Eugenio Curiel, di anni 33 – Un grande antifascista da non dimenticare

Eugenio Curiel, di anni 33.

Un grande antifascista da non dimenticare.

Gianni Fresu

A Sessantacinque anni dalla liberazione dal nazifascismo, in un contesto segnato da una inarrestabile emergenza democratica che ha molti punti di contatto con la capitolaziona dello Stato liberale negli anni Venti, è tutt’altro che retorico soffermarsi sul significato e sul valore della Resistenza. Tra le figure dimenticate di quella pagina di storia che riscattò il popolo italiano dall’infamia del fascismo si può annoverare quella del giovane partigiano Eugenio Curiel, che fu insieme scienziato e combattente per la liberta’. Curiel, nato a Trieste nel 1912 da una famiglia benestante di religione ebraica, dopo l’iscrizione in ingegneria a Firenze e il politecnico a Milano si laurea a Padova nel 1933 con il massimo dei voti in fisica e matematica con una tesi sulle disintegrazioni nucleari, a soli 21 anni, quindi inizia a lavorare all’Università come assistente. Nonostante la sua formazione e attività scientifica il giovane Curiel trova negli studi filosofici uno stimolo nuovo e totalizzante che lo porta prima ad avvicinarsi al materialismo storico e poi all’antifascismo militante, iscrivendosi al Partito comunista nel 1935. Nel 1936 avvenne la prima presa di contatto di Curiel con il Centro Estero del PCd’I grazie a un amico studente alla Sorbona, a Parigi, in un contesto segnato dai fermenti politici dell’antifascismo e dalla mobilitazione internazionale in difesa della Spagna repubblicana. Prima di partire discusse a lungo dell’organizzazione di una attività clandestina con i suoi compagni a Padova. Tuttavia, dopo il suo rientro da Parigi, orientò i suoi compagni ad un lavoro legale di massa attraverso la penetrazione nelle stesse organizzazioni sociali del regime tra lo sconcerto della cellula comunista composta di giovani che si aspettavano ben altro tipo di azione. Così, ricorda l’episodio Renato Mieli:

ci spiegò anzitutto il carattere di classe della dittatura fascista. Come avremmo potuto un giorno liberarcene, se non avessimo prima capito quali erano le energie reali, capaci di abbattere il fascismo nel nostro Paese, e se non fossimo riusciti poi ad organizzarle? Questa forza liberatrice non è rachiusa in una «élite» di intellettuali, essa è nella classe operaia e nelle sue alleanze con le masse nelle campagne e con quella parte di borghesia prgressiva. Chi vuole la liberazione dal fascismo, deve incominciare col volere la liberazione del di tutte queste forze dai vincoli che le soffocano. Esistono delle profonde contraddizioni che il regime di Mussolini non può assolutamente risolvere. Si tratta di non restare al di fuori di un processo storico e di inserirvisi, al contrario, attivamente per far fermentare dall’interno quelle energie che affretteranno la disfatta dei nemici del popolo1

