, come «il campo per affermazioni essenziali nel problema dei rapporti fra proletariato e classi di campagna». Lo avrebbe ribadito a Is Arenas, nell’intento di convincere i riluttanti compagni sardi ad una politica più aperta verso il problema delle masse rurali[14].

L’importanza di questo vincolo tra Gramsci e la sua terra, tuttavia, ancora oggi, appare non pienamente considerato nella sua debita importanza[15]. In parte non trascurabile della cultura italiana persiste, forte e radicata, la tendenza a non prendere mai troppo sul serio le vicende della storia sociale sarda, considerata in genere “storia locale” o “storia minore”, di limitato o secondario interesse rispetto alla “Storia con la S maiuscola”. Una sottovalutazione che coinvolge anche molte letture dell’opera di Gramsci, la cui genialità è sovente ricondotta alla “sprovincializzazione” del futuro teorico dell’egemonia nel continente. In realtà non solo il retroterra sardo è fondamentale per comprendere la sua formazione[16], la questione sarda è importante nel processo di definizione della questione meridionale, in primo luogo per capire le premesse della rivolta morale contro la natura parassitaria del capitalismo italiano, che porta il giovane Gramsci ad assumere per la prima volta una posizione politica formale aderendo al Gruppo sardo antiprotezionista di Attilio Deffenu già nel 1913[17].

Di questa giovanile rivolta morale, che lo salvò dal «diventare completamente un cencio inamidato», troviamo traccia anche nelle lettere, ad esempio in quella spedita alla madre il 6 marzo 1924 nella quale Gramsci ricordava l’istinto di ribellione contro i ricchi, allargatosi a «tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna», quando il futuro dirigente comunista ancora pensava che «si dovesse lottare per l’indipendenza nazionale della regione» e nelle sue discussioni ripeteva spesso la frase «Al mare i continentali!»[18]. La rimozione di questo retroterra, in sé poco gramsciana, diventa paradossale quando a fronte dell’interesse post-coloniale verso realtà lontane caratterizzate dall’assoggettamento capitalistico occidentale, negli studi gramsciani non si mostra la stessa attenzione per le dinamiche di “colonialismo interno”, relegate nella dimensione della irrilevanza storica in quanto “periferiche”. Quando poi questa “periferia” è addirittura ventre materno palestra di vita di un autore come Gramsci dal paradosso si passa alla contraddizione. Ciò di cui non si tiene conto, sebbene sia di fondamentale importanza nella definizione di alcune concezioni e posizioni specifiche di Gramsci, è l’insieme degli avvenimenti che riguardano la modernizzazione passiva della sua terra[19].

In evidente polemica con questa dolosa rimozione, Cardia ha scritto, «Gramsci fu più sardo e più pienamente di quanto non si sia generalmente riconosciuto ed ammesso»[20]:

Si è persino potuto credere che, nel suo pensiero e nella sua concezione nazionale e universale, della rivoluzione proletaria e della creazione dell’ordine nuovo socialista e comunista, nell’immagine stessa di un mondo grande e terribile con le sue mareggiate e catastrofi, vi fosse non so quale superamento della «questione sarda» e del «sardismo», o che la Sardegna finisse per essere, nella mente di lui, solo il porto lontano ed angusto da cui aveva, un giorno, alzato le vele, una regione di favola, un ricordo, una acuta nostalgia. E che, in definitiva, nella sua visione, unitaria e nazionale, della questione meridionale e del disgregato e informe amalgama contadino, cui solo l’impulso disciplinato della moderna classe operaia settentrionale poteva imprimere uno slancio rivoluzionario, si perdesse ogni specificità e concretezza storica della «questione sarda» come questione di una semi-nazionalità in lotta per il riscatto politico, economico, civile[21].

Questione sarda e questione meridionale

Come sappiamo, la questione meridionale è sistematicamente presente in tutte le elaborazioni politiche e nell’analisi della società italiana di Gramsci, una questione problematica attorno alla quale si articolano le contraddizioni del processo di unificazione nazionale e le modalità distorte di sviluppo economico e sociale del Paese. Approfondendo tutto questo, attraverso una lunga e articolata elaborazione, l’autore dei Quaderni ha definito alcune delle sue categorie più importanti e studiate a livello internazionale, come quelle riconducibili al ruolo dell’egemonia e alla funzione degli intellettuali nell’opera di passivizzazione e neutralizzazione preventiva di qualsiasi autonoma soggettività dei gruppi subalterni. La centralità di questo problema nell’elaborazione gramsciana si definisce negli anni, costituendo l’asse centrale delle Tesi di Lione, del saggio sulla Questione meridionale e delle note dei Quaderni sulle contraddizioni immanenti al processo di unificazione ed edificazione statale italiana.

L’Ottocento è un secolo emblematico per la storia d’Italia, non solo per i processi politici che preparano e conducono in porto un evento tanto complesso e difficile a realizzarsi come l’Unità d’Italia, ma anche perché in esso si determinano significative tensioni dialettiche connesse alla modernizzazione (economico-sociale, politico-istituzionale, culturale), destinate ad avere importanti riflessi anche sulla storia del Novecento. Ciò riguarda in primo luogo la storia della Sardegna, al centro di processi riformatori che, a prescindere dai giudizi di merito e dai risultati ottenuti, costituiscono un epocale momento di transizione. Il problema della costituzione di un capitale originario e di una conseguente borghesia con connotati moderni, il mutamento dei regimi fondiari e delle modalità di produzione e accumulazione nelle campagne, la questione degli assetti istituzionali dell’isola in rapporto ai più complessivi mutamenti nella penisola, sono tutti temi di assoluto rilievo storico che in passato hanno trovato molteplici momenti di approfondimento monografico in ambito economico, giuridico e storico. In Sardegna la tradizionale dialettica città-campagna assume una sua connotazione peculiare come dialettica incrociata tra borghesia urbana e comunità dedite alle attività pastorali e, allo stesso tempo, tra agricoltura stanziale e allevamento errante. Tutti i problemi economici, culturali e politici connessi alle riforme sulla proprietà perfetta e l’eversione del vecchio regime feudale, così come le fasi più acute di malessere sociale sfociate nelle ondate di banditismo, sono connesse strettamente a questa dialettica.

