Tra rimozioni e omissioni. I 100 anni del PCI e il vizio del giudizio interessato

Le vicende del PCI si intrecciano strettamente alla costruzione della nostra democrazia repubblicana, a partire dal ruolo assunto da quest’organizzazione nel corso della resistenza e, prima ancora, durante gli anni bui del fascismo trionfante. Tra gli sforzi che il PCI ha condotto con maggior efficacia tra il 1943 e il 1945 c’è senz’altro la lotta contro il cosiddetto “attesismo” di una parte delle forze antifasciste e quella parallela per favorire la partecipazione non solo militare del popolo alla lotta di liberazione nazionale. Il protagonismo nella liberazione del Centro Nord da parte delle divisioni partigiane ha avuto delle conseguenze sullo status post-bellico dell’Italia, contribuendo non poco a un fatto troppo spesso sottovalutato: delle tre nazioni un tempo facenti parte del «Patto tripartito», solo l’Italia vanta una Costituzione frutto di un processo di partecipazione popolare così ampio e socialmente avanzato, non una semplice emanazione degli eserciti occupanti.

Al di là di questo dato di fatto storico, è importante valutare la portata di un simile processo di partecipazione popolare rispetto a una Costituzione che, sia nei primi 3 articoli, sia in quelli di previsione economico-istituzionale, non si limita a disegnare l’impianto di uno Stato gendarme che detta le regole e si limita a farle rispettare. La Costituzione del 1948 nasce con un obbiettivo radicalmente nuovo rispetto al vecchio Statuto prefascista: attribuire alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.  Come è stato scritto sovente, essa nasce dalla fusione delle tre principali culture politiche del Paese (cattolica, liberale e marxista) sforzandosi di conciliare i concetti di uguaglianza formale e sostanziale, in un nuovo quadro più avanzato orientato al progressivo ampliamento degli spazi di democrazia politica, economica e sociale con il compito di garantire la partecipazione permanente e il protagonismo dei lavoratori nella vita del Paese. Dunque non solo l’idea di libertà negativa, propria della tradizione liberale (la cosiddetta «libertà da»), intesa come intangibilità da parte dello Stato della sfera individuale privata, ma anche quella di libertà positiva, di tradizione democratica e socialista (la cosiddetta «libertà di»), intesa come diritto del popolo a essere parte attiva e protagonista, non passiva e subalterna, dei processi decisionali, nella quale la rimozione degli ostacoli economico sociali all’esercizio dell’effettiva uguaglianza formale assume un ruolo inedito nella storia dell’Italia.

La storia come regolamento di conti

Il mio maestro, Domenico Losurdo, ha dedicato molti studi alla storia del pensiero liberale, tuttavia, il suo lavoro di indagine critica non intendeva disconoscere i meriti e le forze di questa grande tradizione filosofica, ma scegliere il terreno reale della storia, superando le molteplici rimozioni e trasfigurazioni che hanno caratterizzato alcune sue narrazioni apologetiche. Un’analoga cautela metodologica, che evitasse tanto l’agiografia quanto la liquidazione sistematica, non sembra essere stata riservata alle vicende storiche che riguardano il centenario del PCI. Così, “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “La Repubblica”, tutte le grandi testate nazionali si sono unite in una nuova Santa Alleanza, cementata dallo stridore di maledizioni che avrebbero dovuto incenerire tutto quel che quella storia ha rappresentato. All’interno di questa narrazione demonizzante, non si coglie nemmeno il più piccolo sforzo per tentare di comprendere l’originalità e la funzione progressiva di questa organizzazione, in un contesto storico denso di contraddizioni interne e internazionali. Va bene prestare attenzione alle contraddizioni, che in quella storia non furono certo poche, ma come si può non avere alcuna curiosità verso la sua ricchezza culturale? Come omettere il suo contributo pedagogico alla socializzazione politica di massa in Italia, ossia al fatto che questo partito è stato comunque strumento di alfabetizzazione e formazione politica, veicolo di partecipazione collettiva per milioni e milioni di “cafoni” (operai, contadini, muratori, lavoratori in genere) fino ad allora esclusi dalla politica e divenuti improvvisamente soggetto attivo e cosciente della vita nazionale? Tutto questo in un Paese storicamente dominato da equilibri sociali regressivi tra le classi, dalle rivoluzioni passive e dal ricorso sistematico al trasformismo che, dal Risorgimento al fascismo, hanno sempre avuto la funzione operativa di escludere e rendere ancora più subalterne le masse popolari. Un pezzo di “riforma intellettuale e morale”, sicuramente incompleto di cui, pur tra mille limiti, quel gruppo dirigente aveva consapevolezza[1].

 

Ma se veramente questa storia non rappresenta nulla e non ha lasciato tracce, solo fallimenti, perché ogni giorno tutti questi intellettuali in servizio permanente nella difesa dello stato di cose presenti sente il bisogno di mobilitarsi per delegittimarne la memoria e cancellare preventivamente la possibilità di trarne insegnamento per il futuro? Questa volontà censoria, infarcita di scomuniche e maledizioni fino alla settima generazione, ci dice semmai l’esatto contrario di quanto raccontato; in realtà, quelle vicende fanno ancora paura a tanti, sebbene nella politica attuale nessuno abbia ancora avuto la forza, la voglia e l’intelligenza di raccoglierne l’eredità.

Si possono avere diverse opinioni in merito alla sua linea politica, condividerne o meno premesse e prospettive ideologiche, resta innegabile l’importanza di quest’organizzazione di massa nella storia d’Italia del XX secolo. Tale riconoscimento non significa omettere le contraddizioni e i limiti della sua traiettoria politica, ma valutarle unitamente ai contenuti progressivi della sua funzione storica.

La peculiarità del PCI nel panorama del comunismo internazionale, tuttavia, non riguarda solo il suo peso nelle vicende sociali, politiche e culturali di un Paese la cui collocazione nel blocco occidentale era considerata inderogabile, come le trame eversive e la strategia della tensione nel corso del dopoguerra hanno drammaticamente dimostrato. La vera originalità del comunismo italiano riguarda lo sforzo compiuto dai suoi gruppi dirigenti teso a tradurre i principi del marxismo e il contenuto universale della Rivoluzione russa nelle peculiarità della nostra realtà nazionale. Non si trattava di ripetere formule ideologiche generali, né pretendere di riproporre pedissequamente in Italia modelli affermatisi altrove. Come Gramsci scrisse nel Quaderno 7, «il compito era essenzialmente nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza»[2], ossia, inserirsi nelle articolazioni egemoniche della sua società civile, comprendendone l’essenza e originalità.

Fondazioni e rifondazioni

Nella storia del Novecento, le vicende del Partito comunista italiano hanno dato luogo a ricerche e approfondimenti tanto estesi da trovare un corrispettivo solo nel grande interesse verso il Fascismo, sicuramente l’argomento storico-politico italiano più sottoposto a indagine scientifica. Eppure, in questo colossale lavoro di ricostruzione storica ci sono alcune “zone d’ombra” tra le quali spicca senz’altro la mancata o insufficiente storicizzazione della corrente di Amadeo Bordiga, principale artefice e protagonista della nascita del PCd’I. La tendenza a considerare Gramsci il fondatore del “Partito nuovo” è il risultato di una rappresentazione dei fatti strumentale, funzionale alle sue esigenze interne di lotta politica. Tuttavia, cambiato il quadro storico e svanite le necessità dialettiche che ne avevano determinato l’affermazione, una simile visione dei fatti è sopravvissuta allo stesso PCI, così ancora oggi è diffusa l’idea di un “Gramsci padre fondatore del Partito”.