A partire da questa indicazione il gruppo si inserì nei GUF e già nel 1937 il giovane intellettuale assunse la responsabilità della pagina sindacale del “Bo”, il giornale universitario di Padova. Ciò favorì una penetrazione di giovani antifascisti nella redazione, lo svilpparsi di un fermento politico culturale nuovo e l’attivazione di energie vitali poi rivelatisi determinanti nel corso della Resistenza. Le lunghissime discussioni sui temi da trattare si spostarono dalla redazione alle fabbriche per l’intuizione di Curiel che propose di confrontare preventivamente le questioni con gli stessi operai. Iniziativa anch’essa importantissima per consentire a quel gruppo la costruzione di legami sociali solidi nel mondo del lavoro. Nel 1938 Curiel, estromesso dall’Università per la promulgazione delle leggi raziali, si trasferisce a Milano, dove prende contatti con il Centro interno socialista e con vari gruppi antifascisti. In clandestinità dedica oramai tutta la sua esistenza alla militanza, viene arrestato varie volte dalla polizia svizzera per la sua attività antifascista e comunista, a Milano il 23 giugno del 1939 viene arrestato da agenti dell’Ovra. Sconta qualche mese nel carcere di San Vittore, poi il processo e la condanna a cinque anni di confino a Ventotene dove mette in piedi una sorta di università popolare per i reclusi ed anche per alcuni abitanti del luogo. Di quell’esperienza rimangono gli appunti delle sue lezioni a molti futuri quadri della Resistenza. Tutti coloro che ebbero modo di conoserlo ricordano Curiel per lo spessore morale e intellettuale ma anche per l’instancabile impegno militante. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio del ’43 il Gran Consiglio del fascismo vota l’ordine del giorno che porta all’arresto di Mussolini, un mese dopo Curiel viene liberato dal confino e torna in Veneto dove riprende i contatti con amici e compagni lavorando da subito all’organizzazione della Resistenza armata contro l’occupazione nazifascista. Rientrato a Milano ha un ruolo di primo piano nella redazione de «L’Unità» e della rivista «La nostra lotta», stampate e diffuse clandestinamente, diventa il «partigiano Giorgio» e fonda l’organizzazione antifascista “Fronte della Gioventù” che all’inizio del 1945 contava gia’ circa 15mila aderenti. Curiel cadde il 24 febbraio del 1945, a due mesi dalla liberazione di Milano e ad appena 33 anni, ucciso da una banda di fascisti che dopo avergli sparato per strada lo finì dentro un portone nel quale si era rifugiato. Dopo una medaglia d’oro al Valor militare, una lapide e un bellissimo inno partigiano a lui dedicato, nelle miserie dell’italietta della «concordia nazionale», l’oblio ne ha praticamente cancellato la memoria. Curiel, scienziato, comunista e combattente, nonostane la militanza, ebbe anche il modo di sviluppare una originale e matura riflessione politica, a lui si deve ad esempio l’elaborazione della «democrazia progressiva», una concezione Togliatti fece propria nell’immediato dopoguerra facendola divenire l’asse strategico del “partito nuovo”. Oggi nessuno si occupa più di questo giovane comunista morto per liberare il suo Paese, un militante determinante in una lotta di cui non ebbe la fortuna di vedere i frutti nella festa del 25 aprile. Bisognerebbe invece non solo ricordarlo ma riprendere gli studi dedicati alla sua vita e alla sua opera, personalmente mi impegno a farlo, nella convinzione che riportare alla luce questa straordinaria testimonianza di impegno e militanza non sarebbe semplice opera di “archeologia politica”.

1 Quaderni di Rinascita. Trenta anni di vita e lotte del PCI, Roma, Istituto Poligrafico, pag. 187.

 

Gramsci e il nascente americanismo

Gramsci e il nascente americanismo

Si conclude domani la pubblicazione dei Quaderni del carcere

Martedì 21 luglio 2009
Il pensiero gramsciano si definisce nell’ultimo Quaderno scritto in carcere, ricco di temi ancor oggi d’attualità
Con il volume 18 in uscita domani si conclude l’edizione anastatica dei Quaderni del carcere. Contiene i Quaderni dal 22 al 29 e approfondisce temi come l’americanismo, la critica letteraria, il giornalismo, la storia delle classi subalterne, il folclore. Nel primo Gramsci analizza le profonde trasformazioni prodotte nella società americana dall’introduzione del fordismo-taylorismo. Il fascismo e l’americanismo-fordismo sono per Gramsci le due risposte, profondamente diverse, che la civiltà borghese ha dato alla sua “crisi organica” nel Novecento: la prima era una risposta profondamente regressiva, una rabbiosa difesa dell’ordine costituito tradizionale; la seconda costituiva invece una risposta progressiva e razionale – seppur segnata anch’essa da contraddizioni – che avrebbe sancito il passaggio dal vecchio individualismo economico all’economia programmatica. Le due risposte erano conseguenti alla differente composizione sociale in Europa e negli Usa.
L’americanismo, per attuarsi concretamente, necessitava che non esistessero classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo. La civiltà europea era invece contraddistinta dal proliferare di “classi parassitarie” generate dalla ricchezza e complessità della storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito. Quanto più vetusta è la storia di un paese tanto più estese e dannose sono queste «sedimentazioni di masse fannullone e inutili che vivono del patrimonio degli avi, di questi pensionati della storia economica».
Questo processo di razionalizzazione necessitava la creazione di un nuovo tipo di lavoratore plasmato, in ogni suo aspetto, sulle esigenze della produzione e della catena di montaggio. L’espressione usata dall’ingegner Taylor “gorilla ammaestrato” esprime alla perfezione questo fine della società americana: «sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale». Ma per quanto i tentativi di spersonalizzazione del lavoro, propri dell’industrialismo taylorista, potessero essere profondamente pervasivi, secondo Gramsci, l’obiettivo di trasformare l’operaio in “gorilla ammaestrato” era destinato a fallire. Come si cammina, senza il bisogno che il cervello sia impegnato su tutti i movimenti che il camminare comporta, allo stesso modo il lavoro dell’operaio “fordizzato” non avrebbe determinato l’annullamento delle sue funzioni intellettuali e quindi politiche. Il tentativo di brutalizzazione dell’industrialismo mirava a rendere invalicabile la separazione tra lavoro manuale e funzioni intellettuali, ma proprio in questa sua irrealistica aspirazione stava il suo maggior limite.
GIANNI FRESU

