L’autonomia integrale. Subalternità ed emancipazione nelle vicende del popolo sardo

L’autonomia integrale.

Subalternità ed emancipazione nelle vicende del popolo sardo

 Tratto dal volume Il pensiero necessario. Teoria e prassi nella vita politica di Umberto Cardia, (a cura di) P. Lusci, G. Marci, Isolapalma, Cagliari, 2022, ISBN 978-88-946694-8-0, p. 237-262.

In un passaggio nodale del suo libro di memorie Il mondo che ho vissuto, Cardia descrive il senso di straniamento e umiliazione provocato (nel suo animo di diciannovenne che si affacciava alla vita adulta) dal proclama con cui, il 10 giugno 1940, il Duce annunciava l’ingresso dell’Italia in guerra.

Moralmente ero già fuori dal regime e all’opposizione: ma non sapevo cosa fare, con chi parlare, al di là delle battute d’occasione e dell’indifferentismo, o del sottile cinismo, che, con poche eccezioni, accomunavano la cerchia dei miei familiari e parenti, dei miei coetanei e compagne o compagni di studio e dei nostri professori. Non avevamo, nella nostra ripulsa, né guide né maestri. Eravamo, ciascuno di noi, soli con i nostri dilemmi e i nostri tormenti. Da soli dovevamo trovare la nostra strada[1].

Lo stato di angoscia, lo spaesamento e la solitudine, il non aver «né guide né maestri», erano sentimenti diffusi, in una fase comunque attraversata da un clima di strisciante inquietudine tra un numero sempre maggiore di giovani, educati nella dottrina del fascismo, ma profondamente insoddisfatti delle sue realizzazioni concrete[2]. La mancanza di punti di riferimento alternativi all’ideologia del regime, specie tra le nuove generazioni che non avevano nemmeno memoria di cosa fosse stata l’Italia prefascista, era uno dei segnali più evidenti della vittoria di Mussolini. Essere riusciti a interrompere con il rapporto tra le generazioni, la consapevolezza e la conoscenza dei giovani sul trapasso al fascismo, era uno degli effetti dell’opera di penetrazione capillare nella società, persino nella vita delle singole famiglie, del fascismo.  Tuttavia, proprio le nuove leve allevate a “pane e fascismo” e non contaminate dal germe delle ideologie liberali, democratiche o marxiste, quelle su cui il regime tanto aveva puntato e da cui doveva venir fuori «l’uomo nuovo fascista», si rivelarono in definitiva il suo punto debole. Le generazioni inquiete degli “anni difficili”, infatti, fornirono una parte consistente di quadri e, più in generale, una base di massa alla guerra di liberazione nazionale. Come detto erano giovani cresciuti nel regime, ma furono protagonisti di un processo di distacco e poi di emancipazione dal fascismo, fino all’opposizione aperta e l’arruolamento nelle formazioni partigiane. Tra le vecchie leve di antifascisti, in gran parte esuli sconfitti anche se non piegati dal fascismo, e questi giovani c’era un salto generazionale, ciò nonostante, negli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta si determinò una saldatura fortissima destinata a costituire la spina dorsale della Resistenza[3].

In questo processo storico di frattura e ricomposizione troviamo le premesse ideali e le determinazioni concrete grazie alle quali, insieme a «guide» e «maestri», Cardia riuscì a trovare la propria «strada», definendo le due passioni che animeranno l’intera sua esistenza: 1) l’amore per la politica, intesa come impegno civile teso al riscatto e all’emancipazione sociale degli sfruttati, di coloro che non hanno altra ricchezza al di fuori della propria forza lavoro e subiscono gli effetti della subalternità tanto nella dimensione materiale quanto in quella spirituale; 2) l’amore per la Sardegna e la sua storia, né da mitizzare né da misconoscere, cui andava restituita la sua importanza e dignità nel quadro generale di rinnovamento politico e sociale generato dalla sconfitta del fascismo e dall’edificazione di una nuova democrazia repubblicana con ambizioni progressive. Negli anni dei grandi dibattiti sulla Rinascita della Sardegna, di cui Cardia fu sicuro protagonista, riscattare quella storia dalle consolatorie narrazioni del «regionalismo chiuso» e insieme dalle valutazioni sprezzanti del «cosmopolitismo di maniera»[4] era un’esigenza organicamente connessa ai grandi temi dello sviluppo economico e culturale.

Nel libro curato da Umberto Cardia, nel quale vengono raccolti scritti e interventi su La Sardegna di ieri e di oggi[5], Laconi rilevava come nella storia della filosofia e delle scienze non compariva neanche il nome di un sardo, mentre nella storia letteraria a malapena era compresa Grazia Deledda. Nei manuali di storia, poi, la Sardegna emergeva raramente e in funzione totalmente marginale, fino ad apparire niente altro che terra di conquista disertata dal genio nel corso dei secoli. Dietro a questo taglio della storiografia nazionale unitaria si celava lo stesso indirizzo ideologico che aveva condannato al silenzio la storia delle classi subalterne. Pertanto, rimanevano fuori dalla storia d’Italia tutti quegli episodi nei quali la Sardegna aveva assunto una sua propria soggettività autonoma. Contro questa censura, in Sardegna, tra la fine del XVIII e l’inizio del XX secolo, si era sviluppato un movimento culturale che attraverso la ricerca storica intendeva sottrarre l’isola dall’oblio e dal silenzio delle memorie.

Dal territorio dell’approfondimento storico quel movimento si era esteso agli studi economici, dell’arte, della poesia e della letteratura. Da quest’aspirazione nasceva il progetto politico del sardismo, che era stato soffocato dal fascismo, condannando l’isola ad altri venti anni di dolorosa amputazione della sua storia e delle sue tradizioni, attraverso la cancellazione di ogni spazio che consentisse un proprio fermento culturale. Nella prospettiva nazionalista del fascismo anche gli studi sardi avevano finito per assumere un connotato sovversivo, al punto che fu ridotta al silenzio “Il Nuraghe”, l’unica realtà editoriale che tra mille limiti si era occupata di raccogliere e pubblicare le opere degli scrittori isolani. Questa lunga, pervasiva, stagione di chiusura politica e culturale, secondo Laconi, aveva finito per influenzare anche la mentalità di tanti giovani intellettuali sardi, i quali, magari, pur non essendo divenuti fascisti si lasciarono guidare dall’inerzia e dalla pigrizia, piuttosto che trovare un comune orientamento ideologico attraverso il quale resistere all’oscurantismo. A quella pigrizia e alle sicurezze conformiste che l’impiego intellettuale garantisce Laconi riconduceva anche l’atteggiamento provinciale di buona parte degli intellettuali sardi nei confronti della propria cultura, vissuta con malcelato fastidio e con l’irrisione verso l’ambiente e le tradizioni locali. Questo approccio produceva una frattura tra gli intellettuali isolani e il profondo sentimento sardista che animava il pastore o il semplice contadino.

Firenze, Torino, Roma, culle delle classi dirigenti, sono fin nelle più minute vicende della loro vita municipale, le grandi protagoniste della cronaca e della storia d’Italia. E Firenze, Milano, Roma divengono le patrie ideali dell’intellettuale di provincia. Spesso l’insegnante, il medico, che sono nati in Sardegna, si trovano nella stessa condizione d’animo del funzionario trasferitovi contro sua voglia, pronti a cogliere la prima occasione per ottenere una destinazione sul continente. E poiché i migliori trovano più facile il salto, ogni generazione d’intellettuali si screma e la Sardegna perde, di anno in anno, molti fra i suoi figli più attivi e capaci. Chi resta, se svolge un’attività artistica o culturale, ha sul continente, e non in Sardegna, il giornale o l’impresa culturale a cui far capo, ed è magari, come artista o scrittore, pressoché ignoto nell’Isola[6].

Sensibile a questo ordine di problemi, Umberto Cardia trovò in Gramsci e Laconi quelle «guide» e quei «maestri» di cui, nelle giornate tragiche del giugno 1940, sentiva disperatamente bisogno per intraprendere, all’interno di un progetto collettivo di emancipazione sociale, una sua strada verso la liberazione dall’angustia esistenziale imposta dal regime fascista. Dal primo ereditò la passione per la storia disgregata ed episodica dei gruppi subalterni raccogliendo la sua esortazione alla costruzione della “storia integrale”, ossia, un approccio insieme scientifico e politico capace di «cogliere il valore inestimabile di ogni traccia di iniziativa autonoma»[7] delle masse senza voce. Dal secondo assunse il compito programmatico della costruzione di una nuova «autonomia integrale»[8] come soluzione progressiva delle contraddizioni immanenti alla questione sarda: immettere la storia delle masse popolari sarde, con tutto il suo retroterra di tradizioni popolari e manifestazioni culturali, nel grande alveo della storia generale, della politica nazionale ed internazionale. Se la Sardegna in quanto tale esprimeva storicamente il problema di una soggettività marginale e subalterna ciò valeva ancora di più per le sue masse popolari inquadrate in livelli di assoggettamento molteplice persino più profondi e stratificati. Una «autonomia integrale» che andava perseguita non solo attraverso le lotte sociali e l’impegno politico, ma anche attraverso un’indagine storica e filosofica in grado di gettare le basi una nuova «coscienza critica» attraverso la quale popolo sardo potesse intraprendere il cammino verso la propria emancipazione:

Il sentimento del carattere profondo, millenario, delle radici e dell’autonomismo sardo è, in Gramsci, come del resto in Emilio Lussu e nella cultura sarda dell’ultimo secolo […], più istintivo che riflesso, dato lo stato ancora frammentario e monografico della ricostruzione «dall’interno» della vicenda storica del popolo sardo e dei tratti specifici, autonomi e differenziali della sua formazione nel tempo. Gli uomini politici sardi, quello d’elezione almeno, hanno dovuto sopperire a questa vasta lacuna, trasformandosi in storici o, almeno, in studiosi del nostro passato[9].

 

Il problema storico e concettuale di una dolosa rimozione

Nel volume intitolato Gramsci e la svolta degli anni Trenta curati, che raccoglie articoli e materiali pubblicati sulla rivista “Rinascita Sarda” tra il 1966 e il 1967 attorno al dibattito suscitato dalla pubblicazione della famosa biografia di Giuseppe Fiori, Umberto Cardia affronta diversi nodi interpretativi e importanti questioni non sufficientemente studiate[10]. Tra esse, egli ha indicato l’importanza della questione sarda nella definizione di alcune categorie e concezioni a partire dalle quali, nel corso di un’elaborazione di anni, Gramsci giunge a identificare nella questione meridionale lo snodo paradigmatico delle contraddizioni organiche connaturate alla formazione nazionale italiana[11].  A partire dalla sua esperienza sarda, infatti, la centralità dei rapporti di sviluppo diseguali tra Nord e Sud, chiave di volta degli equilibri sociali passivi tradizionali, diventa sempre più chiara a Gramsci.

Come personalmente ho affermato in altre occasioni[12], tenere in debita considerazione il contesto storico e sociale della terra in cui Gramsci nasce, si forma e definisce le sue propensioni intellettuali, è importante non solo per assolvere alle esigenze di ricostruzione biografica, ma per comprendere l’origine di categorie e concezioni che ne contraddistinguono il pensiero. Gramsci arriva non solo negli anni della maturità a una visione complessa del conflitto di classe, concependo la rivoluzione come sintesi di un blocco sociale capace di unire organicamente le rivendicazioni della classe operaia e le istanze storiche dei gruppi rurali subalterni. La centralità della questione contadina è in lui ben precedente alla sua scoperta e lettura di Lenin. Essa è una delle primissime acquisizioni del giovane Gramsci, affondando le proprie radici nella concretezza della formazione sociale sarda, nell’insieme delle esperienze di vita e nell’attenta osservazione di quel mondo, con tutte le sue contraddizioni[13].

Come Guido Melis ebbe modo di chiarire, nei primi anni Venti la Sardegna appariva a Gramsci il terreno ideale per la verifica delle sue idee sulla questione meridionale, per questo, e non solo per riabbracciare i suoi effetti, nell’ottobre del 1924, decise di tornare per l’ultima volta nella sua terra in occasione del Congresso semiclandestino di Is Arenas a Cagliari:

L’aveva ammesso implicitamente egli stesso, quando, nel 1923, aveva definito proprio la situazione del Partito sardo d’Azione, movimento di ex combattenti e come tale “primo partito laico” dei contadini”, come «il campo per affermazioni essenziali nel problema dei rapporti fra proletariato e classi di campagna». Lo avrebbe ribadito a Is Arenas, nell’intento di convincere i riluttanti compagni sardi ad una politica più aperta verso il problema delle masse rurali[14].

L’importanza di questo vincolo tra Gramsci e la sua terra, tuttavia, ancora oggi, appare non pienamente considerato nella sua debita importanza[15]. In parte non trascurabile della cultura italiana persiste, forte e radicata, la tendenza a non prendere mai troppo sul serio le vicende della storia sociale sarda, considerata in genere “storia locale” o “storia minore”, di limitato o secondario interesse rispetto alla “Storia con la S maiuscola”. Una sottovalutazione che coinvolge anche molte letture dell’opera di Gramsci, la cui genialità è sovente ricondotta alla “sprovincializzazione” del futuro teorico dell’egemonia nel continente. In realtà non solo il retroterra sardo è fondamentale per comprendere la sua formazione[16], la questione sarda è importante nel processo di definizione della questione meridionale, in primo luogo per capire le premesse della rivolta morale contro la natura parassitaria del capitalismo italiano, che porta il giovane Gramsci ad assumere per la prima volta una posizione politica formale aderendo al Gruppo sardo antiprotezionista di Attilio Deffenu già nel 1913[17].

Di questa giovanile rivolta morale, che lo salvò dal «diventare completamente un cencio inamidato», troviamo traccia anche nelle lettere, ad esempio in quella spedita alla madre il 6 marzo 1924 nella quale Gramsci ricordava l’istinto di ribellione contro i ricchi, allargatosi a «tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna», quando il futuro dirigente comunista ancora pensava che «si dovesse lottare per l’indipendenza nazionale della regione» e nelle sue discussioni ripeteva spesso la frase «Al mare i continentali!»[18]. La rimozione di questo retroterra, in sé poco gramsciana, diventa paradossale quando a fronte dell’interesse post-coloniale verso realtà lontane caratterizzate dall’assoggettamento capitalistico occidentale, negli studi gramsciani non si mostra la stessa attenzione per le dinamiche di “colonialismo interno”, relegate nella dimensione della irrilevanza storica in quanto “periferiche”. Quando poi questa “periferia” è addirittura ventre materno palestra di vita di un autore come Gramsci dal paradosso si passa alla contraddizione. Ciò di cui non si tiene conto, sebbene sia di fondamentale importanza nella definizione di alcune concezioni e posizioni specifiche di Gramsci, è l’insieme degli avvenimenti che riguardano la modernizzazione passiva della sua terra[19].

In evidente polemica con questa dolosa rimozione, Cardia ha scritto, «Gramsci fu più sardo e più pienamente di quanto non si sia generalmente riconosciuto ed ammesso»[20]:

Si è persino potuto credere che, nel suo pensiero e nella sua concezione nazionale e universale, della rivoluzione proletaria e della creazione dell’ordine nuovo socialista e comunista, nell’immagine stessa di un mondo grande e terribile con le sue mareggiate e catastrofi, vi fosse non so quale superamento della «questione sarda» e del «sardismo», o che la Sardegna finisse per essere, nella mente di lui, solo il porto lontano ed angusto da cui aveva, un giorno, alzato le vele, una regione di favola, un ricordo, una acuta nostalgia. E che, in definitiva, nella sua visione, unitaria e nazionale, della questione meridionale e del disgregato e informe amalgama contadino, cui solo l’impulso disciplinato della moderna classe operaia settentrionale poteva imprimere uno slancio rivoluzionario, si perdesse ogni specificità e concretezza storica della «questione sarda» come questione di una semi-nazionalità in lotta per il riscatto politico, economico, civile[21].

Questione sarda e questione meridionale

Come sappiamo, la questione meridionale è sistematicamente presente in tutte le elaborazioni politiche e nell’analisi della società italiana di Gramsci, una questione problematica attorno alla quale si articolano le contraddizioni del processo di unificazione nazionale e le modalità distorte di sviluppo economico e sociale del Paese. Approfondendo tutto questo, attraverso una lunga e articolata elaborazione, l’autore dei Quaderni ha definito alcune delle sue categorie più importanti e studiate a livello internazionale, come quelle riconducibili al ruolo dell’egemonia e alla funzione degli intellettuali nell’opera di passivizzazione e neutralizzazione preventiva di qualsiasi autonoma soggettività dei gruppi subalterni. La centralità di questo problema nell’elaborazione gramsciana si definisce negli anni, costituendo l’asse centrale delle Tesi di Lione, del saggio sulla Questione meridionale e delle note dei Quaderni sulle contraddizioni immanenti al processo di unificazione ed edificazione statale italiana.

L’Ottocento è un secolo emblematico per la storia d’Italia, non solo per i processi politici che preparano e conducono in porto un evento tanto complesso e difficile a realizzarsi come l’Unità d’Italia, ma anche perché in esso si determinano significative tensioni dialettiche connesse alla modernizzazione (economico-sociale, politico-istituzionale, culturale), destinate ad avere importanti riflessi anche sulla storia del Novecento. Ciò riguarda in primo luogo la storia della Sardegna, al centro di processi riformatori che, a prescindere dai giudizi di merito e dai risultati ottenuti, costituiscono un epocale momento di transizione. Il problema della costituzione di un capitale originario e di una conseguente borghesia con connotati moderni, il mutamento dei regimi fondiari e delle modalità di produzione e accumulazione nelle campagne, la questione degli assetti istituzionali dell’isola in rapporto ai più complessivi mutamenti nella penisola, sono tutti temi di assoluto rilievo storico che in passato hanno trovato molteplici momenti di approfondimento monografico in ambito economico, giuridico e storico. In Sardegna la tradizionale dialettica città-campagna assume una sua connotazione peculiare come dialettica incrociata tra borghesia urbana e comunità dedite alle attività pastorali e, allo stesso tempo, tra agricoltura stanziale e allevamento errante. Tutti i problemi economici, culturali e politici connessi alle riforme sulla proprietà perfetta e l’eversione del vecchio regime feudale, così come le fasi più acute di malessere sociale sfociate nelle ondate di banditismo, sono connesse strettamente a questa dialettica.

La concezione amministrativa e moderna dello Stato piemontese, pervasa da una fiducia illuministica e fisiocratica verso le possibilità di transizione normativa alla modernità, rivelò, nell’urto con la realtà sarda una indubbia rigidità politica, ciò impedì, anche in età liberale, di comprendere nel profondo le cause reali del suo malessere. Tutto rientrava nell’alveo della prova di forza militare e degli interventi legislativi tesi a cancellare l’anomalia della civiltà pastorale sarda con un regime fondiario che ne impedisse la sopravvivenza. «I piemontesi obbedivano ad un disegno di colonizzazione più puntuale e rigoroso di quello spagnolo, un disegno che richiedeva un controllo sicuro dell’intero territorio isolano»[22].

Tra il 1720 e il 1850 per i Savoia e le classi dirigenti sardo-piemontesi la Sardegna è stata un grande laboratorio nel quale vengono sperimentate le forme di egemonia e di dominio che si riproporranno dopo l’Unità nella relazione diseguale tra regioni settentrionali e meridionali. Con la fine dei moti antifeudali, dei fermenti antipiemontesi e delle rivendicazioni autonomistiche, si aprì una fase di progressivo inserimento delle classi dirigenti sarde negli equilibri governativi[23].

Rifacendosi alle categorie di Gramsci, Cardia spiega come la dialettica tra classi dirigenti e subalterni in Sardegna, quella tradizionale tra città e campagna, resa qui ancora più complessa dalla dialettica tra agricoltura stanziale e pastorizia errante, trova dunque un punto essenziale nella funzione degli intellettuali grandi, intermedi e piccoli. Secondo Cardia, superate le turbolenze di fine Settecento, nel corso del XIX secolo si determina un assorbimento delle classi dirigenti sarde entro gli equilibri di quelle piemontesi prima, e italiane poi. Tutti gli strumenti culturali inevitabilmente sono messi a servizio di quest’operazione politica di modernizzazione passiva, ottenuta evitando accuratamente ogni reale processo di crescita delle masse rurali sarde in termini di indipendenza economica, sociale e quindi politica.

La dinamica della modernizzazione sarda nei termini di una rivoluzione passiva, a partire dalla trasformazione del suo regime fondiario nel corso del XIX secolo[24], seppur nelle sue peculiarità, costituisce un primo importantissimo caso di colonialismo interno che, sotto diversi aspetti, anche nelle forme di radicale insorgenza generate e duramente represse, anticipa le caratteristiche essenziali della questione meridionale italiana[25]. Come ha scritto Giulio Angioni, «con una certa verosimiglianza si può affermare che la Sardegna è stata in qualche modo una piccola prova generale del processo di discriminazione sviluppatosi macroscopicamente in seguito nell’ambito dello Stato nazionale italiano, diretto dalla borghesia industriale e finanziaria delle regioni settentrionali e secondariamente dagli agrari latifondisti e da altri ceti parassitari del Meridione».[26]

La barbarie congenita

La continuità nel rappresentare a tinte fosche la civiltà pastorale, affermandone la congenita e brutale tendenza a delinquere, rientra per molti versi in questa dinamica delle classi dirigenti in gran parte disinteressate alla vera natura delle contraddizioni al fondo della questione sarda, su cui, con queste parole, Cardia si esprime:

Il brigantaggio sardo, forma peculiare di banditismo rurale, i cui rudimenti disgregati permangono nelle ultime vicende del nostro secolo, sgorga continuamente, oltre che da radici e motivi di carattere più generale e politico, da quella contraddizione, come prodotto organico non della povertà endemica ma del sistema di appropriazione e di gestione della terra e del pascolo. Il banditismo sardo nasce, sociologicamente, nel terreno selvaggio della lotta e della concorrenza per i pascoli, per un confine, per una fonte e un rivo d’acqua: la società lo plasma poi, a seconda del prevalere delle forme specifiche del potere economico, sociale, politico[27].