Il PCd’I, Sezione italiana della III Internazionale, nasce a Livorno il 21 gennaio del 1921. A sottolineare con più decisione la sua radice nazionale, a seguito dello scioglimento dell’Internazionale comunista, assume poi il nome di Partito comunista italiano il 15 maggio del 1943. Tuttavia, la scelta di una più netta contestualizzazione nazionale dell’organizzazione nasce ben prima del 1943, con la profonda svolta impressa da Gramsci alla sua direzione politica tra il 1925 e il ‘26. Le Tesi del Congresso Lione del ‘26 sono state definite l’asse fondamentale della sterzata operata nella storia dei comunisti in Italia, sia in rapporto alla concezione del partito, sia per l’analisi della società. In entrambi i casi si giunge al superamento completo delle Tesi elaborate da Bordiga per il Congresso di Roma, dopo il profondo mutamento nella direzione politica del Partito sotto la guida di Antonio Gramsci.

Il Congresso di Lione si svolse nel vivo del secondo colpo di Stato di Mussolini, quando il regime si sbarazzò, definitivamente, delle residue tutele statutarie alla pluralità democratica, cancellando anche per via normativa quelle libertà individuali e collettive già di fatto conculcate. Le Leggi fascistissime posero al vertice dello Stato il Gran Consiglio del fascismo, cui furono attribuiti gran parte dei poteri prima spettanti al Parlamento. Fu istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, ripristinata la pena di morte, istituzionalizzata la milizia paramilitare del Partito fascista – rinominata Milizia volontaria per la sicurezza nazionale – fascistizzati i codici di procedura civile e penale. Soppressi con i partiti e le associazioni, tutti i sindacati, tranne quello fascista. L’occasione per passare alle vie di fatto fu il fallito attentato a Mussolini del 31 ottobre 1926, tuttavia, già in agosto Gramsci aveva previsto la messa fuori legge del partito indicando la necessità di preparare più rapidamente un’efficiente struttura clandestina. Nel giro di poche settimane si mise in moto la macchina repressiva, preparata per via normativa nei mesi precedenti, perfezionando i meccanismi e gli apparati della persecuzione legale delle opposizioni, a partire dall’annullamento di tutti i passaporti per l’estero. Per l’organizzazione comunista, come per tutte le altre forze antifasciste, si aprì il baratro di un’ancora più aperta dittatura poliziesca, un’autentica «caccia all’uomo»[3], strada per strada: le squadre fasciste, ora totalmente coperte dalla legge, devastarono sezioni, sedi di partiti, di sindacati e redazioni di giornali, praticando l’uso indiscriminato del terrore. I vertici del Partito comunista, anzitutto Gramsci, furono arrestati, iniziando il loro calvario nei Tribunali speciali tra le galere e il confino coatto. L’azione repressiva fu estremamente efficace nel dicembre del 1926 un terzo degli aderenti al Partito si trovò in stato di detenzione. Non è questa la sede per affrontare dettagliatamente tali vicende, peraltro ampiamente trattate in numerose pubblicazioni di ricostruzione storiografica e memorie. Basti qui ricordare il punto di non ritorno, scatenato tra il 1926 e il ‘27, per comprendere il clima da cui prende le mosse la fuoriuscita degli antifascisti[4] scampati all’arresto e le immense difficoltà da cui prende le mosse la clandestinità dei temerari che trovano il coraggio di sfidare comunque il fascismo, restando in Patria, con il proposito di opporvisi[5]. In questo clima fu una donna protagonista dell’immediata ricostituzione di un Ufficio di segreteria clandestino, Camilla Ravera, che così ricostruisce l’avvio della vita clandestina in una sua memoria:

In una piccola casa di campagna, nei dintorni di Genova, a Sturla, nel novembre 1926, avevo organizzato la segreteria clandestina del partito comunista: vi si entrava per una strada pietrosa, stretta tra folte siepi e robusti muretti; (…) L’avevo scelta proprio per quel giardino che la isolava e confondeva tra le altre simili sparse in quella campagna. (…) Apparentemente in quella casa stavamo sempre soltanto in tre: io, Giuseppe Amoretti e Anna Bessone. Per dare alla nostra vita un aspetto normale, simile a quello delle famiglie residenti là intorno avevamo preso un’anziana donna del luogo, molto sorda, che ogni mattina veniva due ore a riordinare le stanze occupate al piano terra; quelle del piano superiore figuravano disabitate. (…) Verso sera incominciavano gli incontri, le discussioni fra noi del centro, con i compagni arrivati da altri luoghi. Sovente le discussioni si prolungavano fino a tarda notte; e i compagni di passaggio dovevano essere ospitati nelle stanze superiori della casa, e partire l’indomani alla spicciolata, senza lasciar traccia. Per questo Ignazio Silone aveva dato alla nostra sede il nome di Albergo dei poveri[6].

Tutto ciò è confermato anche dai resoconti del potentissimo ed efficiente capo della polizia Arturo Bocchini, che, nella sua relazione di fine anno, nel 1927, rilevò con soddisfazione come, dopo l’applicazione del Testo unico della Legge di sicurezza pubblica, ogni attività dei partiti di opposizione del regime potesse dirsi totalmente stroncata. Come sottolineato nelle note del “viceduce”, c’era una sola eccezione, il Partito comunista italiano[7]. Quest’organizzazione, nonostante le ondate repressive che di volta in volta decapitarono la sua rete, mantenne sempre un’articolazione clandestina grazie all’afflusso di nuovi aderenti, specie giovani. Tra il 1926 e il ‘43, sui 4.671 condannati dal Tribunale speciale fascista, 4.030 erano membri del partito comunista, mentre dei 28.671 anni di carcere comminati, quasi 24.000 riguardarono suoi dirigenti e militanti[8].

Come è noto, a partire dalla fine degli anni Trenta e soprattutto nella lotta di liberazione nazionale il Partito comunista diviene un soggetto politico capace di attrarre studenti, operai, artisti, letterati, docenti universitari. Da piccolo partito di quadri, presente, e limitatamente, solo in determinate realtà del Paese, diviene la principale organizzazione politica della Resistenza, fino a risultare inaspettatamente il primo partito della sinistra italiana e il più grande partito comunista del campo occidentale.

Sembra quasi impossibile una simile trasformazione, tenuto conto della marginalità e della cultura minoritaria al momento della sua nascita e negli anni di affermazione del Fascismo. Una prima spiegazione andrebbe ricercata forse nella già citata tenacia con cui, anche negli anni più duri della repressione fascista, il PCd’I si sforzò di mantenere in Italia una sua struttura operativa clandestina, anziché limitarsi a trasferire all’estero tutta la sua organizzazione. Tuttavia, sebbene importante, la presenza ostinata dei comunisti nel Paese lungo tutto il ventennio mussoliniano non spiegherebbe da sola un fenomeno di crescita tanto esponenziale. Su esso ha probabilmente influito anche l’evoluzione della sua linea, capace di abbandonare gli approcci settari e minoritari delle origini fino ad aderire con maggiore plasticità alle condizioni nazionali, divenendo un partito di massa per molti versi erede della tradizione organizzativa e sociale del vecchio socialismo.