 

Risorgimento, la via all’unità nazionale

Risorgimento, la via all’unità nazionale

Gramsci critica l’interpretazione liberale del processo storico

Martedì 14 luglio 2009
Con l’avvicinarsi del 2011 e delle celebrazioni per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, i temi sulla storia del Risorgimento stanno tornando di grande attualità. Gramsci dedica alla questione una grande attenzione e il Volume 17, in uscita domani, contiene proprio il Quaderno 19 sul Risorgimento. Quegli avvenimenti sono stati spesso riletti in chiave politica, sia per contestare l’esito del processo, sia per farne la base ideale del nuovo Stato attraverso la costruzione artificiale di una “biografia nazionale”. Una interpretazione che ha dato luogo a rappresentazioni oleografiche totalmente astratte. L’antistoricità di tale approccio deriva dal fatto che esso impediva contemporaneamente la comprensione della realtà, con cui era in contraddizione, e insieme di cogliere la reale portata dello sforzo compiuto dai protagonisti del Risorgimento. L’analisi del passato d’Italia, dall’epoca romana a quella risorgimentale e post-unitaria, era volta a trovare in esso una unità nazionale di fatto, quindi a giustificare il presente con il passato storico. Secondo Gramsci, si è cercato di sostituire l’adesione organica delle masse popolari allo Stato, con la selezione di “volontari” di una nazione concepita astrattamente. Questo modo di rappresentare gli avvenimenti storici rendeva protagonisti della storia d’Italia personaggi astratti e mitologici e così il problema di ricercare le origini storiche di un evento concreto e circostanziato, la formazione dello Stato moderno italiano, nel secolo XIX, veniva trasformato in quello di «vedere questo Stato, come Unità o come Nazione o genericamente come Italia in tutta la storia precedente così come il pollo deve esistere nell’uovo fecondato».
L’idea che l’Italia sia sempre stata una nazione è per Gramsci una pura costruzione ideologica, un preconcetto, che ha portato la classe intellettuale italiana alle acrobazie più antistoriche per rintracciare questa unità nel passato pre-risorgimentale. In Italia nel XIX secolo non poteva esserci questa unità nazionale perché mancava ad essa l’elemento fondamentale del popolo-nazione e un collegamento stretto di questo con gli intellettuali nazionali. Per queste ragioni le ricostruzioni storiografiche erano in realtà propaganda che cercavano di creare quella Unità basandosi sulla letteratura più che sulla storia; per Gramsci quell’approccio all’unità era un “voler essere” piuttosto che un “dover essere”. Il susseguirsi delle diverse interpretazioni ideologiche sulla nascita dello Stato italiano, legate agli impulsi individuali di singole personalità, è specchio fedele della natura primitiva ed empirica dei vecchi partiti politici e quindi dell’assenza nella vita politica italiana di un movimento organico e articolato potenzialmente capace di favorire uno sviluppo politico-culturale permanente e continuo. Al di là delle valutazioni critiche, il Quaderno 19 introduce una gran quantità di strumenti analitici per comprendere approfonditamente l’evento che più di ogni altro ha segnato la storia moderna e contemporanea del nostro Paese.
GIANNI FRESU

 