La concezione amministrativa e moderna dello Stato piemontese, pervasa da una fiducia illuministica e fisiocratica verso le possibilità di transizione normativa alla modernità, rivelò, nell’urto con la realtà sarda una indubbia rigidità politica, ciò impedì, anche in età liberale, di comprendere nel profondo le cause reali del suo malessere. Tutto rientrava nell’alveo della prova di forza militare e degli interventi legislativi tesi a cancellare l’anomalia della civiltà pastorale sarda con un regime fondiario che ne impedisse la sopravvivenza. «I piemontesi obbedivano ad un disegno di colonizzazione più puntuale e rigoroso di quello spagnolo, un disegno che richiedeva un controllo sicuro dell’intero territorio isolano»[22].

Tra il 1720 e il 1850 per i Savoia e le classi dirigenti sardo-piemontesi la Sardegna è stata un grande laboratorio nel quale vengono sperimentate le forme di egemonia e di dominio che si riproporranno dopo l’Unità nella relazione diseguale tra regioni settentrionali e meridionali. Con la fine dei moti antifeudali, dei fermenti antipiemontesi e delle rivendicazioni autonomistiche, si aprì una fase di progressivo inserimento delle classi dirigenti sarde negli equilibri governativi[23].

Rifacendosi alle categorie di Gramsci, Cardia spiega come la dialettica tra classi dirigenti e subalterni in Sardegna, quella tradizionale tra città e campagna, resa qui ancora più complessa dalla dialettica tra agricoltura stanziale e pastorizia errante, trova dunque un punto essenziale nella funzione degli intellettuali grandi, intermedi e piccoli. Secondo Cardia, superate le turbolenze di fine Settecento, nel corso del XIX secolo si determina un assorbimento delle classi dirigenti sarde entro gli equilibri di quelle piemontesi prima, e italiane poi. Tutti gli strumenti culturali inevitabilmente sono messi a servizio di quest’operazione politica di modernizzazione passiva, ottenuta evitando accuratamente ogni reale processo di crescita delle masse rurali sarde in termini di indipendenza economica, sociale e quindi politica.

La dinamica della modernizzazione sarda nei termini di una rivoluzione passiva, a partire dalla trasformazione del suo regime fondiario nel corso del XIX secolo[24], seppur nelle sue peculiarità, costituisce un primo importantissimo caso di colonialismo interno che, sotto diversi aspetti, anche nelle forme di radicale insorgenza generate e duramente represse, anticipa le caratteristiche essenziali della questione meridionale italiana[25]. Come ha scritto Giulio Angioni, «con una certa verosimiglianza si può affermare che la Sardegna è stata in qualche modo una piccola prova generale del processo di discriminazione sviluppatosi macroscopicamente in seguito nell’ambito dello Stato nazionale italiano, diretto dalla borghesia industriale e finanziaria delle regioni settentrionali e secondariamente dagli agrari latifondisti e da altri ceti parassitari del Meridione».[26]

La barbarie congenita

La continuità nel rappresentare a tinte fosche la civiltà pastorale, affermandone la congenita e brutale tendenza a delinquere, rientra per molti versi in questa dinamica delle classi dirigenti in gran parte disinteressate alla vera natura delle contraddizioni al fondo della questione sarda, su cui, con queste parole, Cardia si esprime:

Il brigantaggio sardo, forma peculiare di banditismo rurale, i cui rudimenti disgregati permangono nelle ultime vicende del nostro secolo, sgorga continuamente, oltre che da radici e motivi di carattere più generale e politico, da quella contraddizione, come prodotto organico non della povertà endemica ma del sistema di appropriazione e di gestione della terra e del pascolo. Il banditismo sardo nasce, sociologicamente, nel terreno selvaggio della lotta e della concorrenza per i pascoli, per un confine, per una fonte e un rivo d’acqua: la società lo plasma poi, a seconda del prevalere delle forme specifiche del potere economico, sociale, politico[27].

Trascurare la matrice politica del banditismo durante la transizione sarda verso la modernità, dunque, significa per Cardia non comprendere in profondità un fenomeno che anche fino a tempi relativamente recenti produceva senso di appartenenza ed emulazione in non limitati strati di popolazione. La vita alla macchia per lungo tempo è stata percepita «una forma sia pure degradata di libertà, quasi immagine e nostalgia di un proprio autoctono stato, di una giustizia propria»[28]. Il ribellismo endemico in Sardegna, almeno alle sue origini, ha avuto anche un suo significato sociale e politico di rifiuto verso i modelli imposti dal «forestiero», di rivolta contro l’oppressione feudale prima e capitalistica poi, in quanto formazioni sociali imposte dall’esterno.