 

Transizione

Le Tesi di Lione rappresentano uno spartiacque essenziale, sicuramente il punto più alto nel quale l’elaborazione teorica e la direzione politica di Gramsci trovano un punto d’intesa elevatissimo. Nella biografia di Gramsci queste rappresentano un punto di continuità tra le battaglie precedenti il 1926 e le riflessioni carcerarie, la testimonianza più vivida di quanto sia impossibile separare il Gramsci politico e militante dal Gramsci “disinteressato” o “uomo di cultura”. La svolta di Lione costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza, quanto nella fase successiva alla Liberazione; è l’antefatto più pregnante del profondo mutamento nell’iniziativa dei comunisti tra il VII Congresso del Comintern e la “svolta di Salerno” del 1944. Il risultato più fecondo di questa svolta fu il concepire in termini organici le tematiche della lotta al fascismo e quelli della ricostruzione democratica a partire dalla stagione costituente. Il punto d’intesa tra questi due momenti era l’idea della democrazia progressiva, vale a dire, la prospettiva di un permanente allargamento degli spazi di democrazia economica, sociale e politica, tali da consentire al mondo del lavoro di conquistare posizioni di forza, in un processo di transizione democratica al socialismo.

 

Questione nazionale

Bisognava rimuovere le radici economico sociali del fascismo, ossia la natura monopolistica di un certo suo capitalismo, il parassitismo oligarchico, causa congenita del sovversivismo reazionario di parte significativa delle sue classi dirigenti. Per raggiungere questo obiettivo, così come per quello propedeutico della liberazione dell’occupazione nazifascista, era essenziale trovare un’intesa unitaria con le altre forze popolari del Paese, non solo i socialisti ma anche e soprattutto le masse cattoliche. Al di là di miti e leggende sulla presunta “doppiezza togliattiana”, nella scelta operata con la svolta di Salerno nel 1944, e in quelle successive, fino all’approvazione della Costituzione repubblicana non c’era alcun “abile espediente tattico”, si trattava di scelte strategiche conseguenti alla ricerca di un’originale via italiana al socialismo, frutto delle specificità storiche, culturali e sociali della concreta realtà nazionale in cui i comunisti intendevano agire.

A prescindere dalla nostra visione del mondo, dall’aderire a questa o a quella tendenza storica, l’insieme di tali vicende meriterebbe maggior attenzione e rispetto, non tanto per assolvere alle legittime e pur importanti esigenze commemorative, ma per meglio comprendere le origini  della nostra democrazia repubblicana e il travaglio umano che la generò, dunque, mi permetto di aggiungere, anche per difenderla con più convinzione e cognizione di causa da ogni attacco o tentazione di involuzione autoritaria.

 

Gianni Fresu

[1] P. Togliatti, Il partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma, 1961, p. 136-137.
[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, p. 866.
[3] L’espressione è di Velio Spano.
[4] Nel mese di dicembre viene costituito il Centro estero del PCd’I a Parigi con Grieco, Togliatti e Tasca.
[5] «Continuano a lavorare in Italia Camilla Ravera, Paolo Ravazzoli, Alfonso Leonetti, Ignazio Silone, Luigi Ceriana, Carlo Venegoni, Pietro Tresso e Teresa Recchia. Camilla Ravera che si assume il compito di riorganizzare il centro interno del partito, provvede a prendere una serie di misure importanti. Viene scelta Genova come sede dell’Ufficio di segreteria e di altri uffici, mentre l’ufficio sindacale diretto da Ravazzoli si costituisce a Milano», P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano. Gli anni della clandestinità, Editori Riuniti, Roma, 1969, vol.II,
[6] C. Ravera, in I comunisti nella storia d’Italia, C. Pillon (a cura di), Edizioni del calendario, Roma, 1967.
[7] D, Carafoli, G. Bocchini Padiglione, Il viceduce. Arturo Bocchini capo della polizia fascista, Mursia, Milano 2013
[8] A. Colombi, Nelle mani del nemico, Editori Riuniti, Roma, 1971.

Gramsci in Brasile. Un esempio riuscito di traducibilità filosofica

Gramsci in Brasile. Un esempio riuscito di traducibilità filosofica, (a cura di) Gianni Fresu, Luciano Aliaga, Marcos Del Roio, Meltemi, Milano, 2022, ISBN, 9788855196963, (366 pagine)

Grazie a un crescente interesse internazionale, l’opera di Antonio Gramsci è oggi ritenuta di fondamentale importanza per ambiti scientifici molto diversi tra loro, trovando traduzione (in senso filosofico e non solo linguistico) all’interno di realtà profondamente diverse da quelle di cui egli si occupò in forma prevalente. In questo panorama il Brasile è uno dei laboratori più attivi e stimolanti, anzitutto perché il suo pensiero è qui rielaborato e attualizzato in maniera originale alla luce delle peculiarità culturali e sociali nazionali. In una realtà come quella brasiliana, storicamente segnata da forme atipiche di modernizzazione dall’alto, con ricorrenti sospensioni delle libertà costituzionali e colpi di Stato autoritari, alcune categorie gramsciane hanno trovato applicazioni analitiche e politiche sorprendenti. Una riappropriazione creativa del lascito gramsciano, funzionale tanto alla rilettura della complessa storia coloniale di questo Paese quanto alla comprensione delle grandi contraddizioni che ancora oggi ne segnano la vita politica.

Antonio Gramsci. An Intellectual Biography.

Antonio Gramsci. An Intellectual Biography, Palgrave Macmillan, “Marx, Engels, and Marxisms” (series editors: Marcello Musto, Terrel Carver, Cham, 2022, ISBN 978-3-031-15609-0. (404 pagine).

This intellectual biography aims to provide an organic framework of Antonio Gramsci’s process of intellectual development so as to approach its main categories without taking them out of context in regard to the human, philosophical, and political framework in which they emerged. Different needs and perspectives coexist in the figure of Antonio Gramsci, but his theoretical formulations as a whole are developed within a structure of remarkable continuity. That does not mean he is always identical to himself; on the contrary, on many issues, his reasoning develops, becomes more complex, takes different turns, and changes some initial judgements. The Gramsci in Notebooks cannot be overlaid by the young director of L’Ordine Nuovo, or by the communist leader, because his development did not occur under conditions of intellectual inflexibility, of absence of evolution. However, the alleged ideological division between before and after, whereby a “political Gramsci” tends to oppose Gramsci as a “cultivated man,” is the outcome of a distortion created by needs that are essentially political. The Sardinian intellectual’s life is marked by the drama of World War I, the first mass conflict in which the great scientific discoveries of the previous decades were applied on a large scale and in which millions of peasants and workers were literally sent to slaughter. In all of his theoretical formulations, this dual relation, which epitomizes the instrumental use of “simpletons” by ruling classes, goes beyond the military context of the trenches and becomes full-fledged in the fundamental relations of modern capitalist society. In contrast with this notion of social hierarchy, which is deemed natural and unchangeable, Gramsci constantly affirms the need to overcome the historically determined rupture between intellectual and manual functions, due to which the existence of a priesthood or of a separate caste of specialists in politics and in knowledge is made necessary. It is not the specific professional activity (whether material or immaterial) that determines the essence of human nature: to Gramsci, “all men are philosophers.” In this passage from Notebooks, we find the condensed form of his idea of “human emancipation,” which is the historical need for an “intellectual and moral reform”: the subversion of traditional relations between rulers and ruled and the end of exploitation of man by man.