Trascurare la matrice politica del banditismo durante la transizione sarda verso la modernità, dunque, significa per Cardia non comprendere in profondità un fenomeno che anche fino a tempi relativamente recenti produceva senso di appartenenza ed emulazione in non limitati strati di popolazione. La vita alla macchia per lungo tempo è stata percepita «una forma sia pure degradata di libertà, quasi immagine e nostalgia di un proprio autoctono stato, di una giustizia propria»[28]. Il ribellismo endemico in Sardegna, almeno alle sue origini, ha avuto anche un suo significato sociale e politico di rifiuto verso i modelli imposti dal «forestiero», di rivolta contro l’oppressione feudale prima e capitalistica poi, in quanto formazioni sociali imposte dall’esterno.

Nell’urto prodottosi dal contrasto tra gli usi tradizionali della società sarda e l’avvento di forme economiche, giuridiche e istituzionali moderne, l’esplodere del banditismo sociale, i moti popolari all’insegna del torrare a su connottu, sono anche conseguenza diretta di quell’«equilibrio passivo» su cui si realizzò la fusione e dell’occasione persa dalle stesse classi dirigenti sarde. La modernizzazione si arrestò a un livello preliminare senza dar corso a una reale evoluzione di tipo liberale, dell’economia, della società e soprattutto del sistema politico. La pastorizia errante, nonostante la sua centralità nella società sarda, fu il principale ambito produttivo a fare le spese del nuovo regime. Complice il fisco rapace, l’approssimazione mortificante con cui fu realizzato il catasto, l’assenza di risorse da investire per una modernizzazione effettiva della produzione nelle campagne, le riforme non riuscirono a imprimere la svolta auspicata e propagandata, deprimendo ulteriormente una realtà economica già di per sé debole. In assenza del decollo imprenditoriale e capitalistico della produzione agraria, la struttura economica delle campagne non fu in grado di assorbire forza lavoro e, al contempo, non disponeva più delle tradizionali regole di autosufficienza su cui si era basata per secoli la sussistenza delle masse rurali. Le vecchie civiltà rurali si trovarono sotto assedio e i pastori furono marchiati come residuo di un passato feudale da cancellare. Da ciò una miseria crescente che finì per suscitare una nostalgia leggendaria per il passato e la fiera resistenza in difesa di quel poco che ne era sopravvissuto. Come ho avuto modo di chiarire in una mia monografia, gli abusi commessi dai proprietari nella realizzazione dei loro patrimoni, spesso con la complicità delle istituzioni, contribuirono a far percepire a molti la proprietà privata delle terre come il frutto di una gigantesca razzia, di un’usurpazione violenta e prepotente, di una bardana originaria su larga scala.

Un profondo mutamento nel modo di produzione agropastorale si determinò inoltre con l’impianto delle industrie casearie in Sardegna tra il 1885 e gli inizi del Novecento. I primi stabilimenti vennero creati da imprenditori laziali e toscani desiderosi di far fronte alle crescenti richieste di pecorino romano dal mercato statunitense a cui la produzione del Lazio non poteva far fronte. La pastorizia sarda aveva mantenuto nei secoli una fisionomia primitiva e la produzione era finalizzata al limitato mercato interno, al baratto, alle mere esigenze delle stesse famiglie di produttori. Le esigenze del mercato nazionale e internazionale spinsero a incrementare la produzione di latte, quindi a sottrarre terreni all’agricoltura per destinarli al pascolo. In ragione del minor numero di addetti nella pastorizia rispetto all’agricoltura si determinò una diminuzione degli occupati nelle campagne, contestualmente ad un aumento dei canoni di affitto e del costo della vita. La nuova fase imprenditoriale avvantaggiò esclusivamente la proprietà fondiaria e gli industriali che potendo fare cartello imponevano con assoluta discrezionalità un prezzo del latte talmente irrisorio da impedire qualsiasi investimento e sviluppo fino a non consentire la copertura dei costi di produzione. Se prima i pastori erano i signori delle zone interne che controllavano autonomamente l’intero ciclo di produzione pastorale, con la privatizzazione delle terre e l’impianto dell’industria casearia divengono solo un anello della catena, quello più debole e indifeso esposto ad una condizione di precarietà che inevitabilmente genera tensione verso i proprietari terrieri e gli industriali. Il cosiddetto malessere delle zone interne, i picchi nei tassi di criminalità dall’Ottocento fino a tempi recentissimi affondano le radici in questo insieme di concause. Il pastore prima era allevatore, produttore e commerciante, ora è solo un custode mungitore, mentre la trasformazione e commercializzazione vengono assunti dai gruppi industriali. Un processo che ricorda molto da vicino le riflessioni di Marx sulla separazione del produttore dai mezzi di produzione nella cosiddetta fase dell’accumulazione originaria.

Nella sua relazione per l’Inchiesta parlamentare del 1971 Ignazio Pirastu individuò proprio in questa contraddizione, tra la dimensione ancora primitiva dell’allevamento e la modernità capitalistica delle fasi di trasformazione e vendita dei prodotti, il punto critico della società sarda che incredibilmente ha varcato non solo l’Ottocento ma anche il secolo successivo, arrivando fino alle cronache di lotta dei pastori sardi dei giorni nostri:

Sarà il pastore d’ora in poi a subire le conseguenze di ogni crisi di mercato, crisi che l’industriale potrà affrontare con la manovra del prezzo del latte contro il pastore ormai non più in grado di modificare la rigida componente del canone d’affitto cui si è impegnato o che ha già pagato all’inizio dell’annata agraria. […] La mancata modifica del primitivo assetto della pastorizia e la mancata trasformazione dei pascoli urtano drammaticamente con le nuove moderne forme di produzione industriale, accentuando ed esasperando le contraddizioni, il divario e l’impronta di arretratezza che già esisteva nel secolo precedente[29].

Il pastore è inserito in un mercato più vasto che non può più controllare in alcun modo, ne diviene la semplice forza lavoro senza per questo mutare le forme arcaiche della sua realtà. Non è un lavoratore salariato, ma subisce allo stesso modo quel processo di alienazione tra la sua attività e il risultato del suo lavoro che Marx aveva analizzato per la produzione industriale. Il punto decisivo, che segna la rottura dei vecchi equilibri e determina l’esplodere del banditismo, non è tanto o solo la condizione di disagio economico, quanto il costante rischio di annullamento, il declassamento imposto dalla preponderanza di figure sociali più forti e tutelate come i proprietari e gli industriali. Un mondo sottoposto alla costante minaccia di perdere tutto, agitato dal timore dei pastori di ridursi a braccianti, senza né terra né bestiame, quindi dalla paura di perdere una funzione sociale e produttiva esercitata con continuità in una lunghissima storia. È da questa condizione sociale, nelle campagne sempre più spopolate, nelle fasi della transumanza, che ha origine quello che viene definito il primo passo verso il banditismo, l’abigeato, quindi la rapina e l’estorsione.

Secondo Gramsci, il processo d’unificazione nazionale italiano non si realizzò sulla base di un rapporto d’uguaglianza, ma attraverso una relazione squilibrata all’interno della quale l’arricchimento e l’incremento industriale del Nord dipendevano strettamente dal crescente impoverimento del Mezzogiorno. La realtà dello sfruttamento semicoloniale del Sud è stata sempre accuratamente celata dalle classi dirigenti e a quest’opera, secondo Gramsci, contribuirono pure gli intellettuali socialisti, i quali, anziché svelare l’origine del rapporto diseguale, spiegarono l’arretratezza del Sud con l’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita dell’uomo meridionale. In questo modo ha trovato ampio seguito la convinzione di un Sud liberato dalla feudalità, fertile e ricco di risorse naturali, e ciò nonostante incapace di emanciparsi dalla miseria e dall’arretratezza per ragioni tutte interne al Meridione stesso; vale a dire, si è radicata l’immagine di un Sud «palla al piede» che impediva al Nord un più rapido progresso verso la modernità industriale e la ricchezza economica[30]. Una visione presente, ben prima dell’Unità d’Italia, anche nelle analisi sul disagio economico e sociale della Sardegna e del suo fenomeno più emblematico, il banditismo.

Come ha scritto Michelangelo Pira, per lungo tempo, le cause del banditismo, e del brigantaggio meridionale, furono ricondotte alle individualità «considerate feroci per natura» piuttosto che «ai codici di intere comunità oppresse». Il positivismo fece da supporto scientifico alla pretesa di imporre con l’esercito la «civiltà», e tra le classi dirigenti mai si fece spazio l’idea che «la questione sarda non è una questione di polizia, ma una vera e propria guerra politica e sociale»[31].

Prima e dopo il Risorgimento, la questione sarda fu archiviata come problema di ordine pubblico e il banditismo considerato la causa del sottosviluppo, non l’effetto; le cause della criminalità andavano ricercate in una sorta di tara congenita, biologico-razziale, del popolo sardo[32]. Un tema che troviamo spesso nelle riflessioni di Gramsci, tanto negli scritti giovanili[33], pensiamo all’articolo da egli dedicato al viaggio di Pietro Mascagni in Sardegna nel maggio 1916, trasformato sulle colonne de “La Stampa” in viaggio esotico in una terra primitiva abitata da barbari e banditi[34], quanto nelle considerazioni mature sul rapporto nefasto tra positivismo e antropologia criminale presente negli approcci del socialismo italiano alla questione meridionale.

Le basi parassitarie del protezionismo

Dietro al protezionismo, che colpì ferocemente la società sarda di fine Ottocento, Gramsci intravvedeva la moneta di scambio del blocco di potere che univa la borghesia industriale del Nord e i ceti parassitari della proprietà terriera meridionale, di cui le sterminate plebi del Sud pagarono il conto. La drammatica condizione della Sardegna a cavallo tra Ottocento e Novecento, posta in relazione con gli effetti devastanti del protezionismo, è descritta da Gramsci nel 1918 come esempio paradigmatico delle contraddizioni nazionali:

Anni terribili, che in Sardegna, per esempio, hanno lasciato lo stesso ricordo dell’anno ’12 [1812, n.d.A.], quando si moriva di fame per le vie e uno starello di grano veniva clandestinamente scambiato col campo seminativo corrispondente. L’inchiesta dell’on. Pais sulla Sardegna è un documento che rimarrà indelebile marchio d’infamia per la politica di Crispi e dei ceti economici che la sostennero. L’isola di Sardegna fu letteralmente rasa al suolo come per un’invasione barbarica; caddero le foreste – che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche – per trovare merce facile che ridesse credito, e piovvero invece gli spogliatoi di cadaveri, che corruppero i costumi politici e la vita morale[35].

Già in un articolo dell’aprile 1916 Gramsci trova nella questione meridionale un incrocio di contraddizioni paradigmatiche dei limiti nel processo di unificazione nazionale, a partire dall’adozione di un modello amministrativo centralistico, inadeguato alla realtà italiana e profondamente diverso da quello che Cavour aveva in mente. Dopo più di mille anni venivano riunificati due tronconi della penisola fino ad allora caratterizzati da forme di sviluppo storico, economico e anche istituzionale completamente differenti. «L’accentramento bestiale» concepì il Sud come mercato coloniale interno del Nord, confondendo o ignorando le reali esigenze del Mezzogiorno. L’unica alternativa alla miseria assoluta si incontrava negli esodi biblici dell’emigrazione di massa, mentre la reazione a questo stato di cose si manifestò nelle forme episodiche e disorganiche del ribellismo contadino o del brigantaggio. Il protezionismo, pertanto, era lo strumento di consolidamento di un processo contraddittorio di modernizzazione, in seguito sintetizzato con il concetto di «rivoluzione passiva», il sigillo apposto a quell’alleanza con cui si rendeva e strutturale la questione meridionale:

il protezionismo industriale rialzava il costo della vita al contadino calabrese, senza che il protezionismo agrario, inutile per lui che produceva […] riuscisse a ristabilire l’equilibrio. La politica estera degli ultimi trent’anni rese quasi sterili i benefici effetti dell’emigrazione. Le guerre eritree, quella di Libia, fecero emettere dei prestiti interni che assorbirono i risparmi degli emigrati[36].

Gli equilibri passivi e conservatori dell’Italia, cementati dal trasformismo molecolare dall’Unità sino al fascismo[37], si basavano proprio su questa alleanza parassitaria tra le classi dirigenti nazionali responsabile del drenaggio permanente di quote enormi di ricchezza prodotta per sostenere intere stratificazioni di classi improduttive.

Gramsci, tuttavia, contrariamente a quanto solitamente si scrive, non prende coscienza della funzione parassitaria e regressiva del protezionismo a contatto con gli ambienti accademici einaudiani a Torino, ma in Sardegna, dove questa misura arrivò come una pietra tombale apposta a qualsiasi prospettiva progressiva di modernizzazione. La Sardegna visse la sua transizione alla modernità all’interno di un rapporto diseguale i cui termini fondamentali, anche grazie al protezionismo, erano destinati a perdurare nel nuovo secolo. Paradossalmente, uno dei segnali più forti di unità con il quale la Sardegna è riconosciuta parte integrante della realtà nazionale non viene dalla storia delle classi dirigenti, ma da quella delle sue masse di sfruttati: la proclamazione del primo sciopero generale nazionale nella storia d’Italia del 1904 dopo l’eccidio di Buggerru.  Temi che riemergono nel 1919, in un articolo, intitolato I dolori della Sardegna, nel quale Gramsci denunciava la disastrosa condizione coloniale in cui era costretta la sua terra, la cui origine risaliva proprio ai tempi del Regno di Sardegna e al dominio delle classi dirigenti torinesi:

La censura non ha permesso che si accennasse ai rapporti politici ed economici che intercorrono tra la Sardegna e la classe dirigente italiana e specialmente tra la Sardegna e quella classe dirigente italiana che abita a Torino (borghesia industriale e nobiltà). […] Perché deve essere proibito all’Avanti! ricordare che a Torino hanno la sede i consigli di amministrazione delle ferrovie sarde e di qualche società mineraria sarda? Perché deve essere proibito ricordare che gli azionisti  delle Ferrovie sarde, i quali si dividono lautissimi dividendi, i quali riscuotono per ogni chilometro di strada ferrata, fanno viaggiare i pastori e i contadini sardi in vetture bestiame, fanno pagare ai pastori e ai contadini sardi tariffe altissime, fanno viaggiare i contadini e i pastori sardi in convogli trainati da locomotive riscaldate a legna invece che carbon fossile, provocando ogni anno centinaia di migliaia di lire di danni con gli incendi determinati da questo combustibile? Perché non si può ricordare che i minatori sardi sono pagati con salari da fame, mentre gli azionisti torinesi impugnano i loro portafogli con dividendi cristallizzati con il sangue dei minatori sardi, che spesso si riducono a mangiare le radici per non morire di fame? Perché deve essere proibito ricordare che due terzi degli abitanti della Sardegna vanno scalzi d’inverno e d’estate, perché il prezzo delle pelli è portato alle altezze proibitive dai dazi dei protettori che arricchiscono gli industriali torinesi del cuoio, uno dei quali è presidente della Camera di Commercio di Torino? Perché è proibito ricordare che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini, dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea, in quanto lo Stato «spende» per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale?[38].

Conclusioni

Nelle note su Americanismo e Fordismo Gramsci descrive l’essenza della società meridionale a partire da un dato strutturale: la sopravvivenza in essa di classi generate dalla ricchezza e complessità della storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito[39].

Il compromesso tra industriali e agrari, reso possibile dal protezionismo, attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord industrializzato era come la metropoli capitalistica per la colonia; le classi dirigenti del Sud (grandi proprietari e media borghesia) svolgevano la stessa funzione delle categorie sociali delle colonie alleate con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al proprio sfruttamento. In Italia il protezionismo si consolidò sfruttando abilmente gli interessi antagonistici tra città e campagna contrapponendo una parte dell’Italia all’altra. In questa dinamica il prezzo del grano divenne leva per garantire la sopravvivenza dei ceti improduttivi, non certo uno strumento teso a favorire lo sviluppo rurale[40]. L’egemonia del Nord sul Sud avrebbe potuto assolvere una funzione positiva se l’industrialismo si fosse posto l’obiettivo di ampliare la sua base di nuovi quadri, incorporando, non dominando, le nuove zone economiche assimilate. In tal senso l’egemonia del Nord sarebbe stata espressione di «una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo»[41].

Una dinamica di questo tipo avrebbe potuto innescare o favorire una rivoluzione economica con carattere nazionale, al contrario l’egemonia non ebbe carattere inclusivo, ossia finalizzata a far venir meno quella distinzione, ma «permanente», «perpetua», nel senso di reggersi su un’idea di sviluppo diseguale tale da rendere la debolezza del Sud un fattore, indeterminato nel tempo, funzionale alla crescita industriale del Nord, come se il primo fosse una appendice coloniale del secondo. Questo vincolo organico, questa alleanza innaturale, impedì la dialettica (caratteristica delle forme classiche di sviluppo capitalistico) tra due classi che non dovrebbero essere permanentemente alleate, salvo congiunture particolari, ma contrapposte. In Gran Bretagna dalla dialettica tra industriali e agrari si è originata anche la storia dei partiti e quella parlamentare. In Italia non esisteva la rotazione su base parlamentare, la formazione delle classi dirigenti avveniva per assorbimento e cooptazione fiduciaria, tramite il trasformismo, di singole personalità negli equilibri passivi del grumo di interessi addensatosi attorno alla Corona. Il sistema gerarchizzato di privilegi definitosi dopo il Risorgimento ha portato ad accentuare e rendere permanente la natura arretrata della struttura economico-sociale meridionale, aumentando a dismisura il suo sfruttamento e drenando da essa quote di risparmio delle sue classi parassitarie verso il Nord. Tuttavia, nella prospettiva storica questo sistema di compromesso si rivelò inefficace perché si risolse in un ostacolo allo sviluppo tanto dell’economia industriale, quanto di quella agraria, ciò determinò in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse. I termini di questa contraddizione trovarono in Sardegna modo di esprimersi, in tutta la loro drammatica crudezza, particolarmente a cavallo tra i due secoli. Proprio negli anni dell’infanzia di Gramsci, l’Isola visse drammaticamente tanto le conseguenze negative della modernizzazione passiva anteriore all’Unità d’Italia quanto gli effetti depressivi generati dalle nuove politiche protezionistiche nazionali, anni segnati da conflitti durissimi, come l’eccidio di Buggerru e i moti insurrezionali del 1906 testimoniano[42].

Come Cardia ha segnalato nel corso degli anni, l’origine di questa ricca elaborazione trova nella questione sarda una centralità solo raramente riconosciuta e ancora meno approfondita[43].  Lo stretto intreccio di tali questioni, dunque l’anteriorità della questione sarda rispetto alla questione meridionale nelle analisi gramsciane, è stato uno degli assilli che più hanno segnato la vita politica, gli studi e le riflessioni di Umberto Cardia. Problemi in buona parte ancora sul tappeto, rispetto ai quali la sua lezione può fornirci stimoli e suggerimenti essenziali, utili non solo a interpretare la realtà, ma a trasformarla in meglio.

 

Gianni Fresu

 

Immagine tratta dall’Archivio fotografico di Giuseppe Podda.

 

 

 

 

 

[1] U. Cardia, Il mondo che ho vissuto, a cura di G. Marci, Cagliari, Cuec, 2009, p. 118-119.

[2] Tra tutti, il testo fondamentale per comprendere la crisi del regime presso le giovani leve cresciute nel Ventennio, rimane l’opera di Ruggero Zangrandi Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Amico d’infanzia e compagno di studi di Vittorio Mussolini, l’autore è per molti versi una figura che sintetizza in sé la delusione di una generazione cresciuta con il mito della rivoluzione fascista, divenendo perciò ancora più risoluta nel prenderne le distanze, una volta compresa la differenza di significato tra autorappresentazione e realizzazioni concrete del regime: R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Milano, Feltrinelli, 1976.

[3] Per maggiori approfondimenti su questo tema rimando alla monografia nella quale ho avuto modo di trattare approfonditamente questi argomenti: G. Fresu, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, Roma, Odradek, 2013.

[4]«Cosmopolitismo di maniera» e «regionalismo chiuso» non sono unicamente i vizi tipici di un’intellighenzia di matrice sostanzialmente provinciale: Gramsci vi vede due deviazioni attive e operanti nella stessa lotta di classe sarda, sia in termini d’un avanguardismo esasperato che separa i potenziali gruppi dirigenti, e in primo luogo gli intellettuali, dal movimento di massa, sia sotto la forma del separatismo e dell’indipendentismo su base regionale, una versione appena più sofisticata di quell’istintiva ideologia dell’«a mare i continentali!» che lo stesso giovane Gramsci aveva conosciuto e praticato. In entrambi i casi il risultato politico consiste nella separazione dei contadini e dei pastori sardi dai loro «fratelli continentali», nella frammentazione di un potenziale fronte di lotta anticapitalistico, in un vantaggio per l’avversario di classe: Guido Melis, Antonio Gramsci e la questione sarda, Cagliari, Edizioni della Torre, 1977, p. 14.