Partitocrazia figlia della politica malata

Partitocrazia figlia della politica malata

Il pensatore sardo oltre 70 anni fa anticipò temi ancora attuali

Martedì 07 luglio 2009
La crisi della politica ha monopolizzato anche recentemente le pagine dei giornali interessando le stesse riflessioni del presidente della Repubblica. Il volume 16 in uscita domani riproduce i Quaderni 14, 16 e 17 nei quali questo argomento è ampiamente svolto a partire dalle considerazioni sul partito politico, lo strumento attraverso il quale il rapporto di rappresentanza dovrebbe superare la sua condizione di delega passiva. In realtà esso ha finito per convertirsi in luogo di occupazione e gestione oligarchica dei centri di potere e di perpetuazione esclusiva delle sue funzioni dirigenti. Non a caso è sorta ed è diventata di uso comune l’espressione partitocrazia. Il problema della degenerazione del partito politico riguarda anzitutto le relazioni che sussistono tra le sue parti costitutive – direzione nazionale, quadri intermedi, base di massa – e i suoi meccanismi di selezione e formazione dei gruppi dirigenti. Il rapporto tra questi elementi deve presupporre insieme disciplina e partecipazione; un rapporto organico tra governanti e governati tendente a generare una volontà collettiva, non l’accoglimento passivo e meccanico di ordini da eseguire senza discutere. Se concepita in questo modo, la disciplina non annulla la personalità e la libertà, ma diviene consapevole assimilazione di un indirizzo da realizzare.
Il problema non è la disciplina in quanto tale ma la fonte da cui proviene quell’indirizzo: se questa è democratica, non un arbitrio o un’imposizione esteriore, allora la disciplina diviene un elemento necessario. Per Gramsci il rapporto governanti governati è conseguente alla divisione del lavoro, alla distinzione tra funzioni intellettuali e manuali: «ogni uomo è un filosofo», è l’organizzazione tecnica a farne un diretto e non un dirigente, pertanto se lo scopo principale di un partito consiste nel formare dirigenti il suo dato di partenza deve risiedere nel non ritenere naturale e immodificabile quella distinzione. Il problema dell’assenza di un rapporto organico di rappresentanza in politica non riguardava solo i partiti di élite della tradizione liberale, dove la funzione di direzione era esercitata unilateralmente da uomini di cultura, ma anche i cosiddetti partiti di massa del movimento operaio. Se le masse in un partito non hanno altra funzione al di là della fedeltà militare verso i gruppi dirigenti il rapporto dualistico è esattamente lo stesso: «la massa è semplicemente di manovra e viene occupata con prediche morali, con pungoli messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate».
Un partito serio, non l’espressione arbitraria di individualismi, deve essere portatore di qualcosa di simile allo spirito statale, un sentimento di appartenenza che lega il presente e il futuro con la tradizione e rende i suoi cittadini solidali con l’azione storica delle forze spirituali e materiali nazionali. Allo stesso modo deve esistere uno spirito di partito, un senso di responsabilità generale, da non confondere con la “boria di partito”.
GIANNI FRESU

 

Gramsci contro l’ipocrisia delle regole

Gramsci: Naturale e contro natura. Il significato convenzionale dei valori morali.

Martedì 30 giugno 2009
Per Gramsci, se si vuole comprendere la storia dell’umanità bisogna evitare una sua rappresentazione per compartimenti stagni. La complessità della realtà è data dalle mille sfaccettature in cui si essa si compone, dallo stretto intreccio di elementi diversi che emergono nel movimento dialettico della storia. In tal senso “I Quaderni del carcere” indagano a 360 gradi senza fermarsi né davanti ai templi incensati dell’alta cultura, né di fronte a quegli aspetti della cultura popolare o del senso comune ritenuti frivoli o insignificanti. Trattano, infatti, con la stessa curiosità e assenza di pregiudizio la grande filosofia come i romanzi d’appendice. Il volume 15 in uscita domani contiene il quaderno 11 intitolato “Introduzione alla filosofia”, e il quaderno 16 “Argomenti di cultura”. Tra essi è possibile trovare temi che ancora oggi riempiono le pagine dei giornali. Oggi come allora, ad esempio, determinati comportamenti personali e manifestazioni del costume sono classificati come “naturali” o “contro natura”. Secondo Gramsci, naturale coincide con ciò che si considera giusto e normale sulla base della coscienza storica attuale, anche se noi tendiamo a rappresentarlo in termini assoluti e immutabili. Sulla base di quella coscienza storica, divenuta senso comune, vengono definiti contro natura determinati comportamenti, specie sessuali, riscontrabili invece nel mondo animale.
La natura dell’uomo è determinata dall’insieme dei rapporti sociali che formano una coscienza storica. I modelli culturali, gli stili di vita e i rapporti sociali non sono fissi e omogenei per ogni uomo, luogo e tempo, ma sono in rapporto contraddittorio e in continuo mutamento e soprattutto non hanno nulla a che vedere con la naturalità delle cose. Ciò che in un periodo storico si afferma come necessario e universale è determinato dal tipo di civiltà economica nel quale si è inseriti. Essa non solo definisce l’obiettività e la necessità di un determinato attrezzo per la produzione, stabilisce norme di condotta morale, gli stili educativi, le regole di convivenza di una determinata società. Nella storia capita che certe concezioni morali risultino invecchiate e non più corrispondenti alla realtà e la loro persistenza sia solo formale, esteriore, inducendo «a una doppia vita, all’ipocrisia e alla doppiezza». La facciata della rispettabilità, dell’ossequio ai valori religiosi e familiari parallelamente a una seconda vita all’insegna della trasgressione e dell’edonismo. Nuovamente, il problema non è la naturalità dei comportamenti ma la natura convenzionale dei valori morali e, se vogliamo, la sincerità con cui li si assume come norma di condotta.
Le fasi esasperate di libertinaggio e dissolvimento della morale tradizionale che in genere reagiscono contro questa condizione di doppiezza, annunciano per Gramsci una nuova concezione morale che si va affermando. Con questa chiave di lettura, ad esempio, la stagione di contestazione culturale del ’68 potrebbe essere compresa molto più razionalmente.
G. F.