CATEGORIE GRAMSCIANE E TRADUCIBILITÀ FILOSOFICA

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE E SOCIALI

Attività attributiva di crediti liberi nei corsi di laurea del Dipartimento Anno accademico 2020-2021- Numero di crediti: 2 cfu – SSD: SPS/01

CATEGORIE GRAMSCIANE E TRADUCIBILITÀ FILOSOFICA: Messico, Brasile, Francia, Cuba*

Docente di riferimento Gianni Fresu – giovanni.fresu@unica.it

  • 21 maggio 2021, La formazione filosofica del giovane Gramsci e il tema dell’autonomia dei produttori;
  • 28 maggio, Il rapporto dirigenti diretti e il problema dell’organizzazione;
  • 3 giugno, Emancipazione integrale e spirito di scissione. Il rapporto tra lavoro intellettuale e lavoro manuale;
  • 4 giugno, La traduzione delle categorie di Gramsci in Francia

Paolo Desogus Professore associato per l’Équipe littérature et culture italiennes dell’Université Paris-Sorbonne.

  • 10 giugno, Conferenza di chiusura: La traduzione delle categorie di Gramsci in America Latina

Massimo Modonesi, Profesor Titular C de Tiempo Completo, Centro de Estudios Sociológicos, Facultad de Ciencias Políticas y Sociales, Universidad Nacional Autónoma de México, Programma Visiting Professor/Scientist 2019 (Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni Culturali), finanziato dalla LR 7/2007 della Regione Autonoma della Sardegna.

*il seminario è aperto anche agli studenti dei corsi di laurea in Lingue e letterature moderne europee e americane e Traduzione specialistica dei testi della Facoltà di studi umanistici (docente referente M. Cristina Secci: secci@unica.it)

In collaborazione con   Aulas Abiertas Seminario permanente di studi letterarie linguistici sull’America Latina e Caraibi dell’Università di Cagliari, Gramscilab, International Gramsci Society Brasil

*Tutti gli incontri avranno luogo in Aula A (viale S. Ignazio 76) dalle ore 10:00 alle ore 12:00 e potranno essere seguiti in remoto attraverso la piattaforma di Microsoft Teams.  Eventuali mutamenti di date e orari saranno previamente comunicati.

I cento anni del PCI, La Nuova Sardegna, 17/01/2021

Il centesimo anniversario del PCI a finito per essere l’ennesima occasione di approfondimento persa, vanificata dalla volontà di regolare i conti del passato che soverchia la necessità di capire. “Il Corriere della Sera”, “La Stampa”, “La Repubblica”, tutte le grandi testate nazionali si uniscono in una nuova Santa Alleanza, cementata dallo stridore di maledizioni che dovrebbero incenerire tutto quel che quella storia ha rappresentato. È, ad esempio, il caso del pezzo di Filippo Ceccarelli che apre lo speciale dedicato ai 100 anni del PCI da “Robinson”, a suo modo, paradigmatico e ben rappresentativo dell’approccio oggi prevalente.
Nemmeno il più piccolo sforzo per tentare di comprendere l’originalità e la funzione progressiva di questa organizzazione, in un contesto storico denso di contraddizioni interne e internazionali. Va bene prestare attenzione alle contraddizioni, che in quella storia non furono certo poche, ma come si può non avere alcuna curiosità verso la sua ricchezza culturale? Come omettere il suo contributo pedagogico alla socializzazione politica di massa in Italia, ossia al fatto che questo partito è stato comunque strumento di alfabetizzazione e formazione politica, veicolo di partecipazione collettiva per milioni e milioni di “cafoni” (operai, contadini, muratori, lavoratori in genere) fino ad allora esclusi dalla politica e divenuti improvvisamente soggetto attivo e cosciente della vita nazionale. Tutto questo in un Paese storicamente dominato da equilibri sociali regressivi tra le classi, dalle rivoluzioni passive e dal ricorso sistematico al trasformismo che, dal Risorgimento al fascismo, hanno sempre avuto la funzione operativa di escludere e rendere ancora più subalterne le masse popolari. Un pezzo di “riforma intellettuale e morale”, sicuramente incompleto di cui, pur tra mille limiti, quel gruppo dirigente aveva consapevolezza, così sintetizzato da Palmiro Togliatti gennaio del 1958:
“L’adesione di milioni e milioni di donne e di uomini a un partito che combatte per creare una nuova società, è un fatto nuovo nella vita della nazione. L’Umanità e la nazione diventano consapevoli del loro compito, che è di dominare il mondo dei rapporti sociali e dare inizio al regno della libertà. Noi siamo fieri di essere l’avanguardia consapevole di questo grande movimento”, (P. Togliatti, Il partito comunista italiano, Editori Riuniti, Roma, 1961, p. 136-137).
Nel pezzo di Ceccarelli troviamo solo una lunga sequenza di accuse, luoghi comuni, giudizi taglienti e sconcezze osservate dal buco della serratura del più grande partito comunista dell’Occidente. Ma se veramente questa storia non rappresenta nulla e non ha lasciato tracce, solo fallimenti, perché ogni giorno tutti questi intellettuali in servizio permanente nella difesa dello stato di cose presenti sente il bisogno di mobilitarsi per delegittimarne la memoria e cancellare preventivamente la possibilità di trarne insegnamento per il futuro? Questa volontà censoria, infarcita di scomuniche e maledizioni fino alla settima generazione, ci dice semmai l’esatto contrario di quanto raccontato; in realtà, quelle vicende fanno ancora paura a tanti, sebbene nella politica attuale nessuno abbia ancora avuto la forza, la voglia e l’intelligenza di raccoglierne l’eredità.
Per rivendicare un diverso modo di rapportarsi a questo insieme di problemi, di seguito, un mio articolo pubblicato nella rubrica “Diogene” nel numero de “La Nuova Sardegna” del 17 gennaio 2021.

Quella scissione che cambiò la sinistra

Il 21 gennaio di cento anni fa al XVII Congresso del PSI a Livorno la nascita del Partito comunista italiano

Il 21 gennaio ricorre il centenario della fondazione del PCI, si possono avere diverse opinioni in merito alla sua linea politica, condividerne o meno premesse e prospettive ideologiche, resta innegabile l’importanza di quest’organizzazione di massa nella storia d’Italia del XX secolo. Tale riconoscimento non significa omettere le contraddizioni e i limiti della sua traiettoria politica, ma valutarle unitamente ai contenuti progressivi della sua funzione storica. La peculiarità del PCI nel panorama del comunismo internazionale, tuttavia, non riguarda solo il suo peso nelle vicende sociali, politiche e culturali di un Paese la cui collocazione nel blocco occidentale era considerata inderogabile, come le trame eversive e la strategia della tensione nel corso del dopoguerra hanno drammaticamente dimostrato. La vera originalità del comunismo italiano riguarda lo sforzo compiuto dai suoi gruppi dirigenti teso a tradurre i principi del marxismo e il contenuto universale della Rivoluzione russa nelle peculiarità della nostra realtà nazionale. Non si trattava di ripetere formule ideologiche generali, né pretendere di riproporre pedissequamente in Italia modelli affermatisi altrove. Come Gramsci scrisse nel Quaderno 7, «il compito era essenzialmente nazionale, cioè domandava una ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza», ossia, inserirsi nelle articolazioni egemoniche della sua società civile, comprendendone l’essenza e originalità.