[5] L’opera, seppur nel suo carattere frammentario, viene pubblicata postuma con il titolo La Sardegna di ieri e di oggi grazie al lavoro di Umberto Cardia, che dopo aver lavorato per anni nello stesso partito a stretto contatto di gomito con Laconi curò la pubblicazione di queste note. Prima di addentrarci in esse, una tappa intermedia essenziale è contenuta nel saggio Questione sarda e questione meridionale, pubblicato su «Rinascita Sarda» nel 1957: R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967), Cagliari, Edes, 1988.

[6] R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967), Cagliari, Edes, 1988, p. 233.

[7] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Q. 22, §2, Torino, Einaudi, 1975, p. 2283-2284.

[8]«Io non voglio, qui, riassumerne i termini politici, riproporre le ragioni e i connotati di quella che ho chiamato, altrove, “autonomia integrale”, traendo l’espressione da Gramsci, laddove parla dei problemi della subalternità e del suo superamento. Solo una autonomia più forte, nel senso giuridico-istituzionale e politico della espressione, può consentirci di signoreggiare i processi della triplice integrazione: italiana, europea, mondiale». U. Cardia, Il mondo che ho vissuto, cit. p. 47.

[9] U. Cardia, La Sardegna di Laconi, in R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967, cit., p. 13.

[10] «Ecco, ancora, dunque, un problema e un nodo da esplorare, da portare alla luce, da risolvere: il modo come, in Gramsci, comincia a delinearsi la concezione dell’autonomia sarda, della lotta per il rinnovamento della società isolana, di un potere autonomistico nuovo, appoggiato sulle grandi masse dei contadini, di operai e intellettuali». U.  Cardia, Il sardismo di Gramsci, “Rinascita sarda”, a. IV, n. 9, 15-31 maggio 1967, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, a cura di U. Cardia, Cagliari, Edes, 1976, p. 26.

[11] «Attento lettore di Antonio Gramsci e assiduo studioso di storia e cultura sarda, Cardia una penetrante analisi degli enormi ostacoli che un gruppo subalterno deve superare al fine di liberarsi dalla prigione dei propri usi e costumi fossilizzati, acquisire la capacità di parlare a nome proprio e imparare ad autogovernarsi. Come Gramsci ha spiegato nelle sue note sui subalterni, il raggiungimento dell’autonomia è un processo molto più complicato e lento di un atto di sfida contro il potere. […] Nelle sue riflessioni su subalternità e autonomia, Cardia fa eco a Gramsci, ma offre anche al suo lettore qualcosa di più, ovvero un chiarimento e un esame critico degli aspetti distintivi e specifici della “questione sarda” che Gramsci aveva toccato solo brevemente in alcuni appunti sparsi. A differenza di Gramsci, naturalmente, Cardia è stato in grado di osservare in prima persona e di svolgere un ruolo di primo piano nella vita politica e culturale della Sardegna», J. Buttigieg, Prefazione, in U. Cardia, Il mondo che ho vissuto, cit., p.  XXIII.

[12] G. Fresu, Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Cagliari, Aipsa, 2019, p. 221-246.

[13] U. Cardia, Regionalismo e classe operaia nel pensiero di Gramsci, “Rinascita sarda”, a. V, n. 8, 20 aprile / 5 maggio 1967, cit., pp. 141-146.

[14] G. Melis, Antonio Gramsci: un’idea di Sardegna, in A. Gramsci, Scritti sulla Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2008, p. 21.

[15] Guido Melis, curatore nel 1975 di una prima antologia di scritti sulla questione sarda (Antonio Gramsci e la questione sarda, Cagliari, Edizioni Della Torre), nella sua introduzione a una nuova raccolta attorno a questo tema da lui curata, 33 anni dopo il suo primo approfondimento, così rileva: «Desta una certa sorpresa, affrontando il tema ormai molto sedimentato del Gramsci sardo, dover constatare come nel grande corpus degli scritti gramsciani i riferimenti diretti alla Sardegna siano relativamente pochi»: G. Melis, Antonio Gramsci: un’idea di Sardegna, in Antonio Gramsci, Scritti sulla Sardegna, cit., p. 9.

[16] Renzo Laconi pose con acutezza l’esigenza di un’indagine gramsciana sull’importanza della questione sarda nella formazione intellettuale dell’autore dei Quaderni, mostrando quanto il particolare contesto del ventennio da lui trascorso nell’Isola fu essenziale per formare la sua concezione complessa della lotta di classe, orientando di fatto i suoi interessi e le sue propensioni intellettuali. R. Laconi, Note per un’indagine gramsciana. XX anniversario della morte di Gramsci, “Rinascita sarda”, n. 1.2, 15 giugno 1957, p. 65-74.

[17] «Caro Deffenu, ti ho già indirizzato da parecchio un vaglia di 2,00 lire quota di adesione al Gruppo sardo della Lega antiprotezionista» A. Gramsci, Epistolario, volume 1 (1906-1922), Edizione Nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci, Roma, Treccani, 2009, p. 143.

[18] A. Gramsci, Scritti sulla Sardegna, cit., p. 105.

[19] Per maggiori approfondimenti rimando a G. Fresu, La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, Cagliari, Cuec, 2011.

[20] U.  Cardia, Il sardismo di Gramsci, “Rinascita sarda”, a. IV, n. 9, 15-31 maggio 1967, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, cit., p. 24.

[21] Ibidem.

[22] M. Brigaglia, Sardegna perché banditi, Milano, Carte segrete, 1971, p. 60.

[23] U. Cardia, Autonomia sarda. Un’idea che attraversa i secoli, Cagliari, Cuec, 1999, p. 173-174.

[24] Come ha ben sintetizzato Birocchi, forse lo studioso che con maggior rigore e serietà scientifica ha affrontato questi temi, «il trionfo della proprietà in Sardegna coincise con l’affermarsi di una borghesia non solo priva di quegli orizzonti universalistici che altrove l’avevano portata alla testa del movimento riformatore, ma legata a mentalità clientelari e a pratiche suggerite da interessi estremamente ristretti»: I. Birocchi, Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna. Provvedimenti normativi, orientamenti di governo e ruolo delle forze sociali dal 1839 al 1851, Milano, Giuffrè, 1982, pp. 446-447.

[25] Per maggiori approfondimenti rimandiamo a una monografia nella quale ci siamo occupati diffusamente della contraddittoria transizione alla modernità della Sardegna e dei conflitti da essa generata attraverso un lavoro di archivio e di analisi storico-sociale e politica che ha fatto ampio ricorso alle categorie di Antonio Gramsci: G. Fresu, La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, cit.

[26] G. Angioni, Rapporti di produzione e cultura subalterna: contadini in Sardegna, Cagliari, Edes, 1982, p. 70.

[27] Ivi, p. 37-38.

[28] Ivi, p. 100

[29] I. Pirastu, Il banditismo in Sardegna, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 64-55.

[30] A. Gramsci, La questione meridionale, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 9-10.

[31] M. Pira, La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna, Milano, Giuffrè, 1978, p. 101.

[32] A. Niceforo, La delinquenza in Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 1977, pp. 31-44.

[33] Un esempio del modo sarcastico con cui Gramsci risponde ai luoghi comuni sulla Sardegna, dunque, al fatto che essa sarebbe povera essenzialmente per l’incapacità dei sardi a far fruttare una terra fertile, si trova nel gustosissimo articolo Menti inferme, “Avanti!”, ediz. piemontese, 19 febbraio 1917, XXI, n. 50, in A. Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi, 1975, pp. 89-90.

[34] «Un mese di soggiorno in Sardegna: banchetti, bicchierate, strette di mano, entusiasmo per l’Italiano illustre che ha fatto il sacrifizio di portare la sua preziosa persona fra i briganti, i mendicanti, i pastori vestiti di pelli dell’isola. E l’italiano illustre tornato in terra ferma si atteggia a Cristoforo Colombo e scopre qualcosa, tanto per dimostrare che non ha perduto il suo tempo. […] i sardi passano per lo più per incivili, barbari, sanguinari, ecc., ecc.; ma non lo sono evidentemente quando è necessario mandare a quel paese gli scopritori di buona volontà. Un ufficiale andato a Cagliari nel 1906 per reprimere uno sciopero, compiange le donne sarde destinate a diventare legittime metà degli scimmioni vestiti di pelli non conciate, e sente in sé (testuale) ridestarsi il genio della specie (quella non vestita di pelli), che vuole porsi all’opera per mitigare la razza. Giuseppe Sergi in 15 giorni si sbafa una quantità di banchetti, misura una cinquantina di crani, e conclude per l’infermità psicofisica degli sciagurati sardi, e via di questo passo»: A. Gramsci, Gli scopritori, “Avanti!”, XXII, n. 143, 24 maggio 1916, in Scritti 1910-1926, vol. I 1910-1916, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2019, pp. 395-396.

[35] A. Gramsci, Uomini, idee, giornali e quattrini, “Avanti!”, ediz. piemontese, 23 ottobre 1918, XXII, n. 294, in, Scritti giovanili 1914-1918, cit., p. 331.

[36] A. Gramsci, “Il mezzogiorno e la guerra”, Il Grido del Popolo, 1° aprile 1916, XXII, n. 610 in Scritti (1910-1926) volume 1 (1910-1916), Edizione Nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci, Roma, Treccani, 2019, p. 278-279.

[37] A. Gramsci, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 2020, p 798-799.

[38] A. Gramsci, I dolori della Sardegna, “Avanti!” ed. piemontese, 16 aprile 1919, In Scritti 1915-1925, Milano, Moizzi Editore, 1976, p. 177.

[39] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Q. 22, § 1, cit., p. 2141.

[40] Clericali ed agrari, “L’Avanti!”, 7 luglio 1916, XXII, n. 187, in A. Gramsci, 610 in Scritti (1910-1926) volume 1 (1910-1916), cit., p. 513-514.

[41] Ivi, Q. 1, § 149, p. 131.

[42] Questi temi hanno trovato una trattazione approfondita e ben documentata nell’opera di Girolamo Sotgiu, a nostro modesto parere tra i più importanti storici sardi dell’età contemporanea. In particolare, rimandiamo ad alcune sue monografie: Lotte sociali e politiche nella Sardegna contemporanea, Cagliari, Edes, 1974; Movimento operaio e autonomismo, Bari, De Donato Editore, 1975; Storia della Sardegna sabauda, (1720-1847), Bari, Laterza, 1984; Storia della Sardegna dopo l’Unità, Bari, Laterza, 1986.

[43] «Essa è da ricercare non tanto nel «sardismo» del giovane Gramsci, che fu peraltro alimento essenziale, quanto nell’elaborazione della «questione sarda» che egli avviò dopo il ritorno dalla Russia a Roma, mentre si preparava il Congresso di Lione in fraterna comunione con Emilio Lussu ch’era allora il rappresentante più genuino del movimento»: U. Cardia, Il sardismo di Gramsci, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, cit., p. 24.

I cento anni del PCI, La Nuova Sardegna, 17/01/2021

Il centesimo anniversario del PCI a finito per essere l’ennesima occasione di approfondimento persa, vanificata dalla volontà di regolare i conti del passato che soverchia la necessità di capire. “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “La Repubblica”, tutte le grandi testate nazionali si uniscono in una nuova Santa Alleanza, cementata dallo stridore di maledizioni che dovrebbero incenerire tutto quel che quella storia ha rappresentato. È, ad esempio, il caso del pezzo di Filippo Ceccarelli che apre lo speciale dedicato ai 100 anni del PCI da “Robinson”, a suo modo, paradigmatico e ben rappresentativo dell’approccio oggi prevalente.
Nemmeno il più piccolo sforzo per tentare di comprendere l’originalità e la funzione progressiva di questa organizzazione, in un contesto storico denso di contraddizioni interne e internazionali. Va bene prestare attenzione alle contraddizioni, che in quella storia non furono certo poche, ma come si può non avere alcuna curiosità verso la sua ricchezza culturale? Come omettere il suo contributo pedagogico alla socializzazione politica di massa in Italia, ossia al fatto che questo partito è stato comunque strumento di alfabetizzazione e formazione politica, veicolo di partecipazione collettiva per milioni e milioni di “cafoni” (operai, contadini, muratori, lavoratori in genere) fino ad allora esclusi dalla politica e divenuti improvvisamente soggetto attivo e cosciente della vita nazionale. Tutto questo in un Paese storicamente dominato da equilibri sociali regressivi tra le classi, dalle rivoluzioni passive e dal ricorso sistematico al trasformismo che, dal Risorgimento al fascismo, hanno sempre avuto la funzione operativa di escludere e rendere ancora più subalterne le masse popolari. Un pezzo di “riforma intellettuale e morale”, sicuramente incompleto di cui, pur tra mille limiti, quel gruppo dirigente aveva consapevolezza, così sintetizzato da Palmiro Togliatti gennaio del 1958:
“L’adesione di milioni e milioni di donne e di uomini a un partito che combatte per creare una nuova società, è un fatto nuovo nella vita della nazione. L’Umanità e la nazione diventano consapevoli del loro compito, che è di dominare il mondo dei rapporti sociali e dare inizio al regno della libertà. Noi siamo fieri di essere l’avanguardia consapevole di questo grande movimento”, (P. Togliatti, Il partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma, 1961, p. 136-137).
Nel pezzo di Ceccarelli troviamo solo una lunga sequenza di accuse, luoghi comuni, giudizi taglienti e sconcezze osservate dal buco della serratura del più grande partito comunista dell’Occidente. Ma se veramente questa storia non rappresenta nulla e non ha lasciato tracce, solo fallimenti, perché ogni giorno tutti questi intellettuali in servizio permanente nella difesa dello stato di cose presenti sente il bisogno di mobilitarsi per delegittimarne la memoria e cancellare preventivamente la possibilità di trarne insegnamento per il futuro? Questa volontà censoria, infarcita di scomuniche e maledizioni fino alla settima generazione, ci dice semmai l’esatto contrario di quanto raccontato; in realtà, quelle vicende fanno ancora paura a tanti, sebbene nella politica attuale nessuno abbia ancora avuto la forza, la voglia e l’intelligenza di raccoglierne l’eredità.
Per rivendicare un diverso modo di rapportarsi a questo insieme di problemi, di seguito, un mio articolo pubblicato nella rubrica “Diogene” nel numero de “La Nuova Sardegna” del 17 gennaio 2021.

Quella scissione che cambiò la sinistra

Il 21 gennaio di cento anni fa al XVII Congresso del PSI a Livorno la nascita del Partito comunista italiano

Il 21 gennaio ricorre il centenario della fondazione del PCI, si possono avere diverse opinioni in merito alla sua linea politica, condividerne o meno premesse e prospettive ideologiche, resta innegabile l’importanza di quest’organizzazione di massa nella storia d’Italia del XX secolo. Tale riconoscimento non significa omettere le contraddizioni e i limiti della sua traiettoria politica, ma valutarle unitamente ai contenuti progressivi della sua funzione storica. La peculiarità del PCI nel panorama del comunismo internazionale, tuttavia, non riguarda solo il suo peso nelle vicende sociali, politiche e culturali di un Paese la cui collocazione nel blocco occidentale era considerata inderogabile, come le trame eversive e la strategia della tensione nel corso del dopoguerra hanno drammaticamente dimostrato. La vera originalità del comunismo italiano riguarda lo sforzo compiuto dai suoi gruppi dirigenti teso a tradurre i principi del marxismo e il contenuto universale della Rivoluzione russa nelle peculiarità della nostra realtà nazionale. Non si trattava di ripetere formule ideologiche generali, né pretendere di riproporre pedissequamente in Italia modelli affermatisi altrove. Come Gramsci scrisse nel Quaderno 7, «il compito era essenzialmente nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza», ossia, inserirsi nelle articolazioni egemoniche della sua società civile, comprendendone l’essenza e originalità.

Zonde d’ombra

Nella storia del Novecento, le vicende del Partito comunista italiano hanno dato luogo a ricerche e approfondimenti tanto estesi da trovare un corrispettivo solo nel grande interesse verso il Fascismo, sicuramente l’argomento storico-politico italiano più sottoposto a indagine scientifica. Eppure, in questo colossale lavoro di ricostruzione storica ci sono alcune “zone d’ombra” tra le quali spicca senz’altro la mancata o insufficiente storicizzazione della corrente di Amadeo Bordiga, principale artefice e protagonista della nascita del PCd’I. La tendenza a considerare Gramsci il fondatore del “Partito nuovo” è il risultato di una rappresentazione dei fatti strumentale, funzionale alle sue esigenze interne di lotta politica. Tuttavia, cambiato il quadro storico e svanite le necessità dialettiche che ne avevano determinato l’affermazione, una simile visione dei fatti è sopravvissuta allo stesso PCI, così ancora oggi è diffusa l’idea di un “Gramsci padre fondatore del Partito”.

Oltre Bordiga

Il PCd’I, Sezione italiana della III Internazionale, nasce a Livorno il 21 gennaio del 1921. A sottolineare con più decisione la sua radice nazionale, a seguito dello scioglimento dell’Internazionale comunista, assume poi il nome di Partito comunista italiano il 15 maggio del 1943. Tuttavia, la scelta di una più netta contestualizzazione nazionale dell’organizzazione nasce ben prima del 1943, con la profonda svolta impressa da Gramsci alla sua direzione politica tra il 1925 e il ‘26. Le Tesi del Congresso Lione del ‘26 sono state definite l’asse fondamentale della sterzata operata nella storia dei comunisti in Italia, sia in rapporto alla concezione del partito, sia per l’analisi della società. In entrambi i casi si giunge al superamento completo delle Tesi elaborate da Bordiga per il Congresso di Roma, dopo il profondo mutamento nella direzione politica del Partito sotto la guida di Antonio Gramsci. Come è noto, a partire dalla fine degli anni Trenta e soprattutto nella lotta di liberazione nazionale il Partito comunista diviene un soggetto politico capace di attrarre studenti, operai, artisti, letterati, docenti universitari. Da piccolo partito di quadri, presente, e limitatamente, solo in determinate realtà del Paese, diviene la principale organizzazione politica della Resistenza, fino a risultare inaspettatamente il primo partito della sinistra italiana e il più grande partito comunista del campo occidentale. Sembra quasi impossibile una simile trasformazione, tenuto conto della marginalità e della cultura minoritaria al momento della sua nascita e negli anni di affermazione del Fascismo. Una prima spiegazione andrebbe ricercata forse nella tenacia con cui, anche negli anni più duri della repressione fascista, il PCd’I si sforzò di mantenere in Italia una sua struttura operativa clandestina, anziché limitarsi a trasferire all’estero tutta la sua organizzazione. Tuttavia, sebbene importante, la presenza ostinata dei comunisti nel Paese lungo tutto il ventennio mussoliniano non spiegherebbe da sola un fenomeno di crescita tanto esponenziale. Su esso ha probabilmente influito anche l’evoluzione della sua linea, capace di abbandonare gli approcci settari e minoritari delle origini fino ad aderire con maggiore plasticità alle condizioni nazionali, divenendo un partito di massa per molti versi erede della tradizione organizzativa e sociale del vecchio socialismo.

Transizione

Le Tesi di Lione rappresentano uno spartiacque essenziale, sicuramente il punto più alto nel quale l’elaborazione teorica e la direzione politica di Gramsci trovano un punto d’intesa elevatissimo. Nella biografia di Gramsci queste rappresentano un punto di continuità tra le battaglie precedenti il 1926 e le riflessioni carcerarie, la testimonianza più vivida di quanto sia impossibile separare il Gramsci politico e militante dal Gramsci “disinteressato” o “uomo di cultura”. La svolta di Lione costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza, quanto nella fase successiva alla Liberazione; è l’antefatto più pregnante del profondo mutamento nell’iniziativa dei comunisti tra il VII Congresso del Comintern e la “svolta di Salerno” del 1944. Il risultato più fecondo di questa svolta fu il concepire in termini organici le tematiche della lotta al fascismo e quelli della ricostruzione democratica a partire dalla stagione costituente. Il punto d’intesa tra questi due momenti era l’idea della democrazia progressiva, vale a dire, la prospettiva di un permanente allargamento degli spazi di democrazia economica, sociale e politica, tali da consentire al mondo del lavoro di conquistare posizioni di forza, in un processo di transizione democratica al socialismo.

Questione nazionale

Bisognava rimuovere le radici economico sociali del fascismo, ossia la natura monopolistica di un certo suo capitalismo, il parassitismo oligarchico, causa congenita del sovversivismo reazionario di parte significativa delle sue classi dirigenti. Per raggiungere questo obiettivo, così come per quello propedeutico della liberazione dell’occupazione nazifascista, era essenziale trovare un’intesa unitaria con le altre forze popolari del Paese, non solo i socialisti ma anche e soprattutto le masse cattoliche. Al di là di miti e leggende sulla presunta “doppiezza togliattiana”, nella scelta operata con la svolta di Salerno nel 1944, e in quelle successive, fino all’approvazione della Costituzione repubblicana non c’era alcun “abile espediente tattico”, si trattava di scelte strategiche conseguenti alla ricerca di un’originale via italiana al socialismo, frutto delle specificità storiche, culturali e sociali della concreta realtà nazionale in cui i comunisti intendevano agire.