Gramsci a Cagliari, gli anni difficili della giovinezza

MEMORIA.

Nessuna epigrafe oggi ricorda i luoghi che frequentò durante il periodo del liceo

Gramsci a Cagliari, gli anni della difficile giovinezza

Dal caffè Tramer al Dettori, dal circolo Bruno alla trattoria di Stampace

“L’Unione Sarda”, martedì 30 giugno 2009
Nel 1891, quando nasce Gramsci, l’Italia era impegnata da alcuni anni nella guerra doganale con la Francia ingaggiata da Crispi per difendere la nascente industria nazionale e le grandi produzioni agricole dei latifondi. La Sardegna, travolta nell’87 dal crollo del suo sistema bancario, vide chiudersi improvvisamente il mercato della Francia verso cui era destinato la gran parte delle sue esportazioni, in particolare bestiame, agrumi, vino e olio. Ciò provocò l’ulteriore immiserimento e abbandono delle campagne dove l’unica alternativa era la pastorizia, azzoppata però dal costituirsi tra il 1885 e il 1900 delle prime industrie casearie che imponevano un prezzo del latte talmente basso da impedire qualsiasi ipotesi di sviluppo. L’altra alternativa alla fame erano le miniere, ma anche qui le condizioni di vita e lavoro erano disastrose e, a causa della crisi, a fronte di un costante aumento dello sfruttamento si registrava la diminuzione dei salari, enormemente più bassi rispetto al resto d’Italia. L’Isola era considerata dallo Stato una grande prigione a cielo aperto e così i funzionari statali coinvolti negli scandali venivano mandati qua ad esercitare le loro funzioni. L’insieme di queste condizioni creava in Sardegna una contesto potenzialmente esplosivo dato dalla difficile condizione sociale, dal risentimento verso le “ingiustizie subite”, dal bassissimo prestigio di cui godeva lo Stato italiano presso le masse popolari e i ceti medi, dalla convinzione di ricevere dalle autorità un trattamento da dominio coloniale. Anni segnati dall’eccidio di Buggerru, che non a caso originò il primo sciopero generale della storia d’Italia, e dai moti insurrezionali del 1906 partiti proprio da Cagliari.
Tutto questo è importante perché l’opera di Gramsci non è il grande piano “steso a tavolino” da un intellettuale brillante, si tratta semmai di un lavoro che nasce a tamburo battente nel vivo di lotte sociali, dall’esperienza diretta di una condizione di miseria ed emarginazione sociale. Gramsci arriva a Cagliari nel 1908, dopo gli anni nello “scalcinato” ginnasio di Santu Lussurgiu, e un’infanzia a Ghilarza resa difficile dai problemi di salute e da una condizione economica pesantissima conseguente alla carcerazione del padre. Complice l’isolamento geografico, Cagliari era allora in tutti sensi la capitale della regione, percorsa dai fermenti sociali, dalle prime manifestazioni di una politica di massa, da una certa vivacità culturale testimoniata dall’esistenza di ben tre quotidiani e diversi periodici di approfondimento e polemica politica.
A Cagliari, dove il fratello maggiore Gennaro diviene segretario della sezione socialista e tesoriere della Camera del lavoro, Gramsci si avvicina al socialismo ma non disdegna i temi della rivendicazione sardista. Come egli stesso ricorderà criticamente in seguito, negli anni cagliaritani non era inusuale sentirgli pronunciare la frase “a mare sos continentales”. Nel capoluogo Gramsci divide prima una camera in affitto in Via Principe Amedeo 24, poi si trasferisce in un’umida stanzetta nel Corso Vittorio Emanuele 149, e frequenta il Liceo Classico Dettori allora situato in piazza Dettori nel centro della Marina. Sembra impossibile, eppure in nessuno di questi tre luoghi della città esiste una lapide che ricorda il passaggio dell’autore italiano più studiato e tradotto al mondo insieme a Dante e Machiavelli. Potendo contare su una disponibilità economica che a stento gli consentiva di sopravvivere, solo raramente poteva permettersi un qualche tipo di evasione che comunque non andava mai oltre un caffé da Tramer in Piazza Martiri, o un pasto frugale con il fratello nella trattoria di Piazza del Carmine. Negli anni liceali Gramsci si fa promotore con i suoi compagni del circolo “i martiri del libero pensiero: Giordano Bruno”, dove assume anche il suo primo incarico come tesoriere, entra in contatto con le riviste e i giornali socialisti, compie le sue prime investigazioni filosofiche che lo portano dall’idealismo di Benedetto Croce al materialismo storico di Marx.
Cagliari dà a Gramsci anche l’opportunità di cimentarsi con il giornalismo con le prime corrispondenze per “L’Unione Sarda”. Si potrà obiettare che negli avvenimenti epocali che segnano la sua biografia quelli cagliaritani fossero semplici episodi, eppure è in quegli anni che Gramsci forma il suo carattere, inizia a forgiare le sue attitudini intellettuali e la sua propensione alla militanza politica. Anni importanti dunque, che forse meriterebbero di essere indagati più in profondità di quanto si sia finora fatto.
GIANNI FRESU