Zonde d’ombra

Nella storia del Novecento, le vicende del Partito comunista italiano hanno dato luogo a ricerche e approfondimenti tanto estesi da trovare un corrispettivo solo nel grande interesse verso il Fascismo, sicuramente l’argomento storico-politico italiano più sottoposto a indagine scientifica. Eppure, in questo colossale lavoro di ricostruzione storica ci sono alcune “zone d’ombra” tra le quali spicca senz’altro la mancata o insufficiente storicizzazione della corrente di Amadeo Bordiga, principale artefice e protagonista della nascita del PCd’I. La tendenza a considerare Gramsci il fondatore del “Partito nuovo” è il risultato di una rappresentazione dei fatti strumentale, funzionale alle sue esigenze interne di lotta politica. Tuttavia, cambiato il quadro storico e svanite le necessità dialettiche che ne avevano determinato l’affermazione, una simile visione dei fatti è sopravvissuta allo stesso PCI, così ancora oggi è diffusa l’idea di un “Gramsci padre fondatore del Partito”.

Oltre Bordiga

Il PCd’I, Sezione italiana della III Internazionale, nasce a Livorno il 21 gennaio del 1921. A sottolineare con più decisione la sua radice nazionale, a seguito dello scioglimento dell’Internazionale comunista, assume poi il nome di Partito comunista italiano il 15 maggio del 1943. Tuttavia, la scelta di una più netta contestualizzazione nazionale dell’organizzazione nasce ben prima del 1943, con la profonda svolta impressa da Gramsci alla sua direzione politica tra il 1925 e il ‘26. Le Tesi del Congresso Lione del ‘26 sono state definite l’asse fondamentale della sterzata operata nella storia dei comunisti in Italia, sia in rapporto alla concezione del partito, sia per l’analisi della società. In entrambi i casi si giunge al superamento completo delle Tesi elaborate da Bordiga per il Congresso di Roma, dopo il profondo mutamento nella direzione politica del Partito sotto la guida di Antonio Gramsci. Come è noto, a partire dalla fine degli anni Trenta e soprattutto nella lotta di liberazione nazionale il Partito comunista diviene un soggetto politico capace di attrarre studenti, operai, artisti, letterati, docenti universitari. Da piccolo partito di quadri, presente, e limitatamente, solo in determinate realtà del Paese, diviene la principale organizzazione politica della Resistenza, fino a risultare inaspettatamente il primo partito della sinistra italiana e il più grande partito comunista del campo occidentale. Sembra quasi impossibile una simile trasformazione, tenuto conto della marginalità e della cultura minoritaria al momento della sua nascita e negli anni di affermazione del Fascismo. Una prima spiegazione andrebbe ricercata forse nella tenacia con cui, anche negli anni più duri della repressione fascista, il PCd’I si sforzò di mantenere in Italia una sua struttura operativa clandestina, anziché limitarsi a trasferire all’estero tutta la sua organizzazione. Tuttavia, sebbene importante, la presenza ostinata dei comunisti nel Paese lungo tutto il ventennio mussoliniano non spiegherebbe da sola un fenomeno di crescita tanto esponenziale. Su esso ha probabilmente influito anche l’evoluzione della sua linea, capace di abbandonare gli approcci settari e minoritari delle origini fino ad aderire con maggiore plasticità alle condizioni nazionali, divenendo un partito di massa per molti versi erede della tradizione organizzativa e sociale del vecchio socialismo.

Transizione

Le Tesi di Lione rappresentano uno spartiacque essenziale, sicuramente il punto più alto nel quale l’elaborazione teorica e la direzione politica di Gramsci trovano un punto d’intesa elevatissimo. Nella biografia di Gramsci queste rappresentano un punto di continuità tra le battaglie precedenti il 1926 e le riflessioni carcerarie, la testimonianza più vivida di quanto sia impossibile separare il Gramsci politico e militante dal Gramsci “disinteressato” o “uomo di cultura”. La svolta di Lione costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza, quanto nella fase successiva alla Liberazione; è l’antefatto più pregnante del profondo mutamento nell’iniziativa dei comunisti tra il VII Congresso del Comintern e la “svolta di Salerno” del 1944. Il risultato più fecondo di questa svolta fu il concepire in termini organici le tematiche della lotta al fascismo e quelli della ricostruzione democratica a partire dalla stagione costituente. Il punto d’intesa tra questi due momenti era l’idea della democrazia progressiva, vale a dire, la prospettiva di un permanente allargamento degli spazi di democrazia economica, sociale e politica, tali da consentire al mondo del lavoro di conquistare posizioni di forza, in un processo di transizione democratica al socialismo.

Questione nazionale

Bisognava rimuovere le radici economico sociali del fascismo, ossia la natura monopolistica di un certo suo capitalismo, il parassitismo oligarchico, causa congenita del sovversivismo reazionario di parte significativa delle sue classi dirigenti. Per raggiungere questo obiettivo, così come per quello propedeutico della liberazione dell’occupazione nazifascista, era essenziale trovare un’intesa unitaria con le altre forze popolari del Paese, non solo i socialisti ma anche e soprattutto le masse cattoliche. Al di là di miti e leggende sulla presunta “doppiezza togliattiana”, nella scelta operata con la svolta di Salerno nel 1944, e in quelle successive, fino all’approvazione della Costituzione repubblicana non c’era alcun “abile espediente tattico”, si trattava di scelte strategiche conseguenti alla ricerca di un’originale via italiana al socialismo, frutto delle specificità storiche, culturali e sociali della concreta realtà nazionale in cui i comunisti intendevano agire.

Pubblicato sul numero in edicola de “La Nuova Sardegna”, (“Diogene”, p. 28) del 17 gennaio 2021

Gianni Fresu

 

Gramsci e l’emancipazione dei subalterni

Paolo Desogus[1]

Recensione al volume Antonio Gramsci l’uomo filosofo di Gianni Fresu, Aipsa, Cagliari, 2019, p. 402, pubblicata su “Critica Marxista”, n.4, settembre 2020 ISSN 0011-152X.