Pubblicato sul numero in edicola de “La Nuova Sardegna”, (“Diogene”, p. 28) del 17 gennaio 2021

Gianni Fresu

 

Gramsci e l’emancipazione dei subalterni

Paolo Desogus[1]

Recensione al volume Antonio Gramsci l’uomo filosofo di Gianni Fresu, Aipsa, Cagliari, 2019, p. 402, pubblicata su “Critica Marxista”, n.4, settembre 2020 ISSN 0011-152X.

 

Per molto tempo la discussione intorno alla figura di Gramsci è stata dominata da questioni inerenti alla sua biografia e in particolare al suo rapporto con il PCd’I durante gli anni carcerari. Le differenze, peraltro note e discusse, tra quanto teorizzato nei Quaderni e la condotta politica del partito hanno alimentato una ricerca sempre più ossessiva e talvolta pretestuosa sul “tradimento” subito dal pensatore sardo ad opera dei suoi stessi compagni. Attraverso l’impiego di un discutibile armamentario filologico è stata addirittura ipotizzata la sottrazione di un quaderno, allo scopo di censurare una presunta conversione del prigioniero al liberalismo. Numerosi studi hanno già messo a nudo la fragilità di queste spericolate ricostruzioni biografiche, senza tuttavia essere riusciti a frenare del tutto la loro diffusione nella discussione giornalistica. Nonostante le numerose recenti pubblicazioni scientifiche, non di rado di grande qualità, continua infatti a circolare l’immagine di un Gramsci abbandonato, incompreso dai suoi compagni e in definitiva estraneo alla vicenda storica e politica del suo partito. Contro questa tendenza si colloca Antonio Gramsci. L’uomo filosofo di Gianni Fresu (Cagliari, Aipsa edizioni, pp. 402), volume che principalmente svolge una funzione scientifica sul pensatore sardo alla luce dei rivolgimenti di cui è stato protagonista, prima come militante, con alle spalle l’esperienza meridionale in Sardegna, successivamente come dirigente politico nei tumultuosi anni della nascita del Partito comunista d’Italia e dell’avvento del fascismo e poi come pensatore all’interno delle carceri fasciste. Questo libro ha nondimeno il grande merito di soddisfare egregiamente un’esigenza divulgativa per un pubblico di non specialisti. Studiare Gramsci nel suo tempo, attraverso le diverse traiettorie politiche, culturali e sociali che hanno orientato il suo cammino, significa infatti per Fresu rischiararne i motivi biografici, individuare le connessioni dialettiche tra pensiero e prassi e restituire materialità esistenziale e politica alla vicenda umana di uno dei massimi pensatori del Novecento italiano che, ancora oggi, nonostante la presa egemonica neoliberale, riesce a condizionare in maniera feconda e originale la riflessione politica e culturale internazionale. Ci pare a questo proposito importante richiamare anzitutto l’attenzione alle pagine dedicate al giovane Gramsci, che in Sardegna si confronta con la subalternità delle classi popolari e ne ricava una prima e fondamentale esperienza politica sulla necessità della lotta per l’egemonia e sull’importanza decisiva dell’organizzazione politica nei conflitti sociali. Grazie a Fresu la Sardegna perde quell’alone mitico di luogo nostalgico, vagamente letterario, dell’infanzia che Gramsci avrebbe superato spostandosi a Torino ed entrando in contatto con la vita culturale della città. La terra d’origine riacquista anzi concretezza storica e assume la forma del laboratorio politico in cui Gramsci ha rielaborato le proprie esperienze per farne materia di continua riflessione lungo quell’itinerario che lo ha portato alla guida del Pcd’I e agli studi carcerari. Ne sono un esempio le pagine dedicate alla questione meridionale, forse le migliori di tutto il libro. Da esse emergono con chiarezza sia i complessi snodi biografici e politici sull’evoluzione del pensiero di Gramsci, che le riflessioni strategiche sulla guida del partito nel contesto della fascistizzazione della società italiana e dei sempre più ristretti margini di agibilità politica del partito comunista italiano negli anni del difficile superamento dell’impronta bordighiana. Per gli importanti risvolti sul Congresso di Lione del 1926, questa fase si caratterizza non solo per l’analisi intorno alla composizione di classe del paese, la sua spaccatura tra nord e sud, tra operai e contadini, ma anche per il concreto lavoro politico di definizione del referente sociale nel concreto intento di trasformare i diretti in dirigenti e dunque di volgere la passività delle larghe masse di fronte ai processi storici in attività, in aspirazione sociale e, in definitiva, in volontà politica. Anche in questo caso l’uomo Gramsci non è separabile dal dirigente politico, così come dal filosofo, di cui vengono messe in luce le profonde ascendenze marxiane e le feconde possibilità di confronto teorico con altri pensatori. Da alcuni importanti passaggi sulla convergenza del pensiero dei Quaderni con la riflessione di György Lukács emerge ad esempio la medesima prospettiva che concepisce la relazione di pensiero e prassi nei termini di una totalità data dall’intreccio organico di storia, economia, politica e processi culturali. Ne discende la comune critica al positivismo, al determinismo storico e alle degradazioni sociologiche, con riferimento per entrambi a Bucharin. Ma soprattutto se ne ricava la ferma adesione di Lukács e Gramsci al pensiero dialettico, attraverso la linea che unisce l’idealismo di Hegel al materialismo storico di Marx. Sono in quest’ottica numerose le pagine che consentono di riconoscere l’attualità di Gramsci e del suo pensiero, capace di diventare testimonianza umana di Resistenza al fascismo, esempio politico di lotta per i subalterni, ma anche materia di cui il Pci nel dopoguerra farà tesoro per la costruzione del “partito nuovo”, gramscianamente inteso da Togliatti come “intellettuale collettivo”. Dalle prime pagine dedicate al giovane Gramsci sino alle conclusioni sul laboratorio dei Quaderni, Fresu lavora infatti sulle inestricabili relazioni di storia, vita e prassi, secondo un modello di indagine, tipicamente marxista, che intende far emergere il pensiero nel quadro dei processi storico-politici e delle determinazioni materiali. Nei termini di Lukács diremmo che il suo è un Gramsci visto in prospettiva, alla luce dell’inesauribile spinta dialettica per l’emancipazione dei subalterni.

 

[1] Paolo Desogus insegna Letteratura italiana contemporanea alla Sorbona. Ha inoltre pubblicato La confusion des langues e Laboratorio Pasolini. Teoria del segno e del cinema. Ha inoltre curato, insieme a Mimmo Cangiano, Marco Gatto e Lorenzo Mari, Il presente di Gramsci. Per le sue ricerche ha ottenuto il premio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna.

 

Antonio Gramsci. O homem filosofo.

(Boitempo, São Paulo 2020, 424 páginas, R$ 63,20)

Em terras brasileiras, como se sabe, Antonio Gramsci aportou como o “herói” da luta cultural antifascista, como o teórico das superestruturas. No intricado processo de recepção e apropriação das suas ideias a partir das primeiras traduções em finais da década de 1960 operou-se, portanto, uma grave cisão entre o filósofo e o político, entre pensamento e ação, entre o homem histórico e o mito desencarnado. O pensamento gramsciano, com efeito, não apenas no Brasil, mas na América Latina de modo mais abrangente, foi submetido aos mais diversos usos, resultando em leituras parciais e fragmentárias. De lá para cá muitos esforços têm sido envidados em busca de uma leitura integral de Gramsci e, de fato, é possível dizer que tal empreendimento – vital na mesma medida em que é árduo – está ainda em construção. Neste sentido, A edição brasileira de Antonio Gramsci, “o homem filósofo”: apontamentos para uma biografia intelectual, de Gianni Fresu, constitui uma importantíssima contribuição para este projeto coletivo de apreensão integral do pensamento gramsciano. Neste livro, Fresu consegue, de fato, dar concretude ao “Gramsci histórico”, sujeito às modificações – e, pode-se dizer também, evoluções – intelectuais e morais exigidas diante de seus próprios limites humanos tanto quanto pelos desafios teóricos e políticos do seu tempo. Emerge desta leitura toda a complexidade do autor em suas diversas fases de vida e de pensamento, isto é, das diferentes perspectivas que Gramsci assume em sua trajetória intelectual, ao mesmo tempo em que podemos perceber o fio condutor que opera a unidade do pensamento ao longo do tempo, isto é, de um pensamento que ao mesmo tempo em que sempre rejeitou veementemente o pedantismo e o diletantismo burgueses, nunca tolerou os esquematismos e os dogmatismos nas próprias fileiras. Fresu nos faz enxergar os elementos de permanência e de coerência interna no pensamento gramsciano – desde a juventude até o período carcerário – entre os quais se destaca o firme e resoluto combate à instrumentalização política das classes subalternas pelas minorias dirigentes. A adesão à perspectiva das classes subalternas não corresponde, contudo, – como fica evidente sob a pena de Fresu – a um procedimento meramente teórico, mas à identificação e imersão concreta no drama histórico dos dominados e subalternizados, na concretização de uma epistemologia popular capaz de prover fundamentos sólidos a uma filosofia de massa, ou, pode-se dizer, à filosofia da práxis.

 

Luciana Aliaga

https://www.boitempoeditorial.com.br/produto/antonio-gramsci-o-homem-filosofo-994


Sinopse do livro

Na figura de Antonio Gramsci coexistem diferentes necessidades e perspectivas, mas toda a sua produção teórica se desenvolve dentro de uma estrutura de profunda continuidade. Isso não significa que ele permaneça sempre idêntico a si mesmo, pelo contrário, em muitas questões seu raciocínio desenvolve-se, torna-se mais complexo, toma novas direções, muda alguns juízos iniciais. O Gramsci dos Cadernos não pode ser sobreposto ao jovem diretor de L’Ordine Nuovo, ou ao líder comunista, porque sua elaboração não se desenvolveu em uma condição de rigidez intelectual, ausente de evoluções. Todavia, a suposta divisão ideológica entre um antes e um depois, em razão da qual um “Gramsci político” tende a ser oposto a um Gramsci “homem de cultura”, é o resultado de uma falsificação ditada por necessidades essencialmente políticas. A vida do intelectual sardo é marcada pelo drama da Primeira Guerra Mundial, o primeiro conflito de massas em que as grandes descobertas científicas das décadas anteriores foram aplicadas em larga escala e onde milhões de camponeses e operários foram literalmente enviados ao massacre. Em toda a sua produção teórica, essa relação dualista, que exemplifica com perfeição o uso instrumental dos “simples” pelas classes dominantes, ultrapassa o contexto bélico das trincheiras, encontrando plena expressão nas relações fundamentais da moderna sociedade capitalista. Em contraste com essa ideia de hierarquia social, considerada natural e imutável, Gramsci afirma constantemente a necessidade de se superar a fratura historicamente determinada entre as funções intelectuais e manuais, em razão da qual se faz necessária a existência de um sacerdócio ou de uma casta separada de especialistas da política e do saber.  Não é a atividade profissional específica (material ou espiritual) que determina a essência da natureza humana, para Gramsci “todo homem é um filósofo”. Nesta expressão dos Cadernos, encontramos condensada sua ideia de “emancipação humana”, que é a necessidade histórica de uma profunda “reforma intelectual e moral”: a subversão das relações tradicionais entre dirigentes e dirigidos e o fim da exploração do homem pelo homem.


Sumario

Nota do autor…………………………………………………………………………………………….. 11

Prefacio, Marcos Del Roio……………………………………………………………………………… 13

 

Primeira parte – O jovem revolucionario………………………………………. 17

  1. As premissas de um discurso ininterrupto……………………………………………….. 19
  2. Dialetica versus positivismo: a formacao filosofica do jovem Gramsci………….. 31
  3. Autoeducacao e autonomia dos produtores…………………………………………….. 47
  4. Lenin e a atualidade da revolucao…………………………………………………………. 59
  5. L’Ordine Nuovo………………………………………………………………………………….. 75
  6. Origem e derrota da revolucao italiana…………………………………………………… 85
  7. O problema do partido……………………………………………………………………….. 93
  8. Refluxo revolucionario e ofensiva reacionaria………………………………………… 105

 

Segunda parte – O dirigente politico…………………………………………… 117

  1. O Partido novo………………………………………………………………………………… 119
  2. O Comintern e o “caso italiano”…………………………………………………………. 135
  3. Rumo a uma nova maioria…………………………………………………………………. 163
  4. Gramsci a frente do Partido……………………………………………………………….. 177
  5. O amadurecimento teorico entre 1925 e 1926………………………………………. 187
  6. O Congresso de Lyon……………………………………………………………………….. 195

 

Terceira parte – O teorico…………………………………………………………… 209

  1. Das contradicoes da Sardenha a questao meridional……………………………….. 211
  2. Os Cadernos: o inicio conturbado de um trabalho “desinteressado”…………… 237
  3. Relacoes hegemonicas, relacoes produtivas e os subalternos……………………… 243
  4. O transformismo permanente…………………………………………………………….. 253
  5. Premissas historicas e contradicoes congênitas da biografia italiana…………….. 267
  6. “O velho morre e o novo nao pode nascer”…………………………………………… 281
  7. A dupla revisao do marxismo e o ponto de contato com Lukacs………………. 2958.

Tradutibilidade e hegemonia………………………………………………………………. 317

  1. O homem filosofo e o gorila amestrado……………………………………………….. 333
  2. Michels, os intelectuais e o problema da organizacao……………………………. 349
  3. O desmantelamento dos velhos esquemas da arte politica……………………… 365

Conclusao…………………………………………………………………………………… 377

 

Posfacio – Antonio Gramsci: o marxismo diante da

modernidade, Stefano G. Azzarà………………………………………………………………….. 383

Cronologia – vida e obra……………………………………………………………………………. 391

Bibliografia………………………………………………………………………………………………. 407

Indice onomastico ……………………………………………………………………………………. 419

 

NOTA EM MEMÓRIA AOS 83 ANOS DA MORTE DE ANTONIO GRAMSCI

Nota em memória aos 83 anos da morte de Antonio Gramsci

Gianni Fresu, presidente da IGS Brasil, na data que se completa 83 anos de morte de Antonio Gramsci, exalta esses 83 anos com Gramsci em uma nota que reflete sobre o valor do seu legado nesse mundo pandêmico e terrível de hoje.

27 de abril 2020

83 anos com Gramsci

 

“Assim, a luta política se torna uma série de fatos pessoais entre aqueles que sabem muito sobre isso, tendo o diabo em uma ampola, e aqueles que estão presos aos enganos de seus próprios dirigentes e não logram convencê-los de sua ignorância incurável”.

(A. Gramsci, Cadernos do Cárcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 1597)

 

O aniversário do falecimento de Antonio Gramsci acontece no meio de uma gravíssima crise sanitária e política que atingem o Brasil e o mundo todo, em que tanto a vida das pessoas quanto as liberdades democráticas estão em perigo diante das constantes tensões entres os poderes do Estado e das recorrentes tentações autoritárias que permeiam parte significativa das classes dirigentes e da sociedade brasileira. Perante tudo isso, o legado do pensamento de Gramsci é uma ferramenta conceitual fundamental, porque fornece categorias e chaves de leituras úteis a esclarecer as contradições históricas e contemporâneas. Todavia, esse patrimônio teórico torna-se vivo e estritamente entrelaçado com a realidade contemporânea não apenas pelas suas heranças, mas graças ao trabalho de pesquisa que envolve em todo o País centenas de estudiosos, grupos de estudos, organizações sociais e culturais que localizam na obra de Gramsci as intuições intelectuais úteis não apenas a interpretar o mundo, mas a mudá-lo.

O sucesso internacional da obra de Antonio Gramsci é um fato notório, sendo ele (junto com Dante Alighieri e Niccolò Machiavelli) o autor italiano mais traduzido e estudado no mundo. Uma das razões do interesse científico para o pensamento Antonio Gramsci no panorama internacional se explica com atenção que esse autor dedicou ao estudo do momento da direção cultural na definição dos aparelhos de poder de uma sociedade moderna. Na realidade contemporânea, marcada pela onipresença dos meios de comunicação de massa e dos novos veículos de difusão das informações (internet e socialnetwork), ainda mais invasivos que os tradicionais, a importância dos organismos encarregados de formar a opinião pública é inquestionável. Além das campanhas eleitorais, que se servem sempre mais dos instrumentos virtuais (WhatsApp, Facebook, Twitter), a luta para influenciar e orientar a opinião pública representa um dos mais importantes desafios da política. Gramsci tem o mérito histórico de ter esclarecido entre os primeiros, com profundidade e continuidade, quanto a centralização política e as relações de força de uma sociedade  moderna e desenvolvida se atuam mais sobre o plano hegemônico (aparelhos privados da sociedade civil) de quanto não aconteça na dimensão tradicional do domínio direto do Estado (direito, exército, magistratura).

Carlos Nelson Coutinho escreveu que a grande difusão internacional de Gramsci, e a importância da do seu legado nas mais diversas disciplinas das ciências humanas, confirma quanto a definição de Clássico se adapta perfeitamente à obra dele. Se em relação ao Príncipe de Machiavelli ou ao Leviatã do Thomas Hobbes podemos utilizar essa categoria em razão dos elementos de grande atualidade desses escritos, a obra de Gramsci é um Clássico porque ela nos fala de um mundo que na sua essência segue existindo ainda hoje[1].

No Brasil de hoje, dentro de uma conjuntura política marcada pelo refluxo democrático e por uma violenta ofensiva reacionária, onde as misturas entre velho e novo produzem fenômenos bizarros, o pensamento de Gramsci fica um recurso analítico fundamental. Exatamente por essa razão a direita ao poder elegeu o intelectual sardo como o símbolo de uma hegemonia diabólica que é preciso extirpar com qualquer meio. Essa atenção censória e autoritária contra as categorias gramscianas se explica justamente pelos seus conteúdos científicos e revolucionários, no sentido que elas despertam constantemente a necessidade de fundamentar qualquer perspectiva ontológica no conhecimento rigoroso do mundo concreto, evitando a retórica e a abstração das simples afirmações ideológicas. Um trabalho de pesquisa e elaboração teórica que pretende buscar os elementos reais, racionais e necessários da realidade visando à radical libertação das cadeias materiais e espirituais que impedem a integral emancipação do homem.

O Brasil atualmente é uma das realidades mais ativas nos estudos dedicados ao intelectual sardo em nível internacional. A biografia de Antonio Gramsci é marcada pelo drama da ditadura, não apenas pela privação da liberdade que o condenou a morrer em condições de constrição, mas porque o fracasso das instituições liberais e aquelas do movimento operário o empurraram a investigar as razões daquela derrota histórica. É exatamente a partir dessa aflição que nasceu um conjunto de reflexões problemáticas e complexas como os Cadernos do cárcere. Também nessa premissa encontramos, talvez, as razões do sucesso de Gramsci num País acostumado às viradas autoritárias e ao “subversivismo reacionário” como o Brasil, porque a atenção crescente para a sua obra se entrelaça estritamente à virada autoritária do Golpe de 1964, destinado a durar como o fascismo na Itália mais de duas décadas. Mas como o Tribunal especial fascista não conseguiu apagar o cérebro de Gramsci por vinte anos, da mesma forma a ditadura brasileira não pôde impedir o florescimento cársico dos estudos ao lado do seu legado teórico. Pelo contrário, para mais de uma geração de estudiosos, Gramsci tornou estímulo de resistência intelectual contra a brutalidade do regime e, ao mesmo tempo, um instrumento para decifrar as contradições sociais da modernização nacional brasileira, a sua história política, econômica e cultural. Isso produziu a riqueza e a originalidade dos estudos gramscianos no Brasil. O Brasil representa uma ponta avançada, não uma periferia, pela quantidade e a qualidade dos trabalhos dedicados ao pensador sardo. Aqui a atenção filológica para as categorias e as elaborações do intelectual sardo encontrou uma tradução criativa nas concretas condições da formação econômico-social nacionais. Um desenvolvimento coerente com o grande tema gramsciano da tradutibilidade e da “filologia vivente” no terreno real das lutas sociais e políticas brasileiras. Como coroamento desse longo processo de progressiva afirmação de estudo, difusão e contextualização do pensamento de Gramsci, entre 27 e 29 de maio de 2015, a assembleia constitutiva de Rio de Janeiro desembocou na criação do IGS Brasil com a tarefa de favorecer relações orgânicas entre os estudiosos ativos no País, para desenvolver as iniciativas cientificas, editoriais e culturais ligadas ao pensamento de Gramsci. Diante dessa história, o IGS Brasil, na Terceira Assembleia Nacional acontecida em Marília no setembro de 2019, assumiu solenemente a tarefa de valorizar a pluralidade das abordagens metodológicas e teóricas, oferecendo um quadro unitário, dialético às diferentes leituras e interpretações do pensamento de Gramsci. Com esses compromissos estamos empenhados em iniciativas cientificas, publicações, eventos nacionais e internacionais, atividades culturais e de divulgação para prosseguir essa grande tradição intelectual do Brasil.

Desde 27 de abril de 1937, o interesse por Gramsci vem crescendo, espalhando-se pelo mundo, invadindo campos temáticos e perturbando a estrita separação disciplinar das academias. Estudar Gramsci é importante não só por razões históricas, para entender o passado, mas também e sobretudo porque seu patrimônio intelectual nos fornece categorias e chaves interpretativas úteis para decifrar as enormes contradições do “mundo complicado e terrível” de hoje. Sua obra e sua vida são necessárias para não desistir, para nunca abandonar a ambição de transformar a realidade, não só de interpretá-la, dando finalmente carne e osso ao princípio da emancipação humana integral, erradicando assim da história o domínio do homem sobre o homem. Por estas razões, apesar da ausência física e apesar da vontade de Mussolini e seu regime de desativar seu pensamento, foram 83 anos com Gramsci.