Ecco il moderno principe del popolo

Ecco il moderno principe del popolo

Antonio Gramsci applica al marxismo la lezione di Machiavelli

Martedì 23 giugno 2009
Il volume 14 in uscita domani raccoglie i Quaderni 10, 12, 13 e 18, probabilmente tra i più significativi dell’opera carceraria. I primi due si occupano della filosofia di Benedetto Croce e degli intellettuali nella storia d’Italia; gli altri due analizzano gli scritti di Machiavelli attorno al problema della costruzione di un grande Stato nazionale in Italia, sul modello di quanto avvenuto in Francia e Spagna. Per quanto anche in Machiavelli fosse presente un richiamo al passato di Roma, l’esigenza dello Stato non era ricondotta alle glorie dell’antichità, non aveva significato retorico letterario, ma era desunta da specifiche necessità del presente. Il Segretario fiorentino ha il merito di aver pensato la politica come scienza autonoma con le sue leggi e problematiche peculiari. Sebbene ritenesse esagerate certe rappresentazioni di Machiavelli come scienziato della politica per eccellenza, attuale in ogni tempo, Gramsci nutriva nei suoi confronti un interesse che non era di semplice ricostruzione storiografica.
Come Il Principe aveva posto l’obiettivo della creazione di un moderno Stato unitario in Italia, in una fase di assoluta disgregazione nazionale, così Gramsci si proponeva allora di scrivere un Moderno Principe che affrontasse in termini politici il tema della fondazione di un nuovo Stato, quello dei lavoratori, in una fase di sconfitta e arretramento del movimento operaio. Gramsci ipotizzava la stesura di un Moderno Principe inteso non più come una singola persona ma come un organismo che incarna “plasticamente” la volontà collettiva delle masse popolari, egli pensava ad un moderno partito comunista di massa. Il Principe di Machiavelli non era una fredda utopia ma un “libro vivente”, perché riusciva a fondere l’ideologia e la scienza politica con il mito, perché in esso la concezione politica si impersonava in un condottiero ideale che pur non esistendo nella realtà storica immediata, rappresentava la volontà collettiva di un popolo disperso e polverizzato; un libro che attraverso la sua forma fantastica e artistica aveva la capacità di stimolare, persuadere, suscitare l’organizzazione di quella volontà collettiva. La modernità del Principe stava nella comprensione che senza l’irrompere delle grandi masse nella vita politica non era possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare. Questa intuizione era contenuta nell’idea della riforma della milizia per sostituire i mercenari con una milizia nazionale attraverso l’ingresso delle masse contadine. Dalla restaurazione del 1815 in poi tutta la storia mostrava invece lo sforzo delle classi dominanti per impedire questa irruzione.
L’idea gramsciana di un Moderno Principe, vale a dire l’edificazione di un partito reale espressione delle masse popolari, aveva quale suo intento principale proprio la rottura di questo “equilibrio passivo” tramite la realizzazione di una “riforma intellettuale e morale”, ossia una profonda riforma politica ed economica capace di porre fine alla condizione di subalternità, anzitutto sul piano economico-sociale, delle masse popolari.
GIANNI FRESU

 