 

Per molto tempo la discussione intorno alla figura di Gramsci è stata dominata da questioni inerenti alla sua biografia e in particolare al suo rapporto con il PCd’I durante gli anni carcerari. Le differenze, peraltro note e discusse, tra quanto teorizzato nei Quaderni e la condotta politica del partito hanno alimentato una ricerca sempre più ossessiva e talvolta pretestuosa sul “tradimento” subito dal pensatore sardo ad opera dei suoi stessi compagni. Attraverso l’impiego di un discutibile armamentario filologico è stata addirittura ipotizzata la sottrazione di un quaderno, allo scopo di censurare una presunta conversione del prigioniero al liberalismo. Numerosi studi hanno già messo a nudo la fragilità di queste spericolate ricostruzioni biografiche, senza tuttavia essere riusciti a frenare del tutto la loro diffusione nella discussione giornalistica. Nonostante le numerose recenti pubblicazioni scientifiche, non di rado di grande qualità, continua infatti a circolare l’immagine di un Gramsci abbandonato, incompreso dai suoi compagni e in definitiva estraneo alla vicenda storica e politica del suo partito. Contro questa tendenza si colloca Antonio Gramsci. L’uomo filosofo di Gianni Fresu (Cagliari, Aipsa edizioni, pp. 402), volume che principalmente svolge una funzione scientifica sul pensatore sardo alla luce dei rivolgimenti di cui è stato protagonista, prima come militante, con alle spalle l’esperienza meridionale in Sardegna, successivamente come dirigente politico nei tumultuosi anni della nascita del Partito comunista d’Italia e dell’avvento del fascismo e poi come pensatore all’interno delle carceri fasciste. Questo libro ha nondimeno il grande merito di soddisfare egregiamente un’esigenza divulgativa per un pubblico di non specialisti. Studiare Gramsci nel suo tempo, attraverso le diverse traiettorie politiche, culturali e sociali che hanno orientato il suo cammino, significa infatti per Fresu rischiararne i motivi biografici, individuare le connessioni dialettiche tra pensiero e prassi e restituire materialità esistenziale e politica alla vicenda umana di uno dei massimi pensatori del Novecento italiano che, ancora oggi, nonostante la presa egemonica neoliberale, riesce a condizionare in maniera feconda e originale la riflessione politica e culturale internazionale. Ci pare a questo proposito importante richiamare anzitutto l’attenzione alle pagine dedicate al giovane Gramsci, che in Sardegna si confronta con la subalternità delle classi popolari e ne ricava una prima e fondamentale esperienza politica sulla necessità della lotta per l’egemonia e sull’importanza decisiva dell’organizzazione politica nei conflitti sociali. Grazie a Fresu la Sardegna perde quell’alone mitico di luogo nostalgico, vagamente letterario, dell’infanzia che Gramsci avrebbe superato spostandosi a Torino ed entrando in contatto con la vita culturale della città. La terra d’origine riacquista anzi concretezza storica e assume la forma del laboratorio politico in cui Gramsci ha rielaborato le proprie esperienze per farne materia di continua riflessione lungo quell’itinerario che lo ha portato alla guida del Pcd’I e agli studi carcerari. Ne sono un esempio le pagine dedicate alla questione meridionale, forse le migliori di tutto il libro. Da esse emergono con chiarezza sia i complessi snodi biografici e politici sull’evoluzione del pensiero di Gramsci, che le riflessioni strategiche sulla guida del partito nel contesto della fascistizzazione della società italiana e dei sempre più ristretti margini di agibilità politica del partito comunista italiano negli anni del difficile superamento dell’impronta bordighiana. Per gli importanti risvolti sul Congresso di Lione del 1926, questa fase si caratterizza non solo per l’analisi intorno alla composizione di classe del paese, la sua spaccatura tra nord e sud, tra operai e contadini, ma anche per il concreto lavoro politico di definizione del referente sociale nel concreto intento di trasformare i diretti in dirigenti e dunque di volgere la passività delle larghe masse di fronte ai processi storici in attività, in aspirazione sociale e, in definitiva, in volontà politica. Anche in questo caso l’uomo Gramsci non è separabile dal dirigente politico, così come dal filosofo, di cui vengono messe in luce le profonde ascendenze marxiane e le feconde possibilità di confronto teorico con altri pensatori. Da alcuni importanti passaggi sulla convergenza del pensiero dei Quaderni con la riflessione di György Lukács emerge ad esempio la medesima prospettiva che concepisce la relazione di pensiero e prassi nei termini di una totalità data dall’intreccio organico di storia, economia, politica e processi culturali. Ne discende la comune critica al positivismo, al determinismo storico e alle degradazioni sociologiche, con riferimento per entrambi a Bucharin. Ma soprattutto se ne ricava la ferma adesione di Lukács e Gramsci al pensiero dialettico, attraverso la linea che unisce l’idealismo di Hegel al materialismo storico di Marx. Sono in quest’ottica numerose le pagine che consentono di riconoscere l’attualità di Gramsci e del suo pensiero, capace di diventare testimonianza umana di Resistenza al fascismo, esempio politico di lotta per i subalterni, ma anche materia di cui il Pci nel dopoguerra farà tesoro per la costruzione del “partito nuovo”, gramscianamente inteso da Togliatti come “intellettuale collettivo”. Dalle prime pagine dedicate al giovane Gramsci sino alle conclusioni sul laboratorio dei Quaderni, Fresu lavora infatti sulle inestricabili relazioni di storia, vita e prassi, secondo un modello di indagine, tipicamente marxista, che intende far emergere il pensiero nel quadro dei processi storico-politici e delle determinazioni materiali. Nei termini di Lukács diremmo che il suo è un Gramsci visto in prospettiva, alla luce dell’inesauribile spinta dialettica per l’emancipazione dei subalterni.

 

[1] Paolo Desogus insegna Letteratura italiana contemporanea alla Sorbona. Ha inoltre pubblicato La confusion des langues e Laboratorio Pasolini. Teoria del segno e del cinema. Ha inoltre curato, insieme a Mimmo Cangiano, Marco Gatto e Lorenzo Mari, Il presente di Gramsci. Per le sue ricerche ha ottenuto il premio Pier Paolo Pasolini della Cineteca di Bologna.

 

Domenico Losurdo: luta filosófica e revolução entre as duas Restaurações

“Margem Esquerda”, Revista da Boitempo, n.31, II semestre 2018

O falecimento de Domenico Losurdo suscitou grande emoção no mundo filosófico e político em muitos países onde ele era não só apreciado e estudado, mas também recebido como um dos filósofos mais orgânicos, sistemáticos e coerentes do século XX e início deste novo século. Para mim, que tive a sorte de me formar com ele, foi não apenas um mestre, mas o ponto de referência intelectual por meio do qual pude estudar e compreender os grandes intérpretes do passado. Losurdo nasceu na região da Puglia em 14 de novembro de 1941 e graduou-se em 1963, orientado pelo historiador da filosofia e senador do PCI Pasquale Salvucci, com uma dissertação sobre Karl Rosenkranz. Foi professor e diretor do Istituto di Scienze Filosofiche e Pedagogiche “Pasquale Salvucci”, na  Università degli studi di Urbino, sendo presidente da associação hegeliana Internationale Gesellschaft Hegel-Marx für dialektisches Denken.