Nell’urto prodottosi dal contrasto tra gli usi tradizionali della società sarda e l’avvento di forme economiche, giuridiche e istituzionali moderne, l’esplodere del banditismo sociale, i moti popolari all’insegna del torrare a su connottu, sono anche conseguenza diretta di quell’«equilibrio passivo» su cui si realizzò la fusione e dell’occasione persa dalle stesse classi dirigenti sarde. La modernizzazione si arrestò a un livello preliminare senza dar corso a una reale evoluzione di tipo liberale, dell’economia, della società e soprattutto del sistema politico. La pastorizia errante, nonostante la sua centralità nella società sarda, fu il principale ambito produttivo a fare le spese del nuovo regime. Complice il fisco rapace, l’approssimazione mortificante con cui fu realizzato il catasto, l’assenza di risorse da investire per una modernizzazione effettiva della produzione nelle campagne, le riforme non riuscirono a imprimere la svolta auspicata e propagandata, deprimendo ulteriormente una realtà economica già di per sé debole. In assenza del decollo imprenditoriale e capitalistico della produzione agraria, la struttura economica delle campagne non fu in grado di assorbire forza lavoro e, al contempo, non disponeva più delle tradizionali regole di autosufficienza su cui si era basata per secoli la sussistenza delle masse rurali. Le vecchie civiltà rurali si trovarono sotto assedio e i pastori furono marchiati come residuo di un passato feudale da cancellare. Da ciò una miseria crescente che finì per suscitare una nostalgia leggendaria per il passato e la fiera resistenza in difesa di quel poco che ne era sopravvissuto. Come ho avuto modo di chiarire in una mia monografia, gli abusi commessi dai proprietari nella realizzazione dei loro patrimoni, spesso con la complicità delle istituzioni, contribuirono a far percepire a molti la proprietà privata delle terre come il frutto di una gigantesca razzia, di un’usurpazione violenta e prepotente, di una bardana originaria su larga scala.

Un profondo mutamento nel modo di produzione agropastorale si determinò inoltre con l’impianto delle industrie casearie in Sardegna tra il 1885 e gli inizi del Novecento. I primi stabilimenti vennero creati da imprenditori laziali e toscani desiderosi di far fronte alle crescenti richieste di pecorino romano dal mercato statunitense a cui la produzione del Lazio non poteva far fronte. La pastorizia sarda aveva mantenuto nei secoli una fisionomia primitiva e la produzione era finalizzata al limitato mercato interno, al baratto, alle mere esigenze delle stesse famiglie di produttori. Le esigenze del mercato nazionale e internazionale spinsero a incrementare la produzione di latte, quindi a sottrarre terreni all’agricoltura per destinarli al pascolo. In ragione del minor numero di addetti nella pastorizia rispetto all’agricoltura si determinò una diminuzione degli occupati nelle campagne, contestualmente ad un aumento dei canoni di affitto e del costo della vita. La nuova fase imprenditoriale avvantaggiò esclusivamente la proprietà fondiaria e gli industriali che potendo fare cartello imponevano con assoluta discrezionalità un prezzo del latte talmente irrisorio da impedire qualsiasi investimento e sviluppo fino a non consentire la copertura dei costi di produzione. Se prima i pastori erano i signori delle zone interne che controllavano autonomamente l’intero ciclo di produzione pastorale, con la privatizzazione delle terre e l’impianto dell’industria casearia divengono solo un anello della catena, quello più debole e indifeso esposto ad una condizione di precarietà che inevitabilmente genera tensione verso i proprietari terrieri e gli industriali. Il cosiddetto malessere delle zone interne, i picchi nei tassi di criminalità dall’Ottocento fino a tempi recentissimi affondano le radici in questo insieme di concause. Il pastore prima era allevatore, produttore e commerciante, ora è solo un custode mungitore, mentre la trasformazione e commercializzazione vengono assunti dai gruppi industriali. Un processo che ricorda molto da vicino le riflessioni di Marx sulla separazione del produttore dai mezzi di produzione nella cosiddetta fase dell’accumulazione originaria.

Nella sua relazione per l’Inchiesta parlamentare del 1971 Ignazio Pirastu individuò proprio in questa contraddizione, tra la dimensione ancora primitiva dell’allevamento e la modernità capitalistica delle fasi di trasformazione e vendita dei prodotti, il punto critico della società sarda che incredibilmente ha varcato non solo l’Ottocento ma anche il secolo successivo, arrivando fino alle cronache di lotta dei pastori sardi dei giorni nostri:

Sarà il pastore d’ora in poi a subire le conseguenze di ogni crisi di mercato, crisi che l’industriale potrà affrontare con la manovra del prezzo del latte contro il pastore ormai non più in grado di modificare la rigida componente del canone d’affitto cui si è impegnato o che ha già pagato all’inizio dell’annata agraria. […] La mancata modifica del primitivo assetto della pastorizia e la mancata trasformazione dei pascoli urtano drammaticamente con le nuove moderne forme di produzione industriale, accentuando ed esasperando le contraddizioni, il divario e l’impronta di arretratezza che già esisteva nel secolo precedente[29].

Il pastore è inserito in un mercato più vasto che non può più controllare in alcun modo, ne diviene la semplice forza lavoro senza per questo mutare le forme arcaiche della sua realtà. Non è un lavoratore salariato, ma subisce allo stesso modo quel processo di alienazione tra la sua attività e il risultato del suo lavoro che Marx aveva analizzato per la produzione industriale. Il punto decisivo, che segna la rottura dei vecchi equilibri e determina l’esplodere del banditismo, non è tanto o solo la condizione di disagio economico, quanto il costante rischio di annullamento, il declassamento imposto dalla preponderanza di figure sociali più forti e tutelate come i proprietari e gli industriali. Un mondo sottoposto alla costante minaccia di perdere tutto, agitato dal timore dei pastori di ridursi a braccianti, senza né terra né bestiame, quindi dalla paura di perdere una funzione sociale e produttiva esercitata con continuità in una lunghissima storia. È da questa condizione sociale, nelle campagne sempre più spopolate, nelle fasi della transumanza, che ha origine quello che viene definito il primo passo verso il banditismo, l’abigeato, quindi la rapina e l’estorsione.