 

Gianni Fresu

Presidente da International Gramsci Society Brasil

 

 

[1] C. N. Coutinho, Il pensiero politico di Gramsci, Unicopli, Milano, 2006, pag. 146.

 

“Gramsci, dalla Sardegna al Brasile”. Intervista di Noemi Ghetti a Gianni Fresu (“Left”)

Gramsci, dalla Sardegna al Brasile

È in libreria il nuovo libro di Gianni Fresu, che indaga le ragioni della fortuna mondiale dell’ “uomo filosofo”. Nel Brasile di oggi il pensiero di Gramsci – spiega l’autore – è una risorsa analitica fondamentale.

 

Nel centenario del “biennio rosso” torinese, arriva in libreria Antonio Gramsci. L’uomo filosofo (AIPSA Ed.) dello studioso sardo Gianni Fresu che, dopo un dottorato di ricerca all’università di Urbino, è professore di filosofia politica in Brasile all’Universidade Federal de Uberlândia. Il titolo del libro richiama un tema fondamentale dei Quaderni gramsciani: «Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione de mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare». Sollecitati dalla lettura, proponiamo a Fresu di commentare alcuni aspetti della sua ricerca.

 

  1. L’espressione “ogni uomo è filosofo” implica la fondamentale certezza di quello che Gramsci nel Quaderno 7 definisce «sentimento» di «uguaglianza naturale cioè psico-fisica» di tutti gli esseri umani, poiché «tutti nascono allo stesso modo». Proposizione assolutamente rivoluzionaria, che prefigura trasformazioni sociali e politiche mai come oggi inattuali, eppure necessarie.

A mio parere, questa espressione sintetizza al meglio l’idea di emancipazione umana in Gramsci, intesa non solo come abolizione delle contraddizioni sociali che impediscono l’effettiva uguaglianza tra gli uomini, ma come sovvertimento della gerarchia che divide l’umanità in dirigenti e diretti, contrapponendo lavoro intellettuale e lavoro manuale. Questa frattura non ha nulla di naturale, ma è il frutto di un lungo processo di divisione e specializzazione del lavoro funzionale a determinati rapporti sociali di proprietà. Nel quaderno 22 Gramsci ci spiega come nel corso della storia l’uomo è plasmato in funzione delle esigenze produttive, la progressiva disumanizzazione del moderno lavoro industriale rende l’uomo una merce, una protesi della macchina. Ciò raggiunge il suo apice nell’organizzazione taylorista che si pone l’obiettivo di trasformare l’uomo in un “gorilla ammaestrato”, eliminando qualsiasi forma di partecipazione attiva e creativa del lavoratore nel processo produttivo. Tuttavia, secondo Gramsci, nonostante l’alienazione del lavoro trasformi il produttore in uno schiavo del prodotto, quest’operazione non arriva a creare una “seconda natura umana”.  Ossia, nella dialettica tra il gorilla ammaestrato e l’uomo filosofo è quest’ultimo a prevalere. La natura umana è per Gramsci intellettuale, ogni individuo contribuisce a rafforzare o mettere in discussione determinate visioni del mondo, a prescindere dalla natura della sua attività lavorativa. Il problema non è se i “semplici” possono essere considerati esseri intellettuali, ma il fatto che la loro visione del mondo è resa episodica e frammentaria da un insieme di fattori: l’egemonia culturale delle classi dirigenti; la sopravvivenza di concezioni arcaiche e superstiziose nella cultura popolare; il condizionamento dell’ambiente sociale in cui nasciamo. Dunque, il problema è liberare i semplici da questo congiunto di eterodirezioni che impediscono la soggettività autonoma, l’indipendenza e l’autosufficienza delle masse popolari. Per questo Gramsci ricorre all’idea soreliana dello “spirito di scissione”, vale a dire, un processo di autodeterminazione materiale e spirituale dei subalterni capace di condurli alla elaborazione di una propria visione del mondo critica e coerente auto-emancipatasi dalla direzione delle classi dominanti. Nel Quaderno 11 egli scrive: «Occorre distruggere il pregiudizio molto diffuso che la filosofia sia alcunché di molto difficile per il fatto che essa è l’attività intellettuale propria di una determinata categoria di scienziati specialisti o di filosofi professionali sistematici». Presentare il sapere, la filosofia, la politica come materie troppo complicate e inaccessibili per i semplici ha per Gramsci una funzione operativa ben definita: porre l’esigenza inderogabile di una casta incaricata di amministrare le funzioni intellettuali, in tutte le sue dimensioni, capace di rendere invalicabile il confine tra lavoro manuale e intellettuale, fino a rendere insuperabile la condizione di subalternità delle masse popolari. Per tutte queste ragioni Gramsci elabora l’idea dell’intellettuale organico e pensa alla produzione come nuova sede di sovranità politica, per queste ragioni nella sua visione il “moderno Principe” (il partito politico dei lavoratori) non deve essere un organo esterno alla classe diretto da specialisti della politica (da intellettuali puri, magari di origine borghese). Il partito deve essere parte di quella classe, non deve semplicemente rappresentarla, ma essere composto o diretto dai suoi membri. La conquista di una coscienza critica che trasformi i gruppi subalterni in soggetto storico consapevole di sé è per Gramsci possibile solo attraverso il sovvertimento dei “vecchi schemi naturalistici” dell’arte politica, con l’abbandono completo di un modo dualistico di intendere il rapporto tra direzione politica e masse.

 

  1. Il giovane rivoluzionario, il dirigente politico, il teorico: la partizione del libro rinvia a tre fasi della vita di Gramsci, inserendole allo stesso tempo in un quadro di profonda continuità di cui alcuni temi, come la cultura proletaria, costituiscono il filo conduttore di fondo.

Esattamente. Per me, anzitutto, il filo rosso esiste un filo rosso che unisce le tre fasi della vita di Gramsci: l’esperienza del movimento consiliare e valorizzazione del Consiglio di fabbrica come organo di autogoverno e autoeducazione della classe operaia; la lotta interna al PCd’I tra il 1923  e il 1926 con particolare riferimento al ruolo del partito nella società, al rapporto di questo con le masse; l’indagine  sulle «proporzioni definite» che presiedono agli assetti di dominio della società italiana e il ruolo svolto in essa da quegli intellettuali che ne costituiscono la «chiave di volta» nelle Tesi del Congresso di Lione, nella Questione meridionale e nei Quaderni. All’interno di questa tematica trova una trattazione centrale anche il fenomeno dell’assorbimento da parte dello Stato e delle classi dominanti, di intellettuali e dirigenti del movimento operaio nelle fasi di «svolta storica».

Al fondo di tutti questi troviamo il problema dell’utilizzo strumentale dei “semplici”, il fatto che le masse popolari siano condannate al ruolo di “carne da cannone”, materiale grezzo a disposizione delle classi dirigenti, “massa di manovra” al servizio degli “ufficiali” tanto nella politica quanto nelle trincee della Prima guerra mondiale. Un problema che per l’intellettuale sardo riguardava non solo la società borghese, ma anche le stesse organizzazioni sociali e politiche dei lavoratori, nelle quali le vecchie regole dell’arte politica (la frattura tra dirigenti e diretti, tra intellettuali e masse) erano operative più che mai, riproducendo le sue norme bonapartistiche di direzione unilaterale dei primi sui secondi anche nelle organizzazioni che avrebbero dovuto rappresentare la negazione del mondo esistente. Nel movimento che intendeva superare le contraddizioni della società borghese l’elaborazione e la direzione non potevano essere semplicemente l’applicazione fideistica o militaresca dell’intuizione intellettuali dei capi, esse dovevano essere il risultato di un processo orizzontale e collegiale di autodeterminazione dei lavoratori. Non casualmente Gramsci chiama questo partito “intellettuale collettivo” contrapponendolo, al cadornismo che, a prescindere dalle differenze ideologiche, accomunava la concezione politica di “intellettuali puri” come Benedetto Croce e Amadeo Bordiga. In un articolo del 27 dicembre 1919, intitolato Il Partito e la rivoluzione Gramsci esprime in forma efficace e suggestiva tutto questo utilizzando la metafora della barriera corallina: «Il Partito, come formazione compatta e militante di un’idea, influenza questo intimo lavorio di nuove strutture, questa operosità di milioni e milioni di infusori sociali che preparano i rossi banchi coralliferi che un giorno non lontano, affiorando, spezzeranno gli impeti della burrasca oceanica, ricondurranno la pace nelle onde, fisseranno nuovamente un equilibrio nelle correnti e nei climi; ma questo influsso è organico, è nel circolare delle idee, è nel mantenersi intatto l’apparecchio di governo spirituale, è nel fatto che i milioni e milioni di lavoratori fondando le nuove gerarchie, istituendo gli ordini nuovi…»

 

  1. La maturazione teorica degli anni 1925-1926, con l’originale visione della questione meridionale arricchita alla luce dell’esperienza sarda, costituisce la chiave di volta tra la ricerca sul campo, svolta durante il biennio rosso e l’esperienza russa, e la rielaborazione degli anni del carcere.

Tra il 1925 e il ’26 Gramsci compie un salto qualitativo arrivando a elaborare alcune delle sue categorie più significative, caratterizzanti e oggi studiate. Ciò avviene con la redazione delle Tesi di Lione e La questione meridionale. Il periodo dall’estate del 1925 al Congresso del gennaio 1926 è cruciale per l’evoluzione del pensiero di Gramsci, in relazione al partito, al suo rapporto con le masse, alla funzione svolta in esso dagli intellettuali; un periodo nel quale giungono a completa maturazione le esperienze di direzione e orientamento politico compiute a partire dal 1923. Una fase nella quale la sua analisi si sviluppa fino a indagare in profondità il ruolo svolto nella società italiana dagli intellettuali, quale tessuto connettivo degli assetti sociali dominanti. Già in queste analisi è presente quella ridefinizione del concetto di Stato e di dominio anticipatrice della categoria egemonica. Le riflessioni di Gramsci in questa fase sono la base essenziale della teoria sugli intellettuali sviluppata poi all’interno della Questione meridionale e delle riflessioni del carcere.  Al contempo, essa è il punto d’arrivo di quella precedente e, nel complesso, affonda potentemente le sue radici nell’esperienza «ordinovista». Il tema della questione meridionale è sistematicamente presente in tutta l’elaborazione politica e nell’analisi della società italiana di Gramsci, come snodo attorno al quale si riassumono le contraddizioni del processo di unificazione nazionale e le modalità distorte di sviluppo economico e sociale del Paese. Approfondendo tutto ciò, attraverso una elaborazione durata anni, Gramsci giunge a definire alcune delle sue categorie più importanti e studiate a livello internazionale utilizzate, come egemonia, intellettuali e gruppi subalterni, ritenute essenziali per decifrare le relazioni internazionali di dominio coloniale. Già in un articolo dell’aprile 1916 Gramsci trova nella Questione meridionale un incrocio di contraddizioni paradigmatiche dei limiti nel processo di unificazione nazionale, tra di essi, la scelta di adottare un modello centralistico secondo lui profondamente diverso dalle previsioni e dal programma economico di Cavour. Dopo più di mille anni venivano riunificati due tronconi della penisola che avevano vissuto uno sviluppo storico, economico e anche istituzionale completamente differente, “l’accentramento bestiale” concepì il Sud come mercato coloniale interno del Nord, confondendo o ignorando le reali esigenze del Mezzogiorno. L’unica alternativa fu dunque negli esodi biblici della emigrazione di massa, mentre la reazione a questo stato di cose si manifestò nelle forme episodiche e disorganiche del ribellismo contadino o del brigantaggio. Il protezionismo per Gramsci era lo strumento con cui venne resa organica e strutturale la questione meridionale, non a caso già nel 1913 il giovanissimo Gramsci aderì alla Lega antiprotezionista sarda di Attilio Deffenu, una figura che influenzò molto il giovane Gramsci, eppure ancora poco approfondita tra i suoi studiosi. Il protezionismo era la moneta di scambio del blocco storico che univa la borghesia industriale del Nord e i ceti parassitaria della proprietà terriera meridionale, di cui le sterminate plebi meridionali pagarono il conto.

Sebbene innegabile, sarebbe un errore considerare la centralità della questione contadina in Gramsci solo alla luce dell’influenza esercitata da Lenin, essa affonda le sue radici ben prima nella formazione sarda, nell’insieme delle esperienze di vita e dall’osservazione attenta del suo mondo. All’interno della questione meridionale, distinta e con le sue specificità assolute, Gramsci inserisce la questione sarda, che in realtà la precede anticipandone alcuni tratti salienti, in termini di relazioni diseguali all’interno di un corpo che si pretende unito. La dinamica analizzata da Gramsci per il Meridione nel suo complesso trova un’anticipazione, una prova generale, proprio nel processo di fusione della Sardegna con il Piemonte, nelle modalità di assorbimento delle sue classi dirigenti in un blocco moderato segnato sul piano sociale dalle forme classiche dell’«equilibrio passivo». Nella prima metà dell’Ottocento, come spiego diffusamente nel volume e anche in un altro mio lavoro di alcuni anni fa (La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, Cuec), in Sardegna abbiamo un’anticipazione di alcuni tratti essenziali nelle forme di egemonia e dominio dei governi sabaudi che finiranno per contraddistinguere anche la successiva presa di possesso delle regioni meridionali dopo l’Unità.

 

  1. L’eredità della rivoluzione d’Ottobre con la mai rinnegata adesione al marxismo, sviluppata come ha ben chiarito Marcello Mustè alla luce dello spartiacque della filosofia della praxis, ha conferito una fisionomia assolutamente originale al materialismo italiano, e in particolare a quello gramsciano.

Attorno al legato di Lenin e della Rivoluzione d’Ottobre si sviluppano le più dure dialettiche interpretative dell’opera di Antonio Gramsci. La mia opinione è che la figura di Lenin rimane centrale fino alla fine nelle sue riflessioni teoriche, con questo non intendo assolutamente ridurre Gramsci a replicante o semplice prosecutore dell’opera del rivoluzionario russo. Come spiego nel libro, tra le pagine dei Quaderni del carcere e negli abusatissimi concetti di “egemonia” e “guerra di posizione”, sono state ricercate le prove di questa frattura per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità assoluta, con il “demone del Novecento”. Eppure, nei Quaderni non mancano i riferimenti al Lenin “teorico dell’egemonia”, né note nelle quali Gramsci lo definisce il principale innovatore e prosecutore del materialismo storico dopo Marx. Contrariamente alle interpretazioni a favore della discontinuità, nei Quaderni la relazione tra il filosofo di Treviri e Lenin è descritta come la sintesi di un processo di evoluzione intellettuale che si esprime nel passaggio dall’utopia alla scienza e dalla scienza all’azione.

La biografia politica di Gramsci tra il 1921 e il 1926 è segnata dal drammatico fallimento dei tentativi rivoluzionari in Occidente e dall’aprirsi di una fase di riflusso che facilità una radicale svolta reazionaria culminata con l’avvento del fascismo. Dunque, la principale domanda al fondo dei Quaderni del carcere è per quale ragione, nonostante una profonda crisi economica e di egemonia delle classi dirigenti, e un contesto oggettivamente rivoluzionario, in Occidente non fu possibile tradurre la vittoriosa esperienza dei bolscevichi russi.

L’approccio a Lenin da parte di Antonio Gramsci va inquadrato anzitutto in un clima culturale nuovo e in una fase di svolta storica per il movimento operaio, manifestatasi nel giovane intellettuale sardo proprio con il rigetto della cultura determinista e positivista che aveva profondamente pervaso il socialismo italiano. Nelle diverse fasi della sua attività analitica e politica, Gramsci ha sempre individuato nell’impostazione filosoficamente angusta data dai teorici della Seconda Internazionale al movimento socialista mondiale, uno dei limiti che maggiormente ha influito sulle stesse deficienze socialismo italiano. La rivoluzione dell’ottobre 1917, e in essa il ruolo del suo principale leader, s’impone per Gramsci nella storia, spazzando via le ossificazioni dogmatiche del determinismo, l’assurda pretesa di mischiare Marx con Darwin e applicare alle scienze sociali, ai processi storici, gli schemi evoluzionistici delle scienze naturali. L’idea di una linearità storica in ragione della quale si sarebbe passati dal modo sociale di produzione feudale a quello capitalistico e, solo dopo questo, al socialismo, come nell’evoluzione naturale si passa dalla scimmia all’uomo, per contraddizioni tutte interne alle leggi dell’economia, non per l’intervento attivo e consapevole delle grandi masse popolari. In tal senso il celebre articolo La rivoluzione contro il capitale del dicembre 1917, coglie con sorprendente lucidità il dato saliente del primo “assalto al cielo” del Novecento. Questo articolo, spesso definito ingenuo, idealista, rappresentativo di un Gramsci ancora «troppo acerbo», costituisce per molti versi un manifesto della concezione gramsciana sulla rivoluzione.

 

  1. «Così la lotta politica diventa una serie di fatti personali tra chi la sa lunga, avendo il diavolo nell’ampolla, e chi è preso in giro dai propri dirigenti e non vuole convincersene per la sua inguaribile buaggine». L’esergo del libro è ancora attuale dall’Italia al Brasile, dove da poco lei è stato eletto presidente dell’International Gramsci Society do Brasil. Nel degrado della politica mondiale, dominata dal neoliberismo e dalla censura alla ricerca, imposta anche da Bolsonaro, come diffondere tra i giovani il valore dell’internazionalismo di Gramsci?

Il maggior studioso e traduttore di Gramsci in Brasile, Carlos Nelson Coutinho, ha scritto che la grande diffusione internazionale di Gramsci e la sua importanza per diverse discipline nel campo delle scienze umane e sociali sono una conferma circa la correttezza della definizione di “classico” in riferimento alla sua opera. Tuttavia, se per opere come il Principe di Machiavelli o il Leviatano di Thomas Hobbes si può parlare di “classici” che mantengono forti tratti di attualità, nel senso di offrire spunti di analisi utili alla contemporaneità, l’opera di Gramsci è attuale nel senso che egli è stato interprete di un mondo che, nella sua essenza, continua a essere il nostro mondo di oggi. Una delle ragioni dell’interesse scientifico verso Antonio Gramsci, cresciuto enormemente a livello internazionale negli ultimi anni, riguarda l’attenzione riservata dai suoi studi al momento della direzione culturale nella definizione degli assetti di potere di una società moderna. Nella realtà contemporanea, segnata dall’onnipresenza dei mezzi di comunicazione di massa e da nuovi veicoli di diffusione delle informazioni (internet e socialnetwork) ancora più invasivi di quelli tradizionali, l’importanza degli organismi incaricati di formare l’opinione pubblica (anzitutto i grandi mezzi di comunicazione di massa) è un fatto assodato. Al di là delle campagne elettorali, che si servono sempre più di strumenti virtuali (WhatsApp, Facebook, Twitter), la lotta senza quartiere tra i soggetti in campo per influenzare l’opinione pubblica e determinarne gli orientamenti costituisce oggi una delle più importanti sfide della politica. Gramsci ha il merito storico di aver chiarito tra i primi, con profondità e continuità, quanto la centralizzazione politica e i rapporti di forza di una società moderna e sviluppata si determinano più sul piano egemonico (apparati privati della società civile) di quanto non avvenga nella dimensione tradizionale del dominio diretto dello Stato (diritto, esercito, magistratura)..

Nel Brasile di oggi, in una particolare congiuntura segnata dal riflusso democratico e da una violenta offensiva reazionaria nel quale l’intreccio tra vecchio e nuovo produce fenomeni a volte bizzarri, il pensiero di Gramsci è una risorsa analitica fondamentale. Proprio per questo, al di là del pensiero critico in generale e del materialismo storico in particolare, la destra al potere ha eletto l’intellettuale sardo a simbolo di una egemonia diabolica da estirpare con qualsiasi mezzo.

Come sappiamo, la biografia di Antonio Gramsci è segnata dal dramma della dittatura, non solo per la carcerazione che lo portò alla morte, ma perché il crollo delle istituzioni liberali e del movimento operaio lo spinsero a indagare le ragioni più profonde di quella sconfitta e le origini storiche del fascismo. Da questo travaglio nasce un’opera intimamente problematica e complessa come i Quaderni del carcere. Anche in questa premessa stanno probabilmente le ragioni del successo di Gramsci in Brasile, perché la diffusione crescente della sua opera si lega strettamente anche al dramma del colpo di Stato militare del 1964, destinato a durare come in Italia venti lunghi anni. Poco dopo il Golpe tre giovani intellettuali destinati a un ruolo importante, Carlos Nelson Coutinho, Luiz Mario Gazzaneo e Leandro Konder, dibatterono a Rio sulla necessità di tradurre e pubblicare Gramsci, nella stessa direzione si muoveva l’editore della rivista «Civilização Brasileira», già intenzionato a intraprendere la non facile avventura. Così, nel 1966, iniziò la traduzione e pubblicazione della sua opera, bruscamente bloccata nel 1968 dal decreto liberticida AI5, responsabile del terrore repressivo che eliminò ogni dissenso e travolse più di una generazione nel vortice di sparizioni, omicidi, torture o, nella migliore delle ipotesi, l’esilio. Ma come il Tribunale speciale fascista non riuscì a “impedire al cervello di Gramsci di lavorare per venti anni”, così la dittatura brasiliana non poté sradicare l’interesse crescente nei suoi confronti. Al contrario, divenne per diverse generazioni uno stimolo di resistenza intellettuale alla brutalità del regime e, insieme, una chiave di lettura per decifrare i processi di modernizzazione nazionali e comprenderne razionalmente la storia politica, economica e culturale. Così negli anni Settanta, alle prime avvisaglie di crisi della dittatura, Gramsci tornò prepotentemente nel dibattito politico come punto di riferimento per le lotte contro il regime e, attorno al suo pensiero, si sviluppò un’intensa attività scientifica e didattica nelle diverse università brasiliane, da allora mai interrottasi.