No Brasil, Losurdo encontrou também um público de apaixonados. Seus livros foram e continuam sendo traduzidos e publicados com grande sucesso de vendas, e sua obra é objeto de estudo nas principais universidades brasileiras. As conferências e palestras que ele proferiu por toda parte nesse grande país (as últimas no fim do ano passado) sempre estiveram lotadas, sendo acompanhadas por jovens, estudiosos e leitores que, mesmo partidários de diferentes vertentes ideológicas, animavam debates e discussões que se estendiam para além do evento. Aquele que, no futuro, desejar escrever a primeira biografia intelectual desse pensador, irá assumir não apenas uma grande responsabilidade, mas uma carga de trabalho que não poderá ser cumprida apressadamente e com superficialidade, tamanha a profundidade e amplitude de sua produção teórica: dos clássicos da filosofia ao debate em torno da figura de Stálin; da análise do papel da China ao revisionismo histórico; do pensamento liberal às questões do bonapartismo e da democracia moderna; da história do pensamento ocidental aos problemas do colonialismo e do imperialismo. Os estudos de Losurdo sobre o materialismo histórico, assim como aqueles sobre Kant, Hegel, Heidegger e Nietzsche, são um marco fundamental na história das ideias e dos acontecimentos das sociedades humanas, tamanhas a sua seriedade científica e autonomia intelectual, sua riqueza problematizadora e complexidade interpretativa. Em tempos tão sombrios, dominados pelo refluxo democrático em âmbito internacional, sua batalha filosófica jamais se esqueceu de entrelaçar-se às exigências da política. Não obstante, a clareza de suas posições nunca se traduziu na apologia das convicções ideológicas que evocava, tampouco no abrandamento do rigor intelectual que lhe era característico. Pelo contrário, Losurdo sempre indagou com severidade crítica e sem indulgência os limites do universo filosófico-político em que decidira militar e ao qual dedicou todas as energias de sua vida.

Em sua vasta produção filosófica, Losurdo sublinhou a importância da filosofia de Hegel para compreender racionalmente a Revolução Francesa – como negação dialética da velha sociedade em agonia – e suas grandes heranças no devir da humanidade. Hegel soube reconhecer a história mundial como um processo unitário e dialético, no qual as transformações não são dominadas por inacessíveis leis divinas ou naturais, mas são a consequência do estrito entrelaçamento de contradições objetivas e subjetivas no mesmo corpo social. Assim, se os teóricos do pensamento conservador explicaram a Revolução Francesa por meio de categorias conceituais externas ao corpo social – como as teorias da conspiração ou aqueles que comparam a revolução às catástrofes naturais (terremoto, erupção, inundação) ou às epidemias – Hegel é o primeiro a fornecer um quadro conceitual histórico racional dos processos revolucionários[1].

Expliquei tudo isso porque se queremos abordar a obra de Losurdo é preciso primeiramente colocar a sua inteira crítica filosófica marxista no grande marco da tradição hegeliana, que se desenvolveu em meio ao duríssimo conflito entre revolução e restauração. Um ano depois do Congresso de Viena, Karl Ludwig von Haller – talvez o principal ponto de referência teórica da Restauração – escreveu sua obra mais conhecida, significativamente intitulada A Restauração da ciência política, com uma finalidade declarada: derrotar também no plano teórico as doutrinas revolucionarias já espancadas politicamente, porque, embora atropeladas, ele vislumbrava o risco de uma possível nova emergência e o difundir-se de uma nova infecção insurrecional[2].

Losurdo sempre levantou a necessidade de compreender os elos entre a primeira e a Segunda Restauração, mostrando a tarefa ideológica comum a elas: deslegitimar as duas maiores Revoluções da história mundial. Depois de 1815, a resistência filosófica que tentou explicar racionalmente as razões e as heranças da Revolução Francesa teve um significado que ia além da luta política imediata. Da mesma maneira, como Hegel fez no começo do século XIX, era preciso demonstrar as contradições e a instrumentalidade das teorias que apresentaram os acontecimentos de 1917 como a origem de todos os males e desastres. Um fio vermelho une Von Haller aos teóricos do revisionismo contemporâneo; assim, os lutos e os horrores de um século ensanguentado são o fruto envenenado da Revolução Russa, e mesmo o fascismo, segundo Nolte, não seria produto da história burguesa, a prossecução nos confins europeus da ideologia colonial, mas uma simples consequência do fanatismo ideológico bolchevique. A mesma crítica contra os jacobinos envolveu os bolcheviques, a idêntica condenação da Revolução Francesa abrangeu a Revolução de Outubro. A “queda do mito do Outubro bolchevique[3] desencadeou a crítica revisionista contra a Resistencia antifascista, a teoria do Imperialismo e a luta dos movimentos anticoloniais, encaminhando uma fase de refluxo democrático e ofensiva reacionária internacional ainda bem longe de acabar. No interior desta leitura apocalítica, que fez da história soviética um bizarro manual de teratologia, segundo Losurdo, se colocam as multíplices simplificações sobre as tentativas de transição do feudalismo à modernidade industrial nos países do socialismo histórico. Não apenas no mundo liberal, mas também na esquerda, a principal acusação à Revolução de Outubro (“a sua traição”) ficaria na falta da extinção do Estado. Pelo contrário, o multiplicar-se de suas funções e atividades, necessárias a encaminhar esse inédito processo histórico, seria a causa da natureza autoritária do socialismo histórico. Nesse sentido, Slavoj Žižek, em seu último livro sobre Lênin, dedica muitas páginas à demonstração dos erros e dos horrores tanto do jacobinismo quanto do bolchevismo, duas tradições que, segundo ele, tinham em comum “a mesma histeria ideológica” e o igual “radicalismo igualitário”. Žižek declara a necessidade de problematizar o conceito de “totalitarismo”, afirmando que “o terror político” seria de pesquisar na subordinação política da esfera produtiva material, da qual a o bolchevismo negaria a autonomia[4].

Em sua obra, Losurdo mostra que na ideia de uma relação inversamente proporcional entre a esfera da liberdade e a extensão das atividades do Estado encontra-se um dos mais duradouros mitos do liberalismo, que tornam comum as concepções do “governo limitado” de John Locke e às teorias sobre o totalitarismo de Hannah Arendt e Žižek. A condenação preventiva ou póstuma à ambição de regulamentar a vida social, intervir na economia e fornecer um endereço social à vida de uma comunidade nacional está diretamente entrelaçada com a mais eficaz representação ideológica do pensamento liberal: a capacidade natural de autorregulamentação das leis do mercado (e o princípio da chamada “mão invisível), teoricamente não compatível com a artificial irrupção ordenadora da política. Trata-se de um problema filosófico, e não apenas político, que solicita a compreensão da grande lição hegeliana segundo a qual “a filosofia é o próprio tempo apreendido com o pensamento”[5]. Nesse sentido, Losurdo assumiu e desenvolveu um grande desafio filosófico, de não deixar o materialismo histórico na dimensão arqueológica da ciência política, resgatando a histórica aspiração de Marx: transformar o mundo, não apenas interpreta-lo; traduzir gramscianamente a filosofia na política, juntar teoria e pensamento, para conceber em formas orgânicas uma filosofia da práxis capaz, enquanto visão do mundo crítica e coerente, de disputar o terreno da luta hegemônica a fim de superar as relações de dominação do homem sobre o homem, que condenam a grande maioria da população mundial na miséria e na subalternidade social.

 

[1] Domenico Losurdo, L’ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi (Milella, Lecce, 2001).

[2] Carl Ludwig von Haller, La Restaurazione della scienza politica (org. Mario Sancipriano, Turim, Utet, 1963, 3 v.), v. 1, p. 75.

[3] Domenico Losurdo, Guerra e revolução: o mundo um século após de 1917 (São Paulo, Boitempo, 2017), p. 15.

[4] Slavoj Žižek, Lenin Oggi (Milão, Ponte delle Grazie, 2017), p. 51.