Secondo Gramsci, il processo d’unificazione nazionale italiano non si realizzò sulla base di un rapporto d’uguaglianza, ma attraverso una relazione squilibrata all’interno della quale l’arricchimento e l’incremento industriale del Nord dipendevano strettamente dal crescente impoverimento del Mezzogiorno. La realtà dello sfruttamento semicoloniale del Sud è stata sempre accuratamente celata dalle classi dirigenti e a quest’opera, secondo Gramsci, contribuirono pure gli intellettuali socialisti, i quali, anziché svelare l’origine del rapporto diseguale, spiegarono l’arretratezza del Sud con l’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita dell’uomo meridionale. In questo modo ha trovato ampio seguito la convinzione di un Sud liberato dalla feudalità, fertile e ricco di risorse naturali, e ciò nonostante incapace di emanciparsi dalla miseria e dall’arretratezza per ragioni tutte interne al Meridione stesso; vale a dire, si è radicata l’immagine di un Sud «palla al piede» che impediva al Nord un più rapido progresso verso la modernità industriale e la ricchezza economica[30]. Una visione presente, ben prima dell’Unità d’Italia, anche nelle analisi sul disagio economico e sociale della Sardegna e del suo fenomeno più emblematico, il banditismo.

Come ha scritto Michelangelo Pira, per lungo tempo, le cause del banditismo, e del brigantaggio meridionale, furono ricondotte alle individualità «considerate feroci per natura» piuttosto che «ai codici di intere comunità oppresse». Il positivismo fece da supporto scientifico alla pretesa di imporre con l’esercito la «civiltà», e tra le classi dirigenti mai si fece spazio l’idea che «la questione sarda non è una questione di polizia, ma una vera e propria guerra politica e sociale»[31].

Prima e dopo il Risorgimento, la questione sarda fu archiviata come problema di ordine pubblico e il banditismo considerato la causa del sottosviluppo, non l’effetto; le cause della criminalità andavano ricercate in una sorta di tara congenita, biologico-razziale, del popolo sardo[32]. Un tema che troviamo spesso nelle riflessioni di Gramsci, tanto negli scritti giovanili[33], pensiamo all’articolo da egli dedicato al viaggio di Pietro Mascagni in Sardegna nel maggio 1916, trasformato sulle colonne de “La Stampa” in viaggio esotico in una terra primitiva abitata da barbari e banditi[34], quanto nelle considerazioni mature sul rapporto nefasto tra positivismo e antropologia criminale presente negli approcci del socialismo italiano alla questione meridionale.

Le basi parassitarie del protezionismo

Dietro al protezionismo, che colpì ferocemente la società sarda di fine Ottocento, Gramsci intravvedeva la moneta di scambio del blocco di potere che univa la borghesia industriale del Nord e i ceti parassitari della proprietà terriera meridionale, di cui le sterminate plebi del Sud pagarono il conto. La drammatica condizione della Sardegna a cavallo tra Ottocento e Novecento, posta in relazione con gli effetti devastanti del protezionismo, è descritta da Gramsci nel 1918 come esempio paradigmatico delle contraddizioni nazionali:

Anni terribili, che in Sardegna, per esempio, hanno lasciato lo stesso ricordo dell’anno ’12 [1812, n.d.A.], quando si moriva di fame per le vie e uno starello di grano veniva clandestinamente scambiato col campo seminativo corrispondente. L’inchiesta dell’on. Pais sulla Sardegna è un documento che rimarrà indelebile marchio d’infamia per la politica di Crispi e dei ceti economici che la sostennero. L’isola di Sardegna fu letteralmente rasa al suolo come per un’invasione barbarica; caddero le foreste – che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche – per trovare merce facile che ridesse credito, e piovvero invece gli spogliatoi di cadaveri, che corruppero i costumi politici e la vita morale[35].

Già in un articolo dell’aprile 1916 Gramsci trova nella questione meridionale un incrocio di contraddizioni paradigmatiche dei limiti nel processo di unificazione nazionale, a partire dall’adozione di un modello amministrativo centralistico, inadeguato alla realtà italiana e profondamente diverso da quello che Cavour aveva in mente. Dopo più di mille anni venivano riunificati due tronconi della penisola fino ad allora caratterizzati da forme di sviluppo storico, economico e anche istituzionale completamente differenti. «L’accentramento bestiale» concepì il Sud come mercato coloniale interno del Nord, confondendo o ignorando le reali esigenze del Mezzogiorno. L’unica alternativa alla miseria assoluta si incontrava negli esodi biblici dell’emigrazione di massa, mentre la reazione a questo stato di cose si manifestò nelle forme episodiche e disorganiche del ribellismo contadino o del brigantaggio. Il protezionismo, pertanto, era lo strumento di consolidamento di un processo contraddittorio di modernizzazione, in seguito sintetizzato con il concetto di «rivoluzione passiva», il sigillo apposto a quell’alleanza con cui si rendeva e strutturale la questione meridionale:

il protezionismo industriale rialzava il costo della vita al contadino calabrese, senza che il protezionismo agrario, inutile per lui che produceva […] riuscisse a ristabilire l’equilibrio. La politica estera degli ultimi trent’anni rese quasi sterili i benefici effetti dell’emigrazione. Le guerre eritree, quella di Libia, fecero emettere dei prestiti interni che assorbirono i risparmi degli emigrati[36].

Gli equilibri passivi e conservatori dell’Italia, cementati dal trasformismo molecolare dall’Unità sino al fascismo[37], si basavano proprio su questa alleanza parassitaria tra le classi dirigenti nazionali responsabile del drenaggio permanente di quote enormi di ricchezza prodotta per sostenere intere stratificazioni di classi improduttive.