La diffusione internazionale delle categorie gramsciane scaturisce da esigenze di comprensione della realtà concrete. Non si tratta dunque di uno studio per puro erudimento, bensì di un utilizzo consapevole, finalizzato a comprendere e dare risposte ad alcune contraddizioni storiche fondamentali nella vita culturale, sociale e politica di diversi Paesi. Ciò vale particolarmente per il Brasile, dove l’opera di Gramsci è studiata sistematicamente da oramai cinque decenni nelle più diverse discipline scientifiche: storia, filosofia politica, antropologia, critica letteraria, pedagogia, teologia, scienze sociali. L’esigenza di dare carne e ossa alle categorie concettuali, ossia tradurle nazionalmente, è del tutto coerente con lo spirito dell’opera di Gramsci e con la sua aspirazione a evitare l’astrattezza e la genericità delle affermazioni ideologiche. Il Brasile di oggi costituisce uno dei laboratori più attivi e stimolanti nel panorama internazionale degli studi gramsciani, da questo punto di vista il Brasile non è periferia ma punta avanzata. L’intellettuale sardo è oggi uno degli autori fondamentali in Brasile, come nel resto dell’America Latina, non solo nell’accademia, ma nella lotta politica e nella vita di realtà sociali come il Movimento Trabalhadores Sem Terra. Alcune sue categorie come «rivoluzione passiva», «egemonia» e «sovversivismo reazionario delle classi dirigenti», hanno trovato un’applicazione analitica sorprendente in una realtà storicamente dominata da processi di modernizzazione dall’alto – con ricorrenti sospensioni delle libertà costituzionali e colpi di Stato autoritari – come quella brasiliana. Le analisi contenute nella Questione meridionale e nei Quaderni sui rapporti di sfruttamento semicoloniale tra Nord e Sud nella storia d’Italia, quelle sui subalterni e la funzione degli intellettuali negli assetti di dominio ed egemonia, sono utilizzate per rileggere le vicende della sua storia coloniale e comprendere le grandi contraddizioni sociali e culturali ancora oggi presenti in questo Paese.

 

L’intervista è stata pubblicata in versione sintetica su Left del 15 novembre 2019.

 

Processate Gramsci!

Processate Gramsci!
Di Gianni Fresu

Ci risiamo, sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo alla storia del partito comunista italiano. La bibliografia tesa a presentare un Gramsci tormentato e proteso verso un approdo liberale, al limite socialdemocratico, è ampia e, sebbene di scadentissimo valore scientifico, molto apprezzata. A questa si aggiungono altre tesi strampalate, sempre di taglio scandalistico e mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile, particolarmente ambite dalle “grandi” testate giornalistiche italiane e dai programmi televisivi di divulgazione storica. Per sommi capi le richiamo:
1)Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di Gramsci) agenti del KGB assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3) Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di morte dell’intellettuale sardo (attendiamo con trepida attesa le prossime rivelazioni sul Gramsci devoto di padre Pio).
Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano sulla rilettura forzata (ovviamente mai provata) di carteggi necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive non suffragate da alcun dato documentale; su letture banali e parziali degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di documenti d’archivio.
Tutti ricordiamo la famosa lettera di Torgliatti sugli alpini prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro da uno storico imbroglione (nel senso che è entrato nella storia degli imbroglioni) come Franco Andreucci. Vi ricordate «il divino Hegel» e Achille Occhetto dichiaratosi da subito «agghiacciato» per le sconcertanti rivelazioni, senza neanche attendere la verifica della loro veridicità? Su questa colossale patacca, degna della banda dei “soliti ignoti”, furono riempite le pagine dei giornali (si propose persino di modificare tutta la toponomastica nazionale per cancellare il nome di Togliatti da vie e piazze), i dibattiti politici, i palinsesti televisivi. Ovviamente, una volta appurata la grossolana falsificazione, alla rettifica non fu dato altrettanto spazio. Bene, a questo filone possiamo ascrivere le ultime due fatiche del revisionismo nostrano, ovviamente già celebrate dai maggiori quotidiani nazionali e dai loro “intellettuali” di punta, pubblicate recetemente: I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, 2012) di Franco Lo Piparo e Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino, 2012) di Alessandro Orsini che tanto ha entusiasmato il re delle anime belle Saviano da spingerlo a scrivere un Elogio dei riformisti per «La Repubblica». Nel primo caso abbiamo l’ennesimo tentativo, sempre debolissimo sul piano delle fonti, di presentare Gramsci come un recluso nelle carceri del PCI e del PCUS, non in quelle del regime fascista, costretto in una cella le cui chiavi erano in mano a Togliatti e non a Mussolini. Oltre a questo, nel saggio di Lo Piparo si cerca nuovamente (senza alcuna novità rispetto al passato) di usare strumentalmente alcune pagine dei Quaderni, omettendone volutamente altre, per dimostrare con queste l’abbandono del leninismo e la svolta liberale di Antonio Gramsci. Sul primo tentativo non vale neanche la pena di perder troppo tempo, si tratta della solita costruzione priva di basi, condita però da una fervida e interessatissima fantasia (non molto più attendibile sul piano scientifico del Codice da Vinci di Dan Brown), per quanto riguarda il secondo, invece, ci troviamo di fronte ad un nuovo saggio scritto dopo una lettura creativa dei Quaderni con la consolidata tecnica “una pagina sì e una pagina no”. All’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica di Antonio Gramsci, nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive al 1926, così come quella impegnata a distinguere il politico dal «pensatore disinteressato». Tale tendenza, mossa più da esigenze politiche che da una reale necessità scientifica, si è rivelata sempre, e anche in questo caso, priva di qualsiasi rigore filologico. Eugenio Garin ha scritto che «Gramsci non intendeva fare opera di ricercatore erudito: la sua concezione del pensatore e dello storico lo impegnava in una situazione concreta, a scelte reali» . Gramsci era un politico e non un filosofo – e con ciò intendeva dire che era un filosofo e uno storico serio e non un professore – dunque «non si preoccupò di raccogliere in candidi mazzolini temi incontaminati perché a tutti estranei, ma combattè sul terreno reale, nella situazione reale»[1]. In Gramsci la lettura analitica si intreccia strettamente alla battaglia politica e la distinzione sulle due fasi può essere riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della prima e nella maggiore libertà analitica, appunto «für ewig», delle riflessioni carcerarie, tuttavia, tra le due la continuità concettuale è evidente e documentabile. Negli ultimi trent’anni, invece, lo sport più diffuso tra molti gramsciologi di professione è stato epurare l’opera di Gramsci dai legami con l’esperienza del leninismo e della III Internazionale. Tra le pagine dei Quaderni del carcere e negli abusatissimi concetti di «egemonia» e «guerra di posizione», sono state ricercate le prove di questa frattura per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità assoluta, con il «demone del novecento». A tal fine, queste riletture evitano accuratamente di fare i conti con le pagine nelle quali Gramsci studia e valorizza al massimo Ilici come un teorico dell’egemonia[2]. Lenin non è un rivoluzionario idealista scontratosi con l’immodificabilità dell’ordine naturale delle cose, dunque sconfitto, ma colui che Gramsci ha definito nei Quaderni il protagonista di una «egemonia realizzata», ovverosia, «la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica», e questo è forse il boccone più amaro da digerire per tutti gli intellettuali arruolati nella battaglia per la difesa dello stato di cose esistenti.
Lo Piparo fa di tutto per non leggere le pagine dei Quaderni dedicate a Lenin, ma si dimostra ancora più spregiudicato nel definire i Quaderni «un opera di profilo crociano», una sorta di «ripensamento filosofico» di Gramsci nella sua transizione dal comunismo al liberalismo. Così, la tendenza a leggere una pagina sì e una no, lo porta a mille acrobazie per non fare i conti con le note dove Gramsci riconosce sicuramente a Croce una grandissima statura intellettuale, e degli indubbi meriti filosofici, ma al contempo ne contesta radicalmente il profilo sociale e politico, mettendo persino in dubbio la buona fede del filosofo liberale. Se Lenin è per Gramsci il protagonista di una «egemonia realizzata», a sua volta Benedetto Croce è il massimo studioso dell’egemonia nella filosofia italiana. L’opera di Croce ha cioè il merito di aver indirizzato l’interesse scientifico verso lo studio degli elementi culturali e filosofici come parte integrante degli assetti di dominio di una società, da ciò consegue la comprensione della funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati nella costruzione dell’egemonia e del consenso, vale a dire del «blocco storico concreto». Nella concezione di «storia etico-politica», Benedetto Croce costruisce la storia del momento dell’egemonia. Nella storiografia crociana la giustapposizione dei termini etica e politica sta indicare due termini essenziali della direzione e del dominio politico: nel primo caso (etica) il riferimento è all’egemonia, all’attività della società civile; nel secondo caso (politica) il riferimento è all’iniziativa statale-governativa, alla dimensione istituzionale e coercitiva. «Quando c’è contrasto tra etica e politica, tra esigenze della libertà ed esigenze della forza, tra società civile e Stato-governo c’è crisi e il Croce giunge ad affermare che il vero Stato, cioè la forza direttiva dell’impulso storico, occorre cercarlo non là dove si crederebbe»[3] , al punto che, per quanto possa apparire paradossale, in determinati frangenti la direzione politica e morale del paese può essere esercitata anche da un partito rivoluzionario e non dal governo legale.
A queste considerazioni, tuttavia, Gramsci ne aggiunge altre, che Lo Piparo accuratamente evita di analizzare. Il limite maggiore di Croce consiste nel ritenere che il marxismo non riconosca il momento dell’egemonia e non dia importanza alla direzione culturale. Nella sua giustificata reazione al meccanicismo positivista e al determinismo economico Croce confonderebbe il materialismo storico con la sua forma volgarizzata. Al contrario, per la filosofia della praxis le ideologie non hanno nulla di arbitrario, ma sono strumenti di direzione politica. Per la massa dei governati esse sono strumenti di dominio attraverso la mistificazione e l’illusione, per le classi dirigenti un «inganno voluto e consapevole». Nel rapporto tra i due livelli emerge la funzione essenziale della lotta egemonica nella società civile e la natura non arbitraria delle ideologie:
esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti , per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. (…) Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà oggettiva ed operante [4] .
Del resto è nel terreno delle ideologie, della cosiddetta superstruttura, che gli uomini prendono coscienza del loro essere sociale ed avviene il cosiddetto passaggio dalla «classe in sé» alla «classe per sé», dunque per il materialismo storico tra struttura e superstruttura (tra economia e ideologie) esiste un nesso necessario e vitale, in ragione del quale si può parlare di movimento tendenziale del primo verso il secondo, la qual cosa non esclude un rapporto di reciprocità tra i due termini e comunque la funzione tutt’altro che secondaria delle superstrutture. Ma Gramsci non limita questa consapevolezza del materialismo storico all’opera dei due suoi fondatori, al contrario, gli sviluppi recenti della filosofia della praxis, il riferimento è a Lenin, pongono il momento dell’egemonia come essenziale della propria concezione statale e dell’opera di trasformazione dei rapporti sociali di produzione, valorizzano l’importanza dei fattori di direzione culturale, della creazione di un «fronte culturale», a fianco di quelli meramente economici e politici.
La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno delle ideologie deve essere considerata un’affermazione di carattere gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’approccio teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto filosofico[5].
Tra i paradigmi di storia etico-politica presenti nella Storia dell’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce, Gramsci individua un uso politico delle categorie come «strumento di governo», specchio fedele di quell’autorappresentazione della ideologia borghese che Marx definiva «falsa coscienza». Il limite maggiore della rappresentazione compiuta da Croce dell’età liberale, risiederebbe nel mantenere due livelli nettamente distinti (uno per gli intellettuali e uno per le grandi masse popolari) di ciò che s’intende per religione, filosofia, libertà. «La libertà come identità di storia e di spirito e la libertà come religione superstizione, come ideologia circostanziata, come strumento pratico di governo». La presupposta eticità dello Stato liberale si scontra cioè con la sua poca propensione espansiva-inclusiva.
[Croce] crede di trattare di una filosofia e tratta di una ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece descrive con grande acutezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e a far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio. (…) Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia o la religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile. E il gruppo dirigente non si propone forse di perpetuare questo stato di cose? Il Croce dovrebbe spiegare come mai la concezione del mondo della libertà non possa diventare elemento pedagogico nell’insegnamento delle scuole elementari e come egli stesso da ministro abbia introdotto nelle scuole elementari l’insegnamento della religione confessionale. Questa assenza di «espansività» nelle grandi masse è la testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente, della filosofia della libertà[6] .
Altro che Gramsci liberale, le note dei Quaderni analizzano la formidabile articolazione fortificata della società liberale, i suoi assetti di egemonia e dominio, rispetto alla cui complessità e resistenza invoca lo spirito di scissione delle classi subalterne:
Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana[7] .
Ma di tutto questo Lo Piparo, chissà perché, non tiene conto. Per quanto riguarda invece il saggio di Orsini, oggetto dell’entusiastica recensione di Roberto Saviano, ci troviamo di fronte a un’operazione ancora più banale: la comparazione tra alcune pagine degli articoli giovanili più polemici e immediatamente legati alla quotidiana lotta politica di Gramsci e quelli più «aulici» e riflessivi di Filippo Turati. Un capolavoro che non merita neppure troppa attenzione, mentre qualche parola è giusto spenderla per le «disinteressate» riflessioni di Saviano, capace di sintetizzare l’obiettivo politico del lavoro di Orsini senza neanche un tantino di pudore:
Alessandro Orsini ci presenta due anime della sinistra storica italiana (esemplificate in Gramsci e Turati) e ci mostra come, nel tempo, una abbia avuto il sopravvento sull’altra. L’idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: “La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato”. Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all’insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute: “Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio”. Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato [8].
Saviano forse dimentica, non sa, o magari non vuol ricordare, che a esaltare e salutare positivamente non un cazzotto, ma la «pioggia di pugni» riservati dal nascente movimento fascista verso il sovversivismo di operai e contadini riottosi fu il campione del liberalismo italiano per eccellenza, Benedetto Croce. Come sempre di Croce, come di Turati, non si ricordano affermazioni e posizioni di questo tipo ma solo le grandi petizioni di principio su libertà, democrazia, rispetto della diversità. Ovviamente, passano in cavalleria tante cose, compreso il sostegno del mondo liberale al partito fascista nella fase precedente e successiva all’ascesa al potere di Mussolini. Non sarebbe male ricordare che un manipolo di deputati fascisti potè entrare nel 1921 in Parlamento grazie alla cortese ospitalità delle liste elettorali di Giolitti. Tuttavia, è bene riconoscerlo, Saviano si è impegnato tantissimo per scrivere questa recensione, purtroppo il risultato non è all’altezza delle aspettative dei committenti:
Il politicamente corretto non era stato ancora inventato. Eppure, in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo: “Tutte le opinioni meritano di essere rispettate. La violenza, l’insulto e l’intolleranza rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto all’eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste la libertà”. Orsini raccoglie e analizza brani, scritti, testimonianze, che mostrano come quel vizio d’origine abbia influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come l’eredità peggiore della pedagogia dell’intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista sopravviva ancora[9].
Saviano si serve di questo libro, pazienza se passeggia sull’opera e la biografia di Gramsci senza aver mai letto la prima e conosciuto minimamente la seconda, per giungere alle sue conclusioni: la peggiore tradizione della «pedagogia dell’intolleranza» sta fuori dal Parlamento, nell’«estremismo massimalista» di quei movimenti che sono pronti a difendere i crimini delle peggiori dittature di qualsiasi regime antiamericano. Saviano accusa i comunisti di amare Cuba senza rispondere dei «crimini» del regime castrista e la cosa fa veramente sorridere perché a fare queste affermazioni è lo stesso individuo che esalta Israele, lo Stato protagonista del più alto numero di violazioni delle risoluzioni ONU nella storia, in barba ai più elementari diritti del popolo palestinese da esso violentemente calpestati (altro che «l’elogio del cazzotto»!). Saviano accusa gli «extraparlamentari» di avere la «verità unica» tra le mani, di essere «seguaci dell’unica idea possibile di libertà», al contrario per noi è lui a «vivere di dogmi», a essere ostaggio del «fondamentalismo democratico», «uno dei retaggi più disgustosi della propaganda profusa al tempo della guerra fredda». Esso «indica l’arrogante uso di una parola (democrazia) che nel suo attuale esito racchiude e copre il contrario di ciò che esprime; e, insieme, l’intolleranza verso ogni altra forma di organizzazione politica che non sia il parlamentarismo, la compravendita del voto, il mercato politico»[10] . È sconcertante la serie di luoghi comuni e rappresentazioni manichee della realtà in cui si lancia Fra-Saviano, senza supportare storicamente nessuna delle sue affermazioni. Cito testualmente, senza alcuna interpretazione soggettiva: «i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori» mentre «nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è un bene perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria, è il famigerato tanto peggio tanto meglio». Per Saviano i riformisti sono «realisti e tolleranti», mentre i comunisti sono per la «società perfetta», dunque utopistici e intolleranti. Messaggio finale del sermone: riformismo buono, comunismo cattivo; liberalismo bello, anticapitalismo brutto! “Pensierini”, talmente elementari e semplificanti da essere degni della miglior produzione del Comitato per le attività anti-americane del senatore Joseph McCarthy. Come dicevo sopra, è sconcertante il ragionamento di Saviano e lo è in misura tanto maggiore quanto più si tiene conto del contesto presente, segnato drammaticamente dalla crisi strutturale non dell’anticapitalismo, ma di un sistema contraddistinto da scompensi economico-sociali sempre più macroscopici, da prevaricazioni senza limiti sia nel rapporto tra capitale e lavoro (all’interno delle potenze capitalistiche), sia nelle violente forme di dominio delle nazioni ricche su quelle povere. Come ha scritto in passato Losurdo, buona parte della pubblicistica anticomunista basa le sue supposizioni sul sofisma di Talmon, «i fatti e i misfatti del comunismo vengono messi a confronto non con i comportamenti reali del mondo che esso vuole mettere in discussione, ma con le dichiarazioni di principio del liberalismo, rispetto alle quali la vicenda iniziata con la rivoluzione bolscevica appare in tutta la sua abiezione»[11] . Da una parte si parla dei Gulag, della dittatura e delle violazioni della libertà, identificando tutto questo con il marxismo, dall’altra si usano le parole più infiocchettate di Tocqueville, John Locke, Adamo Smith per descrivere il liberalismo tacendo guerre, colonialismo, miseria e sfruttamento da esso generate. Nella lettura apocalittica sul Novecento e nella sua completa trasfigurazione, il revisionismo storico ha costantemente tentato di demolire l’empia progenie del socialismo, imputando a Marx e discepoli tutto il carico di lutti e orrori propri di un secolo insanguinato, fascismi compresi, che non sarebbero figli legittimi dell’ideologia borghese, con tutto il suo carico di tradizione coloniale prima e imperialistica poi, ma un prodotto (autocefalo e tutto sommato salutare) della reazione al bolscevismo. Il fascismo, nei suoi riferimenti ideali, nel suo affermarsi, nelle sue pratiche, fa parte a pieno titolo dell’album di famiglia della borghesia, è espressione organica dei suoi rapporti sociali di produzione, ciò nonostante il revisionismo storico tende a presentare l’orrore del Ventesimo secolo come un qualcosa che irrompe improvvisamente su un mondo di pacifica convivenza. Orrore estraneo alla tradizione della civiltà liberale e alla società borghese. Questa tendenza alla rimozione, mascherare ogni atrocità con i grandi principi della civiltà liberale [12] rientra appieno nell’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti di cui parlava Gramsci. Nella sua banale brutalità, l’articolo di Saviano è a suo modo emblematico dello schieramento di forze mobilitato in difesa del capitalismo agonizzante e di quanto sia però, al contempo, decadente questo estremo tentativo di autodifesa. Se un tempo il liberalismo in crisi poteva avvalersi della difesa d’ufficio di figure come Benedetto Croce oggi si fa scudo con le frasi fatte e ampollose di intellettuali come Roberto Saviano, cos’altro possiamo aggiungere a questo? Antonio Gramsci ha subito da vivo e da morto un’infinità di processi, forse, a differenza di Berlusconi, i reati a lui attribuiti dal bel mondo liberale non cadono mai in prescrizione. Se nel primo processo l’auspicio era «impedire a questa testa di funzionare», nell’ultimo della serie l’imperativo punitivo potrebbe essere “impedire l’utilizzo delle sue idee”, delegittimarle, renderle contraddittorie, anticaglia inservibile. Non ci riuscirono la prima volta, ne siamo sicuri, non ci riusciranno nemmeno adesso.