Forza e consenso nello Stato etico

Forza e consenso nello Stato etico

Rinchiuso in cella Gramsci elabora il modello politico e sociale

Martedì 16 giugno 2009
Insieme all’ideologia, Gramsci ha condiviso con Marx la grande attenzione e ammirazione verso la borghesia e il suo modello politico-sociale. Entrambi aspiravano a fare del socialismo l’erede della borghesia più che il suo becchino. Così non è un caso se i due teorici del comunismo siano tra i più grandi studiosi della storia della borghesia e del capitalismo. I “Quaderni del carcere” sono una delle più alte manifestazioni di questa attenzione e il volume 13, in uscita domani, ne è una significativa testimonianza. Ciò che distingueva maggiormente la borghesia nella sua fase rivoluzionaria – scrive Gramsci -, era la sua capacità di includere altre classi sociali e dirigerle attraverso lo Stato, l’egemonia politica e sociale. Mentre nel feudalesimo l’aristocrazia, organizzata come “casta chiusa”, non si poneva il problema di inglobare le altre classi, la borghesia si rivela ben più dinamica e mobile puntando all’assimilazione del resto della società al suo livello economico e culturale. Questo muta profondamente la funzione dello Stato rendendolo “educatore”, anche attraverso la funzione egemonica del diritto nella società.
La borghesia storicamente opera a rendere omogenee (per costumi, morale, senso comune) le classi dirigenti e creare un conformismo sociale capace di consolidarne il potere, attraverso una combinazione di forza e consenso. In questo modo riesce a irreggimentare e dirigere con schemi culturali propri anche le classi dominate. Ogni Stato è etico nella misura in cui opera per elevare l’insieme della popolazione a un livello culturale e morale confacente allo sviluppo delle forze produttive e agli interessi delle classi dominanti. Tale importantissima funzione trova nella scuola e nei tribunali le attività statali fondamentali, anche se in realtà esse non sono le sole. Devono essere comprese nel concetto di Stato etico anche l’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti. Così la definizione di Stato etico di Hegel, a cui si fa in genere riferimento nella storia delle dottrine politiche, è propria della fase nella quale la tendenza espansiva della società borghese appariva illimitata.
La natura universale dei valori della società borghese e l’eticità della sua organizzazione statuale si sarebbe potuta esprimere nella trasformazione borghese dell’intero genere umano. La capacità espansiva della borghesia però si ritrae nelle fasi di “crisi organica”, come nella prima recessione del capitalismo mondiale alla fine dell’Ottocento e nella crisi che ha preceduto e seguito la prima guerra mondiale. In queste fasi all’egemonia si sostituisce la forza. Gramsci parla di “rivoluzioni passive” per descrivere quelle fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le riforme vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Il fascismo è uno degli esempi più emblematici di ciò, ma non il solo.
GIANNI FRESU

 

La crisi della politica vista da Gramsci

La crisi della politica vista da Gramsci

Nei Quaderni del carcere anticipò temi oggi sempre di attualità

Martedì 09 giugno 2009
Uno dei temi più ricorrenti in Gramsci riguarda il rapporto tra governanti e governati alla luce delle degenerazioni leaderistiche e carismatiche nella direzione politica. Un esempio in tal senso è contenuto nel Quaderno 6, riprodotto nel Volume 12 in uscita domani, che affronta una serie assai vasta di argomenti ma trova proprio su questo tema alcuni passaggi di assoluta attualità. In essi l’intellettuale sardo si sofferma sul significato negativo assunto dai termini “ambizione” e “demagogia” nel linguaggio politico, per il semplice fatto che si tende in genere a confondere la “grande” con la “piccola ambizione”. L'”ambizione” è così associata all’opportunismo arrivista, al tradimento dei propri ideali e del proprio gruppo sociale per ottenere un maggior guadagno immediato. In realtà queste sarebbero le “piccole ambizioni”, cioè un atteggiamento mentale che spinge alla fretta, ad evitare le difficoltà e i pericoli che l’impegno politico comporta, per conseguire subito un risultato anche se modesto o meschino.
Tuttavia la politica non è concepibile senza ambizione, così come non può esistere un “capo” che non miri all’esercizio del potere, però anche in questo caso il problema non è l’ambizione in sé ma la natura dei rapporti che intercorrono tra il “capo” e la massa con cui si persegue quella “grande ambizione”. Il problema è se l'”ambizione” del capo si eleva dopo aver fatto attorno a sé il deserto, o se questa ambizione è associata alla crescita di tutto uno strato sociale.
Le stesse osservazioni valgono poi per la cosiddetta demagogia, essa è infatti associata alla tendenza generale che porta servirsi delle masse suscitandone l’entusiasmo, sapientemente eccitato e nutrito, con il solo scopo di perseguire le proprie “piccole ambizioni”, che possono poi assumere le forme del parlamentarismo democratico o del bonapartismo plebiscitario e autoritario. Ma se il capo non considera le masse “carne da cannone”, uno strumento buono per raggiungere i propri scopi e poi gettare via, e invece le rende protagoniste storiche di un fine politico organico e generale, la demagogia assume una funzione positiva. La tendenza del demagogo deteriore è quella di rendere se stesso insostituibile, far credere che dietro di lui ci sia solo l’abisso, a tal fine egli elimina ogni possibile concorrente ponendosi direttamente in rapporto, strumentale, con le masse attraverso «il plebiscito, la grande oratoria, i colpi di scena, l’apparato coreografico fantasmagorico». Mentre per Gramsci il capo politico, non mosso dalla piccola ambizione, concorre a creare uno strato intermedio tra sé e la massa, «tende a suscitare possibili concorrenti ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo» in qualsiasi momento. È il grande tema della partecipazione e del rapporto di rappresentanza, vale a dire dei nodi che ancora oggi animano il dibattito sulla cosiddetta “crisi della politica”. Problematiche rispetto alle quali i Quaderni del carcere continuano ad essere, a tanti anni di distanza, un’opera insostituibile.
GIANNI FRESU