Gramsci, tuttavia, contrariamente a quanto solitamente si scrive, non prende coscienza della funzione parassitaria e regressiva del protezionismo a contatto con gli ambienti accademici einaudiani a Torino, ma in Sardegna, dove questa misura arrivò come una pietra tombale apposta a qualsiasi prospettiva progressiva di modernizzazione. La Sardegna visse la sua transizione alla modernità all’interno di un rapporto diseguale i cui termini fondamentali, anche grazie al protezionismo, erano destinati a perdurare nel nuovo secolo. Paradossalmente, uno dei segnali più forti di unità con il quale la Sardegna è riconosciuta parte integrante della realtà nazionale non viene dalla storia delle classi dirigenti, ma da quella delle sue masse di sfruttati: la proclamazione del primo sciopero generale nazionale nella storia d’Italia del 1904 dopo l’eccidio di Buggerru.  Temi che riemergono nel 1919, in un articolo, intitolato I dolori della Sardegna, nel quale Gramsci denunciava la disastrosa condizione coloniale in cui era costretta la sua terra, la cui origine risaliva proprio ai tempi del Regno di Sardegna e al dominio delle classi dirigenti torinesi:

La censura non ha permesso che si accennasse ai rapporti politici ed economici che intercorrono tra la Sardegna e la classe dirigente italiana e specialmente tra la Sardegna e quella classe dirigente italiana che abita a Torino (borghesia industriale e nobiltà). […] Perché deve essere proibito all’Avanti! ricordare che a Torino hanno la sede i consigli di amministrazione delle ferrovie sarde e di qualche società mineraria sarda? Perché deve essere proibito ricordare che gli azionisti  delle Ferrovie sarde, i quali si dividono lautissimi dividendi, i quali riscuotono per ogni chilometro di strada ferrata, fanno viaggiare i pastori e i contadini sardi in vetture bestiame, fanno pagare ai pastori e ai contadini sardi tariffe altissime, fanno viaggiare i contadini e i pastori sardi in convogli trainati da locomotive riscaldate a legna invece che carbon fossile, provocando ogni anno centinaia di migliaia di lire di danni con gli incendi determinati da questo combustibile? Perché non si può ricordare che i minatori sardi sono pagati con salari da fame, mentre gli azionisti torinesi impugnano i loro portafogli con dividendi cristallizzati con il sangue dei minatori sardi, che spesso si riducono a mangiare le radici per non morire di fame? Perché deve essere proibito ricordare che due terzi degli abitanti della Sardegna vanno scalzi d’inverno e d’estate, perché il prezzo delle pelli è portato alle altezze proibitive dai dazi dei protettori che arricchiscono gli industriali torinesi del cuoio, uno dei quali è presidente della Camera di Commercio di Torino? Perché è proibito ricordare che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini, dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea, in quanto lo Stato «spende» per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale?[38].

Conclusioni

Nelle note su Americanismo e Fordismo Gramsci descrive l’essenza della società meridionale a partire da un dato strutturale: la sopravvivenza in essa di classi generate dalla ricchezza e complessità della storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito[39].

Il compromesso tra industriali e agrari, reso possibile dal protezionismo, attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord industrializzato era come la metropoli capitalistica per la colonia; le classi dirigenti del Sud (grandi proprietari e media borghesia) svolgevano la stessa funzione delle categorie sociali delle colonie alleate con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al proprio sfruttamento. In Italia il protezionismo si consolidò sfruttando abilmente gli interessi antagonistici tra città e campagna contrapponendo una parte dell’Italia all’altra. In questa dinamica il prezzo del grano divenne leva per garantire la sopravvivenza dei ceti improduttivi, non certo uno strumento teso a favorire lo sviluppo rurale[40]. L’egemonia del Nord sul Sud avrebbe potuto assolvere una funzione positiva se l’industrialismo si fosse posto l’obiettivo di ampliare la sua base di nuovi quadri, incorporando, non dominando, le nuove zone economiche assimilate. In tal senso l’egemonia del Nord sarebbe stata espressione di «una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo»[41].

Una dinamica di questo tipo avrebbe potuto innescare o favorire una rivoluzione economica con carattere nazionale, al contrario l’egemonia non ebbe carattere inclusivo, ossia finalizzata a far venir meno quella distinzione, ma «permanente», «perpetua», nel senso di reggersi su un’idea di sviluppo diseguale tale da rendere la debolezza del Sud un fattore, indeterminato nel tempo, funzionale alla crescita industriale del Nord, come se il primo fosse una appendice coloniale del secondo. Questo vincolo organico, questa alleanza innaturale, impedì la dialettica (caratteristica delle forme classiche di sviluppo capitalistico) tra due classi che non dovrebbero essere permanentemente alleate, salvo congiunture particolari, ma contrapposte. In Gran Bretagna dalla dialettica tra industriali e agrari si è originata anche la storia dei partiti e quella parlamentare. In Italia non esisteva la rotazione su base parlamentare, la formazione delle classi dirigenti avveniva per assorbimento e cooptazione fiduciaria, tramite il trasformismo, di singole personalità negli equilibri passivi del grumo di interessi addensatosi attorno alla Corona. Il sistema gerarchizzato di privilegi definitosi dopo il Risorgimento ha portato ad accentuare e rendere permanente la natura arretrata della struttura economico-sociale meridionale, aumentando a dismisura il suo sfruttamento e drenando da essa quote di risparmio delle sue classi parassitarie verso il Nord. Tuttavia, nella prospettiva storica questo sistema di compromesso si rivelò inefficace perché si risolse in un ostacolo allo sviluppo tanto dell’economia industriale, quanto di quella agraria, ciò determinò in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse. I termini di questa contraddizione trovarono in Sardegna modo di esprimersi, in tutta la loro drammatica crudezza, particolarmente a cavallo tra i due secoli. Proprio negli anni dell’infanzia di Gramsci, l’Isola visse drammaticamente tanto le conseguenze negative della modernizzazione passiva anteriore all’Unità d’Italia quanto gli effetti depressivi generati dalle nuove politiche protezionistiche nazionali, anni segnati da conflitti durissimi, come l’eccidio di Buggerru e i moti insurrezionali del 1906 testimoniano[42].

Come Cardia ha segnalato nel corso degli anni, l’origine di questa ricca elaborazione trova nella questione sarda una centralità solo raramente riconosciuta e ancora meno approfondita[43].  Lo stretto intreccio di tali questioni, dunque l’anteriorità della questione sarda rispetto alla questione meridionale nelle analisi gramsciane, è stato uno degli assilli che più hanno segnato la vita politica, gli studi e le riflessioni di Umberto Cardia. Problemi in buona parte ancora sul tappeto, rispetto ai quali la sua lezione può fornirci stimoli e suggerimenti essenziali, utili non solo a interpretare la realtà, ma a trasformarla in meglio.