29 febbraio 2012

 

note

[1] E. Garin, Con Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1997, pag. 48

[2] Per ragioni di spazio non mi posso dilungare oltre e rimando a quanto da me scritto altrove: G. Fresu, Lenin lettore di Marx. Determinismo e dialettica nel movimento operaio, La Città del Sole, Napoli, 2008.

[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 1302.

[4] Ivi, pag. 1319.

[5] Ivi, pp. 1249-1250.

[6] Ivi, pp. 1231, 1232.

[7] Ivi, pag. 333.

[8] R. Saviano, Elogio dei riformisti, «La Repubblica», 28 febbraio 2012.

[9] Ibid.

[10] L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Bari, 2002, pag. 17.

[11] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Bari, 1998, pag. 55.

[12] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005, Bari.

 

Gramsci, dal congresso di Lione ai Quaderni: il partito e l’analisi della società italiana.

Gianni Fresu
Gramsci, dal congresso di Lione ai Quaderni: il partito e l’analisi della società italiana.

Convegno di studi
(1921- 2011) Nodi strategici, continuità e svolte nella storia del PCI
Roma, “La Sapienza”, Facoltà di lettere, 18-19 febbraio 2011.
(Atti in corso di pubblicazione)

Le Tesi di Lione sono state definite l’asse fondamentale di svolta nella storia dei comunisti in Italia, sia in rapporto alla concezione del partito, sia per l’analisi della società. In entrambi i casi si giunge al superamento completo delle Tesi elaborate per il Congresso di Roma, dopo il profondo mutamento nella direzione politica del Partito sotto la guida di Antonio Gramsci.
Prima, durante e dopo il Congresso si confrontarono e scontrarono due idee radicalmente opposte del partito, sinteticamente così riassumibili: su un versante, la visione del parito inteso come parte della classe, vale a dire, un’organizzazione articolata in cellule di fabbrica e innervata dalla formazione permanente di tutti i suoi quadri, che punta a realizzare una direzione/elaborazione diffusa delle stesse classi subalterne; sull’altro versante, il partito inteso come organo esterno alla classe, ossia, un’organizzazione ristretta di dirigenti rivoluzionari, temprati e incorruttibili, in grado di leggere nel quadro economico e sociale le contraddizioni fondamentali da cui far scaturire, al momento opportuno, le cause della detonazione rivoluzionaria .
Nel primo caso abbiamo l’idea di un partito con l’ambizione di aderire organicamente alla struttura produttiva – alla cui base sta una concezione molecolare della rivoluzione, metodologicamente avversa all’idea di una non ben identificata “ora X” – e intende articolare plasticamente la sua attività nell’azione quotidiana dei lavoratori. Nel secondo, un’elaborazione che ritiene lotta economica, per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro, e quella politica per la conquista quotidiana di posizioni di forza nella società, veicoli di mentalità corporativa e di corruzione della purezza rivoluzionaria. Per tale impostazione la connessione tra partito e masse doveva avvenire solo nel momento topico del conflitto di classe.
Il periodo dall’estate del 1925 al Congresso del gennaio 1926 è cruciale per l’evoluzione del pensiero di Gramsci, in relazione al partito, al suo rapporto con le masse, alla funzione svolta in esso dagli intellettuali; un periodo nel quale giungono a completa maturazione le esperienze di direzione e orientamento politico compiute a partire dal 1923. Una fase nella quale la sua analisi si sviluppa fino a indagare in profondità il ruolo svolto nella società italiana dagli intellettuali, quale tessuto connettivo degli assetti sociali dominanti. Già in queste analisi è presente quella ridefinizione del concetto di Stato e di dominio anticipatrice della categoria egemonica. Le riflessioni di Gramsci in questa fase, sono la base essenziale della teoria sugli intellettuali sviluppata poi all’interno della Questione meridionale e delle riflessioni del carcere. Al contempo, essa è il punto d’arrivo di quella precedente e, nel complesso, affonda potentemente le sue radici nell’esperienza «ordinovista».
La piattaforma congressuale della sinistra fu pubblicata sull’«Unità» del 7 luglio del 1925, essa ribadiva su tre assi fondamentali le posizioni già più volte espresse dal suo leader Amadeo Bordiga : 1) il partito andava inteso come organo della classe che sintetizza ed unifica le spinte individuali, in modo da andare oltre il particolarismo di categoria e raccogliere gli elementi provenienti dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori delle classi borghesi; 2) veniva respinta la “bolscevizzazione” – avanzata al V Congresso e riproposta dal «gruppo di centro» guidato da Gramsci – vale a dire la ripartizione organizzativa del partito in cellule su base di fabbrica. 3) veniva stigmatizzata la lotta alle frazioni avviata dal Comintern.
Tale impostazione trovò espressione compiuta nel progetto di Tesi per il Congresso. Secondo Bordiga, era impossibile mutare la sostanza delle situazioni oggettive, riconducibili al quadro più generale dei rapporti sociali di produzione, attraverso una determinata forma organizzativa. Un’organizzazione «immediata di tutti i lavoratori in quanto economicamente tali» sarebbe risultata costantemente dominata dagli impulsi delle diverse categorie professionali a soddisfare i propri interessi economici particolari determinati dallo sfruttamento capitalistico. Da ciò la profonda diffidenza, manifestata già ai tempi della stagione consiliare , verso l’impegno del partito nelle vertenze dei lavoratori. Nello stesso numero del 7 luglio dell’«Unità», Gramsci s’incaricò di stendere una replica estremamente importante. In essa, già si può cogliere appieno la continuità con l’elaborazione degli anni dell’«Ordine Nuovo», sul tema dell’autonomia dei produttori, e trova un primo abbozzo l’idea dell’intellettuale come prodotto autonomo della classe, l’affermazione secondo cui ogni lavoratore entrando nel partito comunista ne diviene un dirigente e dunque un’intellettuale. Il «Comitato d’intesa» concepiva il partito come sintesi di elementi individuali e non come un movimento di massa e di classe, in ciò andava rintracciata la radice della teoria del partito di Bordiga:

In questa concezione c’é una tinta di forte pessimismo verso la capacità degli operai come tali, solo gli intellettuali possono essere uomini politici. Gli operai sono operai e non possono che rimanere tali fino a quando il capitalismo li opprime: sotto l’oppressione capitalistica l’operaio non può svilupparsi completamente, non può uscire dallo spirito angusto di categoria. Che cos’é allora il partito? È solo il ristretto gruppo dei suoi dirigenti che riflettono e sintetizzano gli interessi e le aspirazioni generiche della massa, anche nel partito. La dottrina leninista afferma e dimostra che questa concezione è falsa ed è estremamente pericolosa; essa ha, tra l’altro, portato al fenomeno del mandarinismo sindacale. (…) Gli operai entrano nel partito comunista non soltanto come operai (metallurgici, falegnami, edili, ecc.), ma entrano come operai comunisti, come uomini politici cioè, come teorici del socialismo, quindi, e non solo come ribelli in generale; e col partito, attraverso le discussioni, attraverso le letture e le scuole di partito, si sviluppano continuamente, diventano dirigenti. Solo nel sindacato l’operaio entra nella sua qualità di operaio e non di uomo politico che segue una determinata teoria .

Secondo Gramsci la concezione del partito di Bordiga era ferma alla prima fase dello sviluppo capitalistico, ancora nel 1848 si sarebbe potuto affermare che «il partito è l’organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppo provocati dalla lotta di classe», ma nella fase del maggior sviluppo capitalistico, l’imperialismo, il proletariato era profondamente rivoluzionario, assolveva già una funzione dirigente nella società. Sempre in questo periodo Gramsci scrisse un’Introduzione al primo corso della scuola interna di partito. In essa l’obbiettivo di rinforzare ideologicamente e politicamente i quadri e i militanti, era posto come obbiettivo primario di un partito che intendesse diventare di massa. La formazione era il modo per rendere l’operaio comunista un dirigente e non lasciare la lotta ideologica nelle mani esclusive degli intellettuali borghesi:

L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari”. Servì da prezzemolo a tutte le salse più indigeste che i più imprudenti avventurieri della penna abbiano voluto mettere in vendita. È stato marxista in tal modo Enrico Ferri, Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini… .

In questa introduzione Gramsci contestò esplicitamente, la concezione del partito così come esposta nelle Tesi sulla tattica del Congresso di Roma:

[in esse] La centralizzazione e l’unità erano concepite in modo troppo meccanico: il Comitato centrale, anzi il Comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il partito perderebbe i suoi caratteri politici e distintivi e diventerebbe, nel migliore dei casi, un esercito (e un esercito di tipo borghese), perderebbe cioè la sua forza d’attrazione, si staccherebbe dalle masse. Perché il partito viva e sia a contatto con le masse occorre che ogni membro del partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. (…) La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria .

Il compito di costituire le cellule di fabbrica era per Gramsci un’occasione di autoeducazione della classe operaia; le cellule, da semplice strumento organizzativo, si trasformano in organo principe nella formazione degli intellettuali «organici» della classe operaia, possono contribuire alla determinazione dell’autonomia della classe operaia dall’apporto esterno borghese: «La cellula trasforma ogni membro del partito in un militante attivo assegnando ad ognuno un lavoro pratico e sistematico. Attraverso questo lavoro si crea una nuova classe di dirigenti proletari, legati alla fabbrica, controllati dai compagni di lavoro, in modo cioè da non potersi trasformare in funzionari e mandarini, fenomeno che si verifica in larga parte in tutti i partiti che hanno conservato la vecchia struttura dei partiti socialisti» .
Nella sua relazione alla riunione della Commissione politica per il Congresso Gramsci provò a riassumere i punti di dissenso tra «la centrale del partito» e l’estrema sinistra» in tre livelli di rapporti: tra gruppo dirigente del partito e l’insieme degli iscritti; tra gruppo dirigente e classe operaia; tra classe operaia e resto delle classi subalterne:

La nostra posizione [scrive Gramsci] deriva da ciò che noi riteniamo si debba porre nel massimo rilievo il fatto che il partito è unito alla classe non solo da legami ideologici ma anche da legami di carattere fisico. (…) Secondo la estrema sinistra il processo di formazione del partito è un processo sintetico; per noi è un processo di carattere storico e politico, legato strettamente a tutto lo sviluppo della società capitalistica. La diversa concezione porta a determinare in un modo diverso la funzione e i compiti del partito. Tutto il lavoro che il partito deve compiere per elevare il livello politico delle masse, per convincerle e portarle sul terreno della lotta di classe rivoluzionaria viene, in conseguenza della errata concezione della estrema sinistra, svalutato e ostacolato, per via del distacco iniziale che si è creato tra il partito e la classe operaia .

La questione teorica dell’organizzazione per cellule, poneva in rilievo la necessità di «legami fisici» tra partito e classe nel suo complesso, mentre, nell’affermare la necessità di una «tutela» direttiva da parte del gruppo dirigente «specializzato», Bordiga poneva quale problema assoluto il rischio di corporativismo tra gli operai. Ciò, per Gramsci, lasciava trasparire una concezione paternalistica che svalutava fortemente la capacità di direzione della classe operaia, fino a ridurla a soggetto minorenne incapace di autodeterminazione politica.
Già nel corso del dibattito pre-congressuale, e in misura ancora maggiore al Congresso di Lione, Gramsci poneva la teoria sul partito della sinistra in continuità con tutta la storia degli intellettuali in Italia, con la filosofia crociana e le tradizioni elitarie ed oligarchiche della filosofia politica idealista e liberale. Un concetto poi ripreso nei Quaderni dove Gramsci mise sullo stesso piano l’atteggiamento intellettualistico, da «intellettuale puro», di Bordiga con quello di Croce.

Ciò che importa al Croce è che gli intellettuali non si abbassino al livello della massa, ma capiscano che altro è l’ideologia, strumento pratico per governare, e altro la filosofia e la religione che non deve essere prostituita nella coscienza degli stessi sacerdoti. Gli intellettuali devono essere governanti e non governati, costruttori di ideologie per governare gli altri e non ciarlatani che si lasciano avvelenare e mordere dalle proprie vipere. (…) La posizione di «puro intellettuale» diventa un vero e proprio «giacobinismo» deteriore e in tal senso, mutate le stature intellettuali, Amedeo può essere avvicinato al Croce .

Trattando il tema del rapporto tra la classe operaia e il resto degli sfruttati, e rendendolo pilastro delle tesi congressuali, Gramsci colse appieno il valore strategico attribuito da Lenin alla questione contadina e alla politica delle alleanze . Preparare a fondo la rivoluzione, «conquistare le grandi masse», «avere la simpatia delle masse», era per Lenin necessario se si aveva l’aspirazione non solo di iniziare una rivoluzione ma soprattutto vincerla e conservare il potere: «attrarre a noi non solo la maggioranza della classe operaia, ma anche la maggioranza della popolazione lavoratrice e sfruttata della campagna» . Un tema centrale, in un paese come l’Italia dove il proletariato era una minoranza senza carattere nazionale.
Più precisamente, Gramsci cercò di contestualizzare all’Italia il grande tema dibattuto tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista. In essi, preso atto delle difficoltà internazionali, e della complessità dei processi rivoluzionari in Occidente, Lenin e l’Esecutivo del Comintern lanciarono la parola d’ordine della conquista della maggioranza delle classi subalterne e dell’unità della classe operaia tramite la tattica del «fronte unico», essenziale per la definizione della categoria dell’«egemonia» in Gramsci .
Già nel Congresso di Lione si pongono tre ordini di problemi che finiranno per costituire la spina dorsale dello scritto su La questione meridionale: la questione meridionale intesa come questione contadina; il tema del partito politico della classe contadina; La funzione reazionaria svolta dal Vaticano.
L’atteggiamento verso il fascismo delle Tesi di Roma, e più in generale l’impostazione teorica di Bordiga, la sua tendenza a svalutare le differenze tra quadro democratico e reazionario, erano Gramsci esempi lampanti di un modo errato di concepire la tattica. Come già accennato in apertura, le Tesi di Lione segnano una completa svolta anche sul piano dell’analisi relativa alla società italiana, anticipando molteplici aspetti dell’elaborazione carceraria di Gramsci. Nel periodo di crisi successivo al delitto Matteotti non sarebbe stato sufficiente condurre una campagna di critica ideologica al regime e alle opposizioni, limitarsi a una propaganda capace solo di trattare allo stesso modo i due soggetti, era necessario incalzare le opposizioni ponendole sul terreno del rovesciamento del fascismo, come premessa preliminare a qualsiasi altra azione di comunisti.

È assurdo affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e una situazione reazionaria, e che, in una situazione democratica sia più disagevole il lavoro per la conquista delle masse. La verità è che oggi in una situazione reazionaria si lotta per organizzare il partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe per organizzare la insurrezione .

Quando il fascismo stava sorgendo e sviluppandosi il PCd’I si era limitato a considerarlo un organo di combattimento della borghesia e non anche un movimento sociale, questo non mise il partito nelle condizioni di arginarne l’avanzata e di opporsi alla sua ascesa al potere con un’azione politica appropriata; anzi lo spinse a lavorare contro gli «arditi del popolo», un movimento di massa dal basso che il partito avrebbe dovuto contribuire a sviluppare e dirigere.
Anche l’obiettivo della sconfitta del fascismo andava posto in relazione al problema dell’egemonia della classe operaia verso le masse contadine:

La situazione italiana è caratterizzata dal fatto che la borghesia è organicamente più debole che in altri paesi e si mantiene al potere solo in quanto riesce a controllare e dominare i contadini. Il proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza della borghesia e porli sotto la sua guida politica. Questo è il punto centrale dei problemi politici che il partito dovrà risolvere nel prossimo avvenire .

L’elemento predominante della società italiana era una particolare forma di capitalismo nel quale convivevano un industrialismo ancora debole e incapace di assorbire la maggioranza della popolazione e un’agricoltura, ancora base economica del paese, segnata dalla netta prevalenza di ceti poveri (bracciantato agricolo) molto prossimi alle condizioni del proletariato e perciò potenzialmente sensibili alla sua influenza.
Tra le due classi dominanti – industriali e agrari – si poneva quale elemento di raccordo una media e piccola borghesia urbana abbastanza estesa. La debolezza del modo di produzione in Italia – privo di materie prime – spingeva gli industriali a varie forme di compromesso economico con i grandi latifondisti agrari, basate su «una solidarietà d’interessi» tra ceti di privilegiati a detrimento delle esigenze produttive generali. Anche il processo risorgimentale fu espressione di questa debolezza, perché la costruzione dello Stato nazionale si realizzò grazie allo sfruttamento di particolari fattori di politica internazionale e il suo consolidamento rese necessario quel compromesso sociale che ha reso inoperante in Italia la lotta economica tra industriali e agrari, la rotazione di gruppi dirigenti, tipici di altri paesi capitalistici. Questo compromesso a tutela di uno sfruttamento parassitario delle classi dominanti ha determinato una polarizzazione tra l’accumulo di immense ricchezze in ristretti gruppi sociali e la povertà estrema del resto della popolazione, ha comportato il deficit del bilancio, l’arresto dello sviluppo economico in intere aree del Paese, ha ostacolato una modernizzazione del sistema economico nazionale armonica e calibrata con le caratteristiche della nazione.
Anche i rovesci nella prima parte della guerra mondiale e lo stesso avvento del fascismo sono analizzati nelle Tesi alla luce di questa debolezza originaria dell’Italia, anticipando un canone interpretativo centrale nelle riflessioni sul Risorgimento dei Quaderni. Il compromesso tra industriali e agrari attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord industrializzato era come la metropoli capitalistica per la colonia; le classi dirigenti del Sud (grandi proprietari e media borghesia) svolgevano la stesa funzione delle categorie sociali delle colonie alleate con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al proprio sfruttamento. Tuttavia, nella prospettiva storica, questo sistema di compromesso si rivelò inefficace perché si risolveva in un ostacolo allo sviluppo dell’economia industriale e di quell’agraria. Ciò ha determinato in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse.
Il periodo di maggior debolezza dello Stato italiano si era determinato per Gramsci nel decennio 1870-1890, soprattutto per l’azione svolta dal Vaticano di catalizzatore del blocco reazionario antistatale costituito dai residui di aristocrazia, dagli agrari, dalle popolazioni rurali dirette dai proprietari terrieri e dalle parrocchie. Il Vaticano aveva manifestato di voler operare su due fronti: da un lato esplicitamente contro lo Stato borghese unitario e liberale; dall’altra, nel tentativo di costituire, attraverso i contadini, una sorta di esercito di riserva per sbarrare la strada all’avanzamento del movimento operaio socialista.
L’equilibrio instabile del nuovo Stato, la distanza tra istituzioni e popolo, è uno dei temi fondamentali di indagine dei Quaderni del carcere. Basti pensare, ad esempio, alle note in cui Gramsci si sofferma sulla formula retorica (escogitata dai clericali) che tendeva a contrapporre un’Italia reale, composta dalla maggioranza cattolica avversa al nuovo Stato unitario, a un’Italia legale costituita da una minoranza di esaltati patrioti votati alla causa nazionale e all’idea liberale. Per quanto la formula fosse comparsa in un contesto politico editoriale da «insulso libello da sacrestia», essa era per Gramsci assai efficace dal punto di vista polemico perché indicava bene la separazione esistente tra il nuovo Stato e la società civile. Ovviamente, la società civile non poteva certo essere tutta compresa nel fronte clericale, poiché appariva largamente disomogenea e informe. E proprio per la sua natura disgregata, lo Stato non ebbe difficoltà a dominarla superando le contraddizioni e i conflitti che esplodevano in maniera episodica e localistica, al di fuori di ogni coordinamento sul piano nazionale e tendente a un fine determinato.
Dunque, al di là di una situazione oggettiva di separatezza tra Stato e società, lo stesso clericalismo non poteva considerarsi espressione reale della società civile, sulla quale mostrava difficoltà a esercitare una reale direzione efficace. La Chiesa, in realtà, temeva quelle stesse masse popolari, che pure controllava, perché intravvedeva la possibilità di una loro sollevazione. Anche la formula del «non expedit» era per Gramsci il segno di questa paura e incapacità politica: l’atteggiamento di boicottaggio del nuovo Stato che esso prefigurava risultava alla fine oggettivamente sovversivo. Questo spiega perché, con la crisi di fine secolo e i fatti del 1898, la reazione dello Stato si fosse abbattuta sia verso i primi vagiti di organizzazione socialista, sia verso quella clericale. L’abbandono della politica espressa dalla formula «né elettori, né eletti» da parte del Vaticano, che avrebbe portato prima al Patto Gentiloni e poi alla nascita del Partito popolare ebbe origine dalla constatazione di quel fallimento.
Una vera scissione tra paese reale e paese legale si ha per Gramsci nei fatti che lacerano il paese dall’inizio della crisi Matteotti fino al varo delle leggi fascistissime, quando la scissione tra paese reale e paese legale viene superata attraverso la soppressione dei partiti politici, delle libertà individuali e collettive, e l’inquadramento militare della società civile in un’unica organizzazione politica che faceva coincidere Stato e partito.
Il periodo che va dal 1890 al 1900 è il primo nel quale la borghesia si pone concretamente il problema di organizzare la propria dittatura. È un periodo contrassegnato da una serie di interventi politici e legislativi della svolta protezionista – a favore della grande produzione industriale (in particolare l’industria meccanica) e dell’agricoltura latifondista (grano, riso, mais) – che porta alla denuncia dei trattati commerciali con la Francia, all’ingresso dell’Italia nell’orbita della triplice alleanza a guida tedesca. In questa fase si salda ulteriormente l’asse tra industriali e proprietari terrieri strappando i ceti rurali al controllo del Vaticano in chiave antiunitaria.
Al saldarsi del blocco industriali-agrari corrispondono però i progressi delle organizzazioni operaie e la ribellione delle masse contadine. Nella definizione del fascismo le Tesi raggiungono il loro livello più elevato di analisi e concettualizzazione, introducendo un nuovo modello interpretativo del fenomeno destinato a fare scuola in sede storiografica e non solo all’interno del campo marxista.
Il fascismo rientrava appieno nel quadro tradizionale delle classi dirigenti italiane, esso assumeva la forma della reazione armata con il preciso scopo di scompaginare le fila nelle organizzazioni delle classi subalterne e per questa via garantire la supremazia dei ceti dominanti. Per questa ragione esso al suo comparire è favorito e protetto indistintamente da tutti i vecchi gruppi dirigenti, anche tra di essi sono soprattutto gli agrari a finanziare e lanciare le squadre fasciste contro il movimento dei contadini. La base sociale del fascismo però è composta dalla piccola borghesia urbana e dalla nuova borghesia agraria.
Il fascismo trova una unità ideologica e organizzativa nelle formazioni paramilitari che ereditano la tradizione dell’arditismo e la applicano alla guerriglia contro le organizzazioni dei lavoratori. Per le Tesi, il fascismo attua il suo piano di conquista dello Stato con una «mentalità di capitalismo nascente» in grado di fornire alla piccola borghesia un’omogeneità ideologica in contrapposizione con i vecchi gruppi dirigenti.