 

Un paese senza sentimento nazionale

Un paese senza sentimento nazionale

Gramsci illustra le radici storiche della mancata unità d’Italia

Martedì 02 giugno 2009
Uno dei temi maggiormente indagato nei Quaderni, e presente nell’undicesimo volume in uscita domani, riguarda la mancata formazione di uno Stato italiano unitario nell’età moderna e la tradizionale assenza di un sentimento “nazionale” paragonabile a quello sviluppatosi con la nascita dei grandi Stati assoluti. Le radici storiche di questa assenza andavano ricercate indietro nel tempo. La funzione storica dei Comuni e della borghesia italiana, nella stagione della sua prima fioritura, fu per Gramsci disgregatrice dell’unità esistente e non seppe trovarne forme nuove e più avanzate. Quando gli altri paesi iniziarono ad acquisire una coscienza nazionale e ad organizzare proprie culture nazionali, l’Italia perse la sua funzione di centro internazionale di cultura senza dar luogo, a sua volta, ad un proprio processo di aggregazione nazionale. I suoi intellettuali non si nazionalizzarono e anzi finirono per staccarsi dal proprio territorio sciamando all’estero, per insediarsi nelle corti europee.
L’arresto nello sviluppo e la mancata integrazione nazionale della borghesia italiana, poi spazzata via dalle invasioni straniere, è stata imputata storicamente a fattori esterni: l’invasione turca nel vicino e medio oriente, con l’interruzione dei commerci con il levante; lo spostarsi dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico con la scoperta delle Americhe. In realtà queste non potevano essere considerate le cause della decadenza delle repubbliche italiane semmai l’effetto. La borghesia – sottolinea Gramsci – si sviluppò meglio negli Stati assoluti, esercitando un potere indiretto, piuttosto che in Italia, dove disponeva di tutto il potere. Machiavelli aveva compreso che né il Comune né la signorìa comunale potevano dirsi Stato poiché ad essi mancava un vasto territorio e una popolazione che consentissero una politica internazionale autonoma. Pertanto la borghesia italiana fu la prima a comparire e dar luogo a forme significative di accumulazione capitalistica, ma poi non seppe andare oltre la sua dimensione corporativa-municipale subendo un processo di involuzione che la portò ad abbandonare i commerci e il rischio degli investimenti produttivi in favore della rendita fondiaria.
La borghesia – scrive Gramsci – finì per assumere i tratti parassitari tipici delle vecchie aristocrazie, mentre gli intellettuali mantennero il loro carattere cosmopolita senza divenire mai nazionali. Il cosmopolitismo della tradizione istituzionale e intellettuale italiana – tramandatosi dall’Impero romano alla Chiesa – è una delle cause che portò la penisola a subire passivamente i rapporti internazionali durante il Medio Evo. In Italia la Chiesa, con il suo duplice ruolo di monarchia spirituale universale e principato temporale, non fu mai tanto forte da occupare tutta la penisola né tanto debole da consentire che altri lo facessero. «La tradizione dell’universalità romana e medievale impedì lo sviluppo delle forze nazionali (borghesi) oltre il campo puramente economico-municipale, cioè le forze nazionali non divennero forza nazionale che dopo la Rivoluzione francese».
GIANNI FRESU