 

Gianni Fresu

 

Immagine tratta dall’Archivio fotografico di Giuseppe Podda.

 

 

 

 

 

[1] U. Cardia, Il mondo che ho vissuto, a cura di G. Marci, Cagliari, Cuec, 2009, p. 118-119.

[2] Tra tutti, il testo fondamentale per comprendere la crisi del regime presso le giovani leve cresciute nel Ventennio, rimane l’opera di Ruggero Zangrandi Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Amico d’infanzia e compagno di studi di Vittorio Mussolini, l’autore è per molti versi una figura che sintetizza in sé la delusione di una generazione cresciuta con il mito della rivoluzione fascista, divenendo perciò ancora più risoluta nel prenderne le distanze, una volta compresa la differenza di significato tra autorappresentazione e realizzazioni concrete del regime: R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Milano, Feltrinelli, 1976.

[3] Per maggiori approfondimenti su questo tema rimando alla monografia nella quale ho avuto modo di trattare approfonditamente questi argomenti: G. Fresu, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, Roma, Odradek, 2013.

[4]«Cosmopolitismo di maniera» e «regionalismo chiuso» non sono unicamente i vizi tipici di un’intellighenzia di matrice sostanzialmente provinciale: Gramsci vi vede due deviazioni attive e operanti nella stessa lotta di classe sarda, sia in termini d’un avanguardismo esasperato che separa i potenziali gruppi dirigenti, e in primo luogo gli intellettuali, dal movimento di massa, sia sotto la forma del separatismo e dell’indipendentismo su base regionale, una versione appena più sofisticata di quell’istintiva ideologia dell’«a mare i continentali!» che lo stesso giovane Gramsci aveva conosciuto e praticato. In entrambi i casi il risultato politico consiste nella separazione dei contadini e dei pastori sardi dai loro «fratelli continentali», nella frammentazione di un potenziale fronte di lotta anticapitalistico, in un vantaggio per l’avversario di classe: Guido Melis, Antonio Gramsci e la questione sarda, Cagliari, Edizioni della Torre, 1977, p. 14.

[5] L’opera, seppur nel suo carattere frammentario, viene pubblicata postuma con il titolo La Sardegna di ieri e di oggi grazie al lavoro di Umberto Cardia, che dopo aver lavorato per anni nello stesso partito a stretto contatto di gomito con Laconi curò la pubblicazione di queste note. Prima di addentrarci in esse, una tappa intermedia essenziale è contenuta nel saggio Questione sarda e questione meridionale, pubblicato su «Rinascita Sarda» nel 1957: R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967), Cagliari, Edes, 1988.

[6] R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967), Cagliari, Edes, 1988, p. 233.

[7] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Q. 22, §2, Torino, Einaudi, 1975, p. 2283-2284.

[8]«Io non voglio, qui, riassumerne i termini politici, riproporre le ragioni e i connotati di quella che ho chiamato, altrove, “autonomia integrale”, traendo l’espressione da Gramsci, laddove parla dei problemi della subalternità e del suo superamento. Solo una autonomia più forte, nel senso giuridico-istituzionale e politico della espressione, può consentirci di signoreggiare i processi della triplice integrazione: italiana, europea, mondiale». U. Cardia, Il mondo che ho vissuto, cit. p. 47.

[9] U. Cardia, La Sardegna di Laconi, in R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967, cit., p. 13.

[10] «Ecco, ancora, dunque, un problema e un nodo da esplorare, da portare alla luce, da risolvere: il modo come, in Gramsci, comincia a delinearsi la concezione dell’autonomia sarda, della lotta per il rinnovamento della società isolana, di un potere autonomistico nuovo, appoggiato sulle grandi masse dei contadini, di operai e intellettuali». U.  Cardia, Il sardismo di Gramsci, “Rinascita sarda”, a. IV, n. 9, 15-31 maggio 1967, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, a cura di U. Cardia, Cagliari, Edes, 1976, p. 26.

[11] «Attento lettore di Antonio Gramsci e assiduo studioso di storia e cultura sarda, Cardia una penetrante analisi degli enormi ostacoli che un gruppo subalterno deve superare al fine di liberarsi dalla prigione dei propri usi e costumi fossilizzati, acquisire la capacità di parlare a nome proprio e imparare ad autogovernarsi. Come Gramsci ha spiegato nelle sue note sui subalterni, il raggiungimento dell’autonomia è un processo molto più complicato e lento di un atto di sfida contro il potere. […] Nelle sue riflessioni su subalternità e autonomia, Cardia fa eco a Gramsci, ma offre anche al suo lettore qualcosa di più, ovvero un chiarimento e un esame critico degli aspetti distintivi e specifici della “questione sarda” che Gramsci aveva toccato solo brevemente in alcuni appunti sparsi. A differenza di Gramsci, naturalmente, Cardia è stato in grado di osservare in prima persona e di svolgere un ruolo di primo piano nella vita politica e culturale della Sardegna», J. Buttigieg, Prefazione, in U. Cardia, Il mondo che ho vissuto, cit., p.  XXIII.

[12] G. Fresu, Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Cagliari, Aipsa, 2019, p. 221-246.

[13] U. Cardia, Regionalismo e classe operaia nel pensiero di Gramsci, “Rinascita sarda”, a. V, n. 8, 20 aprile / 5 maggio 1967, cit., pp. 141-146.

[14] G. Melis, Antonio Gramsci: un’idea di Sardegna, in A. Gramsci, Scritti sulla Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2008, p. 21.