Nella sostanza il fascismo modifica il programma della conservazione e di reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte più decisamente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari .

Tuttavia, il metodo fascista di difesa dell’ordine, della proprietà e dello Stato non riesce a realizzare, immediatamente e totalmente, questo livello di centralizzazione della borghesia con la presa del potere. Anzi la traduzione politica ed economica dei suoi propositi produce varie forme di resistenza all’interno delle stesse classi dirigenti. I due tradizionali orientamenti della borghesia liberale italiana, quello riconducibile al giolittismo e quello riconducibile al «Corriere della Sera», non vengono subito assorbiti o piegati dalla presa del potere di Mussolini. In tal senso si spiega la lotta contro i gruppi superstiti della borghesia liberale e contro la massoneria, vale a dire contro il suo principale centro di attrazione e organizzazione in sostegno dello Stato.
Sul piano economico il fascismo agisce a totale vantaggio delle grandi oligarchie industriali ed agrarie disattendendo le aspirazioni della sua stessa base sociale, la piccola borghesia, che dall’avvento del fascismo sperava di trarre un avanzamento nelle condizioni sociali ed economiche. Ciò avviene sul piano delle politiche commerciali, con l’inasprimento del protezionismo doganale, su quello finanziario, con la centralizzazione del sistema del credito a beneficio della grande industria, così come sul versante della produzione, con un aumento delle ore di lavoro e la diminuzione delle retribuzioni. Ma il vero punto di approdo del fascismo si ha nella politica estera e nelle aspirazioni imperialistiche, rispetto alle quali le Tesi avanzano un’idea che si concretizzerà quattordici anni appresso.

Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell’azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all’imperialismo. Questa tendenza è l’espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l’espansione italiana ma nella quale in realtà l’Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialistici che si contendono il dominio de mondo .

Le Tesi di Lione rappresentano la consacrazione del «nuovo corso» nel PCI e in esso del gruppo dirigente guidato da Gramsci, nato attorno all’«Ordine Nuovo» nei tumultuosi anni del dopoguerra; in esse si ha la saldatura della nuova prospettiva politica con il percorso politico intellettuale del vecchio gruppo torinese. La svolta di Lione costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza quanto nella fase successiva alla liberazione.
L’indicazione lanciata dai Congressi dell’Internazionale, costruire dei partiti di massa radicati nei luoghi di lavoro attraverso le cellule di fabbrica (la cosiddetta bolscevizzazione), è raccolta e sviluppata dal vecchio gruppo «ordinovista» attraverso la rielaborazione dei temi forti emersi nel «biennio rosso» dall’esperienza del movimento consiliare, alla quale del resto le Tesi fanno esplicito riferimento:

La pratica del movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e inferiori della massa lavoratrice e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di aristocrazia operaia. La organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno strato assai vasto di elementi organizzativi (segretari di cellula, membri dei comitati di cellula, ecc.), i quali sono parte della massa e rimangono in essa pure esercitando funzioni direttive, a differenza dei segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità elementi staccati dalla massa lavoratrice .

In questa definizione trovava piena e compiuta collocazione il tema del rapporto tra dirigenti e diretti, tra intellettuali e masse, secondo i termini classici dell’elaborazione gramsciana. Per Gramsci, nello scontro interno al partito, la distinzione tra i due diversi modi di intendere la rivoluzione era netta: da una parte le masse sono considerate massa di manovra, strumenti della rivoluzione; dall’altra le si intende soggetto protagonista e cosciente di essa. Nei Quaderni questo argomento è ampiamente svolto proprio a partire dalle considerazioni sul partito politico, lo strumento attraverso il quale il rapporto di rappresentanza dovrebbe superare la sua condizione di delega passiva caratteristica della società borghese. In realtà esso ha finito per convertirsi in luogo di occupazione e gestione oligarchica dei centri di potere e di perpetuazione esclusiva delle sue funzioni dirigenti. Per Gramsci il rapporto governanti governati è conseguente alla divisione del lavoro, alla distinzione tra funzioni intellettuali e manuali: «ogni uomo è un filosofo», è l’organizzazione tecnica a farne un diretto e non un dirigente, pertanto se lo scopo principale di un partito consiste nel formare dirigenti il suo dato di partenza deve risiedere nel non ritenere naturale e immodificabile quella distinzione. Il problema dell’assenza di un rapporto organico di rappresentanza in politica non riguardava dunque solo i partiti di élite della tradizione liberale, dove la funzione di direzione era esercitata unilateralmente da uomini di cultura, ma anche i cosiddetti partiti di massa del movimento operaio. Se le masse in un partito non hanno altra funzione al di là della fedeltà militare verso i gruppi dirigenti il rapporto dualistico è esattamente lo stesso: la massa è semplicemente di manovra e viene occupata con prediche morali, con pungoli messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate». Il supermento del «cadornismo» doveva pertanto avvenire attraverso il sostituirsi nella funzione direttiva di organismi politici collettivi e diffusi ai singoli individui, ai «capi carismatici», fino a sconvolgere i vecchi schemi «naturalistici» dell’arte politica. L’antidoto al «capo carismatico», tema questo di grandissima attualità, doveva essere l’intellettuale collettivo, il ruolo protagonistico e non delegato delle classi subalterne. Un partito serio, non l’espressione arbitraria di individualismi, deve essere portatore di qualcosa di simile allo spirito statale, un sentimento di appartenenza che lega il presente e il futuro con la tradizione e rende i suoi cittadini solidali con l’azione storica delle forze spirituali e materiali nazionali. Allo stesso modo deve esistere uno spirito di partito, un senso di responsabilità generale, da non confondere con la «boria di partito». Rispetto a tutti questi temi le Tesi di Lione rappresentanto uno spartiacque essenziale, sicuramente il punto più alto nel quale l’elaborazione teorica e la direzione politica di Gramsci trovano un punto d’intesa elevatissimo. Nella biografia di Gramsci sono un punto di continuità tra le battaglie pre 1926 e le riflessioni carcerarie, la testimonianza più vivida di quanto sia impossibile separare il Gramsci politico e militante dal “disinteressato” «uomo di cultura» tanto caro alle recenti vulgate di molti studiosi, forse eccessivamente disinvolti nel servirsi della sua biografia per perseguire fini ben diversi dalle sbandierate esigenze di ricerca scientifica.

G. Fresu, Nell’analisi di Gramsci la rivoluzione passiva di Benito Mussolini. 25 ottobre 2011, la Nuova Sardegna.

di Gianni Fresu

Nellanalisi di Gramsci la rivoluzione passiva di Benito MussoliniA Gramsci il fascismo appariva per sua natura in profonda contraddizione con i coevi tentativi di razionalizzazione fordista […]. «Lo Stato fascista – scriveva nei Quaderni – crea nuovi redditieri, cioè promuove le vecchie forme di accumulazione parassitaria del risparmio e tende a creare dei quadri chiusi sociali. In realtà finora l’indirizzo corporativo ha funzionato per sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eliminare queste e sta sempre più diventando, per gli interessi costituiti che sorgono dalla vecchia base, una macchina di conservazione dell’esistente così come è e non una molla di propulsione. Perché? Perché l’indirizzo corporativo è anche in dipendenza della disoccupazione: difende agli occupati un certo minimo di vita che, se fosse libera la concorrenza, crollerebbe anch’esso, provocando gravi rivolgimenti sociali; e crea occupazioni di nuovo tipo, organizzativo e non produttivo, ai disoccupati delle classi medie».  Attraverso la trasformazione dello Stato e la creazione del corporativismo, il fascismo produceva trasformazioni nella struttura produttiva tendenti alla socializzazione e alla cooperazione nella produzione, senza intaccare però le modalità individuali e private di appropriazione dei profitti. In concreto questo significava che attraverso il fascismo si cercava uno sviluppo delle forze produttive industriali senza sottrarne la direzione alle classi tradizionali, per consentire al capitalismo italiano di uscire dalla sua crisi organica e competere con le potenze capitalistiche detentrici del monopolio delle materie prime e con capacità di accumulazione maggiore. Lo schema di questa rivoluzione passiva per Gramsci aveva ben poche possibilità di riuscita pratica, tuttavia dal punto di vista della mobilitazione e della capacità egemonica del regime, ciò era di importanza relativa: «Ciò che importa ideologicamente è che esso può avere realmente la virtù di prestarsi a creare un periodo di attesa e di speranze, specialmente in certi gruppi sociali italiani, come la massa dei piccolo-borghesi urbani e rurali, e quindi a mantenere il sistema egemonico e le forze di coercizione militare e civile a disposizione delle classi dirigenti tradizionali» (dai «Quaderni dal carcere»).  In coclusione, le riflessioni sul fascismo di Gramsci sfuggono a troppo rigide classificazioni storiografiche. Il materialismo storico è il dato di partenza, tuttavia, anche i termini soggettivi, compresa la crisi morale della borghesia – hanno un ruolo determinante e centrale. Anche Gramsci interpreta il fascismo come reazione a una fase di profondi rivolgimenti sociali legati alla prima guerra mondiale e soprattutto alla rivoluzione d’ottobre, tuttavia, non giunge mai a considerare la borghesia e il suo modo di produzione come un unico blocco omogeneo. Egli legge all’interno del blocco sociale dominante differenziazioni e contraddizioni palesatisi proprio in rapporto alla nascita e all’avvento del fascismo. Gramsci, come gran parte dei suoi coevi compagni di lotte, ha analizzato il tentativo di centralizzazione degli interessi borghesi dietro al fascismo, ma lo riteneva un fenomeno sociale sorto tra la piccola e media borghesia urbana, sviluppatosi grazie agli apporti degli agrari e quelli, non sempre lineari e armonici, del grande capitale industriale.  Infine, l’intellettuale sardo ha interpretato storicisticamente il fascismo in rapporto alla debolezza delle classi dirigenti e ai limiti nel processo di unificazione politica e modernizzazione economica dell’Italia, ma non lo ha mai inteso un esito inevitabile di quel processo. In tutto questo, un ruolo peculiare è attribuito al ruolo di alcune categorie ampiamente operative in quel dato frangente storico: il cesarismo, il bonapartismo, la fede verso le virtù taumaturgiche del «capo carismatico», cui Grasmci dedica numerose riflessioni e che meriterebbero una trattazione separata per la vastità dei contenuti trattati e delle implicazioni analitiche.  Tutto questo insieme di valutazioni porta a un’ultima conclusione: il fascismo non può certo essere ritenuto una parentesi irrazionale in una storia per il resto segnata dall’inarrestabile progressione liberale e democratica, un’improvvisa malattia morale, capace di obnubilare le menti degli italiani, che ha aggredito un corpo sano per poi sparire senza lasciare traccia. A centocinquanta anni dall’Unità d’Italia, le riflessioni di Gramsci suggeriscono di evitare accuratamente ogni lettura agiografica di quella storia. Senza trasformarla in un’opera di teratologia intellettuale, è opportuno interrogarsi problematicamente sulla totalità e organicità dei processi storici, sui limiti congeniti dell’intera vita politica italiana. Proprio questa problematicità ha spinto Gramsci a evitare qualsiasi lettura storiografica e politica manichea. Il fascismo costituisce la negazione più completa per valori e prospettive del campo marxista, ciò nonostante l’intellettuale sardo lo ha analizzato come fenomeno razionale e reale, scaturito da precise cause storicamente determinate.

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12 settembre 1923, Gramsci e la nascita de «l’Unità». Le origini del quotidiano nel pieno divampare della reazione fascista.

12 settembre 1923, Gramsci e la nascita de «l’Unità».

Le origini del quotidiano, nel pieno divampare della reazione fascista.

Gianni Fresu

Il quotidiano «l’Unità» nacque nel pieno divampare della reazione fascista e in una fase di profonda crisi del neo nato partito comunista, paralizzato da una concezione profondamente settaria tanto dell’organizzazione, quanto delle alleanze di classe da perseguire. Secondo Bordiga non solo non c’era affatto antitesi tra democrazia e militarismo, ma tra fascismo e democrazia vi era assenza di contraddizioni e distinzioni reali, anzi, il fascismo appariva come «una prospettiva di stampo socialdemocratico per quanto espressa con forme e cerimoniali nuovi»[1]. I comunisti dovevano pertanto disinteressarsi del problema democratico, non optare per l’una o l’altra forma di governo borghese, e chiudere risolutamente a qualsiasi ipotesi collaborazione con le altre forze democratiche ed anche socialdemocratiche in opposizione al fascismo. Una linea oramai incompatibile con quella assunta tra il 1921 e il ‘23 dal Comintern, rispetto alla quale il suo esecutivo si preparava a dare battaglia. Per contrastarla con maggior efficacia, la direzione dell’Internazionale approvò la proposta di creare un «quotidiano operaio» in grado di dare corpo all’obbiettivo strategico dell’unità delle masse operaie del Nord con quelle rurali salariate del Mezzogiorno. Proprio per questa ragione, in una lettera all’esecutivo del PCd’I del 12 settembre 1923 Gramsci propose il titolo «l’Unità»:

“Io propongo come titolo «l’Unità» puro e semplice, che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’esecutivo allargato sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non solo come un problema di rapporto di classe, ma anche specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale”[2].

In questa lettera Gramsci propose non solo il nome, ma anche funzione e linea editoriale del quotidiano. Dato il contesto, era necessario un giornale in grado di resistere legalmente il più a lungo possibile alla reazione. Nell’intento di Gramsci, non doveva trattarsi di un organo di partito, ma garantire all’organizzazione una «tribuna legale», consentirgli il raggiungimento, continuo e sistematico, delle più larghe masse:

“Non solo quindi il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di partito, ma esso dovrà essere redatto in modo che la sua dipendenza di fatto dal nostro partito non appaia troppo chiaramente. Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma e alla tattica della lotta di classe, che pubblicherà gli atti e le discussioni del nostro partito, come farà possibilmente anche per gli atti e le discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti e dirà il suo giudizio con un tono disinteressato, come se avesse una posizione superiore alla lotta e si ponesse da un punto di vista «scientifico»”[3].

Il quotidiano doveva servire a imprimere un profondo cambiamento nell’agire politico dei comunisti in Italia. Quella svolta, di cui lo stesso Gramsci fu indiscusso protagonista nella lotta con il vecchio gruppo dirigente legato a Bordiga fino al famoso Congresso di Lione, costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza quanto nella fase successiva alla liberazione. Gramsci, sia nell’idea ispiratrice del quotidiano, sia nelle successve Tesi di Lione colse appieno il valore strategico attribuito da Lenin alla questione contadina e alla politica delle alleanze[4]. Preparare a fondo la rivoluzione, «conquistare le grandi masse», «avere la simpatia delle masse», era per Lenin necessario se si aveva l’aspirazione non solo di iniziare una rivoluzione ma soprattutto vincerla e conservare il potere: «attrarre a noi non solo la maggioranza della classe operaia, ma anche la maggioranza della popolazione lavoratrice e sfruttata della campagna»[5]. Un tema centrale, in un paese come l’Italia dove il proletariato era una minoranza senza carattere nazionale.  Più precisamente, Gramsci cercò di contestualizzare all’Italia il grande tema dibattuto tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista[6]. In essi, preso atto delle difficoltà internazionali, e della complessità dei processi rivoluzionari in Occidente, Lenin e l’Esecutivo del Comintern lanciarono la parola d’ordine della conquista della maggioranza delle classi subalterne e dell’unità della classe operaia tramite la tattica del «fronte unico», essenziale per la definizione della categoria dell’«egemonia» in Gramsci[7].

Il periodo tra il 1923 e la Conferenza di Como del maggio 1924, fino all’assunzione da parte di Gramsci della Segreteria Generale del Partito, è efficacemente definito da Spriano una fase di «interregno», un periodo di riposizionamento complessivo del partito in Italia, di dinamiche contrastanti e incerte all’interno della vecchia maggioranza, per via del forte ascendente ancora esercitato da Bordiga. L’oramai ex capo del partito, era sempre più deciso ad aprire uno scontro frontale con il Comintern, anche al costo di separarsi definitivamente da esso. L’effettivo cambio di linea e gruppo dirigente che portò Gramsci alla guida del Partito avvenne con due passaggi: una prima riunione del Comitato Centrale il 18 aprile del 1924, quindi in maggio, con la Conferenza nazionale di Como – in sostanza un Comitato centrale allargato ai segretari di federazione e al rappresentante della federazione giovanile con carattere consultivo sulla linea politica del partito – in vista del Congresso nazionale programmato dopo lo svolgimento del V Congresso dell’IC.

La fase successiva, fino al Congresso di Lione, è caratterizzata dal consolidarsi della nuova maggioranza attorno a Gramsci. All’interno di questo processo possiamo individuare nella nascita del quotidiano «l’Unità» un punto di svolta essenziale.

Gramsci ha esercitato la sua attività di capo del Partito comunista e rappresentante in Parlamento proprio nel momento più drammatico di trapasso dal sistema liberale al regime fascista, segnato dal caso Matteotti e concluso con il varo delle «leggi fascistissime», prologo al suo arresto. Il periodo tra la primavera del 1925 e l’autunno 1926 è cruciale per l’evoluzione del pensiero di Gramsci, in relazione al partito, al suo rapporto con le masse, alla funzione svolta in esso dagli intellettuali. Un periodo nel quale giungono a completa maturazione le esperienze di direzione e orientamento politico compiute a partire dal 1923. Una fase nella quale la sua analisi si sviluppa fino a indagare in profondità il ruolo svolto nella società italiana dagli intellettuali, quale tessuto connettivo degli assetti sociali dominanti. Già in queste analisi è presente quella ridefinizione del concetto di Stato e di dominio anticipatrice della categoria egemonica. La riflessione di Gramsci in questa fase è la base essenziale della teoria sugli intellettuali sviluppata poi all’interno della Questione meridionale e delle riflessioni del carcere,  al contempo, è il punto d’arrivo di quella precedente e, nel complesso, affonda potentemente le sue radici nell’esperienza «ordinovista».

 

 

 


[1] A. Gramsci, lettera a Julca Schuct, 21 luglio 1924.

[1] A. Bordiga I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia, «Rassegna comunista», n. settembre/ottobre 1923.

[2] A. Gramsci, lettera all’Esecutivo del PCd’I, 12 settembre 1923.

[3] Ibid.

[4] V. I. Lenin, Opere Complete, Editori Riuniti, Roma, 1967, vol. XXXII

[5] V. I. Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti, Roma, 1970, pag. 233.

[6] Le Tesi sulla tattica del III Congresso, contestate duramente dall’ala sinistra dei tedeschi e da Bordiga, prendevano atto del riflusso generale dell’ondata rivoluzionaria. La presa del potere nei paesi occidentali si allontanava e ciò imponeva la predisposizione di una nuova, più adatta alle mutate condizioni. Il capitalismo era riuscito a riconquistare posizioni perdute ottenendo una tregua, in quella fase, il Comintern doveva puntare non tanto a preparare la guerra civile quanto a un lavoro di organizzazione, radicamento e agitazione. Il diverso grado di acutezza delle contraddizioni capitalistiche, la diversa articolazione sociale e capacità organizzativa della borghesia nei vari paesi, unitamente ai limiti ancora forti nelle organizzazioni proletarie, non aveva portato, con la fine della guerra, alla vittoria immediata della rivoluzione mondiale. Il processo rivoluzionario nel resto d’Europa si rivelava in sostanza ben più lungo di quanto era stato preventivato nel passato. Si apriva dunque una fase difficile nella bisognava fare i conti anche con le probabilità sconfitte per il movimento comunista europeo. Radek e tutto l’Esecutivo dell’Internazionale, lanciò dunque la parola d’ordine della conquista delle grandi masse lavoratrici, per fare dei partiti comunisti europei, non più soltanto piccoli gruppi di avanguardia, ma «grandi eserciti del proletariato mondiale».

 

[7] G. Fresu, Lenin lettore di Marx. Determinismo e dialettica nella storia del movimento operaio, La Città del Sole, Napoli, 2008.