[15] Guido Melis, curatore nel 1975 di una prima antologia di scritti sulla questione sarda (Antonio Gramsci e la questione sarda, Cagliari, Edizioni Della Torre), nella sua introduzione a una nuova raccolta attorno a questo tema da lui curata, 33 anni dopo il suo primo approfondimento, così rileva: «Desta una certa sorpresa, affrontando il tema ormai molto sedimentato del Gramsci sardo, dover constatare come nel grande corpus degli scritti gramsciani i riferimenti diretti alla Sardegna siano relativamente pochi»: G. Melis, Antonio Gramsci: un’idea di Sardegna, in Antonio Gramsci, Scritti sulla Sardegna, cit., p. 9.

[16] Renzo Laconi pose con acutezza l’esigenza di un’indagine gramsciana sull’importanza della questione sarda nella formazione intellettuale dell’autore dei Quaderni, mostrando quanto il particolare contesto del ventennio da lui trascorso nell’Isola fu essenziale per formare la sua concezione complessa della lotta di classe, orientando di fatto i suoi interessi e le sue propensioni intellettuali. R. Laconi, Note per un’indagine gramsciana. XX anniversario della morte di Gramsci, “Rinascita sarda”, n. 1.2, 15 giugno 1957, p. 65-74.

[17] «Caro Deffenu, ti ho già indirizzato da parecchio un vaglia di 2,00 lire quota di adesione al Gruppo sardo della Lega antiprotezionista» A. Gramsci, Epistolario, volume 1 (1906-1922), Edizione Nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci, Roma, Treccani, 2009, p. 143.

[18] A. Gramsci, Scritti sulla Sardegna, cit., p. 105.

[19] Per maggiori approfondimenti rimando a G. Fresu, La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, Cagliari, Cuec, 2011.

[20] U.  Cardia, Il sardismo di Gramsci, “Rinascita sarda”, a. IV, n. 9, 15-31 maggio 1967, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, cit., p. 24.

[21] Ibidem.

[22] M. Brigaglia, Sardegna perché banditi, Milano, Carte segrete, 1971, p. 60.

[23] U. Cardia, Autonomia sarda. Un’idea che attraversa i secoli, Cagliari, Cuec, 1999, p. 173-174.

[24] Come ha ben sintetizzato Birocchi, forse lo studioso che con maggior rigore e serietà scientifica ha affrontato questi temi, «il trionfo della proprietà in Sardegna coincise con l’affermarsi di una borghesia non solo priva di quegli orizzonti universalistici che altrove l’avevano portata alla testa del movimento riformatore, ma legata a mentalità clientelari e a pratiche suggerite da interessi estremamente ristretti»: I. Birocchi, Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna. Provvedimenti normativi, orientamenti di governo e ruolo delle forze sociali dal 1839 al 1851, Milano, Giuffrè, 1982, pp. 446-447.

[25] Per maggiori approfondimenti rimandiamo a una monografia nella quale ci siamo occupati diffusamente della contraddittoria transizione alla modernità della Sardegna e dei conflitti da essa generata attraverso un lavoro di archivio e di analisi storico-sociale e politica che ha fatto ampio ricorso alle categorie di Antonio Gramsci: G. Fresu, La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, cit.

[26] G. Angioni, Rapporti di produzione e cultura subalterna: contadini in Sardegna, Cagliari, Edes, 1982, p. 70.

[27] Ivi, p. 37-38.

[28] Ivi, p. 100

[29] I. Pirastu, Il banditismo in Sardegna, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 64-55.

[30] A. Gramsci, La questione meridionale, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 9-10.

[31] M. Pira, La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna, Milano, Giuffrè, 1978, p. 101.

[32] A. Niceforo, La delinquenza in Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 1977, pp. 31-44.

[33] Un esempio del modo sarcastico con cui Gramsci risponde ai luoghi comuni sulla Sardegna, dunque, al fatto che essa sarebbe povera essenzialmente per l’incapacità dei sardi a far fruttare una terra fertile, si trova nel gustosissimo articolo Menti inferme, “Avanti!”, ediz. piemontese, 19 febbraio 1917, XXI, n. 50, in A. Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi, 1975, pp. 89-90.

[34] «Un mese di soggiorno in Sardegna: banchetti, bicchierate, strette di mano, entusiasmo per l’Italiano illustre che ha fatto il sacrifizio di portare la sua preziosa persona fra i briganti, i mendicanti, i pastori vestiti di pelli dell’isola. E l’italiano illustre tornato in terra ferma si atteggia a Cristoforo Colombo e scopre qualcosa, tanto per dimostrare che non ha perduto il suo tempo. […] i sardi passano per lo più per incivili, barbari, sanguinari, ecc., ecc.; ma non lo sono evidentemente quando è necessario mandare a quel paese gli scopritori di buona volontà. Un ufficiale andato a Cagliari nel 1906 per reprimere uno sciopero, compiange le donne sarde destinate a diventare legittime metà degli scimmioni vestiti di pelli non conciate, e sente in sé (testuale) ridestarsi il genio della specie (quella non vestita di pelli), che vuole porsi all’opera per mitigare la razza. Giuseppe Sergi in 15 giorni si sbafa una quantità di banchetti, misura una cinquantina di crani, e conclude per l’infermità psicofisica degli sciagurati sardi, e via di questo passo»: A. Gramsci, Gli scopritori, “Avanti!”, XXII, n. 143, 24 maggio 1916, in Scritti 1910-1926, vol. I 1910-1916, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2019, pp. 395-396.

[35] A. Gramsci, Uomini, idee, giornali e quattrini, “Avanti!”, ediz. piemontese, 23 ottobre 1918, XXII, n. 294, in, Scritti giovanili 1914-1918, cit., p. 331.

[36] A. Gramsci, “Il mezzogiorno e la guerra”, Il Grido del Popolo, 1° aprile 1916, XXII, n. 610 in Scritti (1910-1926) volume 1 (1910-1916), Edizione Nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci, Roma, Treccani, 2019, p. 278-279.

[37] A. Gramsci, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 2020, p 798-799.

[38] A. Gramsci, I dolori della Sardegna, “Avanti!” ed. piemontese, 16 aprile 1919, In Scritti 1915-1925, Milano, Moizzi Editore, 1976, p. 177.

[39] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Q. 22, § 1, cit., p. 2141.

[40] Clericali ed agrari, “L’Avanti!”, 7 luglio 1916, XXII, n. 187, in A. Gramsci, 610 in Scritti (1910-1926) volume 1 (1910-1916), cit., p. 513-514.

[41] Ivi, Q. 1, § 149, p. 131.

[42] Questi temi hanno trovato una trattazione approfondita e ben documentata nell’opera di Girolamo Sotgiu, a nostro modesto parere tra i più importanti storici sardi dell’età contemporanea. In particolare, rimandiamo ad alcune sue monografie: Lotte sociali e politiche nella Sardegna contemporanea, Cagliari, Edes, 1974; Movimento operaio e autonomismo, Bari, De Donato Editore, 1975; Storia della Sardegna sabauda, (1720-1847), Bari, Laterza, 1984; Storia della Sardegna dopo l’Unità, Bari, Laterza, 1986.

[43] «Essa è da ricercare non tanto nel «sardismo» del giovane Gramsci, che fu peraltro alimento essenziale, quanto nell’elaborazione della «questione sarda» che egli avviò dopo il ritorno dalla Russia a Roma, mentre si preparava il Congresso di Lione in fraterna comunione con Emilio Lussu ch’era allora il rappresentante più genuino del movimento»: U. Cardia, Il sardismo di Gramsci, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, cit., p. 24.

Ricomporre la diaspora comunista

Ricomporre la diaspora comunista.

Di Gianni Fresu (CPN PRC)

«La Rinascita», numero 8, giovedì 26 febbraio 2008

La ricomposizione della diaspora del ’98, per ricostruire insieme un’alternativa comunista forte e credibile in Italia, penso sarebbe la migliore risposta possibile ad una depressione economica mondiale che non è solo crisi del cosiddetto neo liberismo. La contraddizione è del capitalismo in quanto tale – delle sue regole di produzione, sfruttamento e appropriazione delle ricchezze – di ciò dobbiamo tenere conto, sapendo bene che la natura ciclica di queste crisi è fisiologica alle stesse modalità di espansione del capitalismo.

Le ragioni della frattura sono state ampiamente superate su tutti i versanti e contro l’ipotesi del riavvicinamento non vale l’argomento sulle presunte diversità politiche e culturali che ancora sussistono. Già ora all’interno di PRC e PdCI sono presenti orientamenti diversi e ciò non è di certo un ostacolo, inoltre vale la pena ricordare che veniamo tutti dalla stessa scommessa: la rifondazione di una teoria e una prassi comunista in Italia come risposta alla svolta della Bolognina. È chiaro, pensare di fare una semplice fusione di gruppi dirigenti sarebbe un errore destinato a non produrre nulla di buono, la riunificazione deve partire dalla presentazione di liste unitarie per le europee per poi divenire processo organico di integrazione e riconoscimento reciproco, attraverso la diffusione orizzontale e collegiale degli strumenti di elaborazione e direzione politica.

Il percorso di riunificazione deve essere necessariamente processuale ma non indefinito nel tempo, la difficile situazione interna ed internazionale non ce lo consentirebbe. La storia ci insegna che le recessioni hanno sempre dato luogo non solo al netto peggioramento delle condizioni di vita e lavoro delle masse popolari, ma a fasi tragiche di imbarbarimento delle relazioni sociali, di involuzione politica e culturale. Ci troviamo nel pieno di una fase di «crisi organica del capitalismo», ed è esattamente in simili contesti che hanno, in genere, luogo i peggiori processi di “modernizzazione” dei rapporti economici e sociali, attuati sempre attraverso la passivizzazione coatta delle grandi masse popolari, ciò che Gramsci definiva «rivoluzioni passive».

A fronte di una situazione tanto complessa il cannibalismo del PD, che ha speso tutte le sue energie per mettere fuori causa la sinistra di classe, anziché impegnarsi in un’opposizione reale alla destra, si è ritorto contro chi l’ha praticato. L’illusione del PD – un “moderno” partito interclassista, che avrebbe dovuto congiungere gli interessi del capitale e del lavoro – si è schiantata sugli scogli di una realtà ben più complessa dei sogni veltroniani. Il PD si è rivelato, in tutta la sua fragilità, un immenso comitato elettorale strutturato per camarille, un agglomerato composto da consorterie condensate attorno a singole personalità che controllano partito, istituzioni e collegi senza alcun disegno complessivo. Già a fine Ottocento la dissoluzione del liberalismo italiano portò al tentativo di assemblaggio dei due raggruppamenti tradizionali della Destra storica e della Sinistra liberale per formare un unico «blocco costituzionale» presentato come baluardo contro le due ali estreme della reazione e della rivoluzione. Oggi come allora più che di “trasformazione del sistema politico” si deve parlare molto più prosaicamente di «trasformismo» e il divampare in tutta la sua virulenza della questione morale ne è una conferma. L’attuale inservibilità politica del PD dimostra ulteriormente quanto fosse avventata l’idea della “costituente della sinistra”, che puntava tutte le chanche di un rilancio della sinistra sul rapporto organico con il partito di Veltroni. Ricomporre la diaspora non significa e non deve significare però chiudersi in un recinto identitario, ma al contrario fare un investimento per l’unità della sinistra, mantenendo anche un interlocuzione dialettica, non subalterna, con le altre forze democratiche. Il PRC è nato sulla base del binomio autonomia e unità, quella deve tornare ad essere la nostra bussola di orientamento per rifuggire ogni tentazione di settarismo minoritario e insieme di opportunismo. Oggi più che mai si sente il bisogno di un partito comunista capace di porre, attraverso il conflitto, al centro dell’agenda politica le questioni del lavoro, di plasmarsi organicamente sulle esigenze delle masse popolari, da qui possiamo ripartire.