[5] Georg W. F. Hegel, citado em Domenico Losurdo, O marxismo ocidental: como nasceu, como morreu, como pode renascer (São Paulo, Boitempo, 2018), p. 206.

Antonio Gramsci. O homem filosofo.

(Boitempo, São Paulo 2020, 424 páginas, R$ 63,20)

Em terras brasileiras, como se sabe, Antonio Gramsci aportou como o “herói” da luta cultural antifascista, como o teórico das superestruturas. No intricado processo de recepção e apropriação das suas ideias a partir das primeiras traduções em finais da década de 1960 operou-se, portanto, uma grave cisão entre o filósofo e o político, entre pensamento e ação, entre o homem histórico e o mito desencarnado. O pensamento gramsciano, com efeito, não apenas no Brasil, mas na América Latina de modo mais abrangente, foi submetido aos mais diversos usos, resultando em leituras parciais e fragmentárias. De lá para cá muitos esforços têm sido envidados em busca de uma leitura integral de Gramsci e, de fato, é possível dizer que tal empreendimento – vital na mesma medida em que é árduo – está ainda em construção. Neste sentido, A edição brasileira de Antonio Gramsci, “o homem filósofo”: apontamentos para uma biografia intelectual, de Gianni Fresu, constitui uma importantíssima contribuição para este projeto coletivo de apreensão integral do pensamento gramsciano. Neste livro, Fresu consegue, de fato, dar concretude ao “Gramsci histórico”, sujeito às modificações – e, pode-se dizer também, evoluções – intelectuais e morais exigidas diante de seus próprios limites humanos tanto quanto pelos desafios teóricos e políticos do seu tempo. Emerge desta leitura toda a complexidade do autor em suas diversas fases de vida e de pensamento, isto é, das diferentes perspectivas que Gramsci assume em sua trajetória intelectual, ao mesmo tempo em que podemos perceber o fio condutor que opera a unidade do pensamento ao longo do tempo, isto é, de um pensamento que ao mesmo tempo em que sempre rejeitou veementemente o pedantismo e o diletantismo burgueses, nunca tolerou os esquematismos e os dogmatismos nas próprias fileiras. Fresu nos faz enxergar os elementos de permanência e de coerência interna no pensamento gramsciano – desde a juventude até o período carcerário – entre os quais se destaca o firme e resoluto combate à instrumentalização política das classes subalternas pelas minorias dirigentes. A adesão à perspectiva das classes subalternas não corresponde, contudo, – como fica evidente sob a pena de Fresu – a um procedimento meramente teórico, mas à identificação e imersão concreta no drama histórico dos dominados e subalternizados, na concretização de uma epistemologia popular capaz de prover fundamentos sólidos a uma filosofia de massa, ou, pode-se dizer, à filosofia da práxis.

 

Luciana Aliaga

https://www.boitempoeditorial.com.br/produto/antonio-gramsci-o-homem-filosofo-994


Sinopse do livro

Na figura de Antonio Gramsci coexistem diferentes necessidades e perspectivas, mas toda a sua produção teórica se desenvolve dentro de uma estrutura de profunda continuidade. Isso não significa que ele permaneça sempre idêntico a si mesmo, pelo contrário, em muitas questões seu raciocínio desenvolve-se, torna-se mais complexo, toma novas direções, muda alguns juízos iniciais. O Gramsci dos Cadernos não pode ser sobreposto ao jovem diretor de L’Ordine Nuovo, ou ao líder comunista, porque sua elaboração não se desenvolveu em uma condição de rigidez intelectual, ausente de evoluções. Todavia, a suposta divisão ideológica entre um antes e um depois, em razão da qual um “Gramsci político” tende a ser oposto a um Gramsci “homem de cultura”, é o resultado de uma falsificação ditada por necessidades essencialmente políticas. A vida do intelectual sardo é marcada pelo drama da Primeira Guerra Mundial, o primeiro conflito de massas em que as grandes descobertas científicas das décadas anteriores foram aplicadas em larga escala e onde milhões de camponeses e operários foram literalmente enviados ao massacre. Em toda a sua produção teórica, essa relação dualista, que exemplifica com perfeição o uso instrumental dos “simples” pelas classes dominantes, ultrapassa o contexto bélico das trincheiras, encontrando plena expressão nas relações fundamentais da moderna sociedade capitalista. Em contraste com essa ideia de hierarquia social, considerada natural e imutável, Gramsci afirma constantemente a necessidade de se superar a fratura historicamente determinada entre as funções intelectuais e manuais, em razão da qual se faz necessária a existência de um sacerdócio ou de uma casta separada de especialistas da política e do saber.  Não é a atividade profissional específica (material ou espiritual) que determina a essência da natureza humana, para Gramsci “todo homem é um filósofo”. Nesta expressão dos Cadernos, encontramos condensada sua ideia de “emancipação humana”, que é a necessidade histórica de uma profunda “reforma intelectual e moral”: a subversão das relações tradicionais entre dirigentes e dirigidos e o fim da exploração do homem pelo homem.


Sumario

Nota do autor…………………………………………………………………………………………….. 11

Prefacio, Marcos Del Roio……………………………………………………………………………… 13

 

Primeira parte – O jovem revolucionario………………………………………. 17

  1. As premissas de um discurso ininterrupto……………………………………………….. 19
  2. Dialetica versus positivismo: a formacao filosofica do jovem Gramsci………….. 31
  3. Autoeducacao e autonomia dos produtores…………………………………………….. 47
  4. Lenin e a atualidade da revolucao…………………………………………………………. 59
  5. L’Ordine Nuovo………………………………………………………………………………….. 75
  6. Origem e derrota da revolucao italiana…………………………………………………… 85
  7. O problema do partido……………………………………………………………………….. 93
  8. Refluxo revolucionario e ofensiva reacionaria………………………………………… 105

 

Segunda parte – O dirigente politico…………………………………………… 117

  1. O Partido novo………………………………………………………………………………… 119
  2. O Comintern e o “caso italiano”…………………………………………………………. 135
  3. Rumo a uma nova maioria…………………………………………………………………. 163
  4. Gramsci a frente do Partido……………………………………………………………….. 177
  5. O amadurecimento teorico entre 1925 e 1926………………………………………. 187
  6. O Congresso de Lyon……………………………………………………………………….. 195

 

Terceira parte – O teorico…………………………………………………………… 209

  1. Das contradicoes da Sardenha a questao meridional……………………………….. 211
  2. Os Cadernos: o inicio conturbado de um trabalho “desinteressado”…………… 237
  3. Relacoes hegemonicas, relacoes produtivas e os subalternos……………………… 243
  4. O transformismo permanente…………………………………………………………….. 253
  5. Premissas historicas e contradicoes congênitas da biografia italiana…………….. 267
  6. “O velho morre e o novo nao pode nascer”…………………………………………… 281
  7. A dupla revisao do marxismo e o ponto de contato com Lukacs………………. 2958.

Tradutibilidade e hegemonia………………………………………………………………. 317

  1. O homem filosofo e o gorila amestrado……………………………………………….. 333
  2. Michels, os intelectuais e o problema da organizacao……………………………. 349
  3. O desmantelamento dos velhos esquemas da arte politica……………………… 365

Conclusao…………………………………………………………………………………… 377

 

Posfacio – Antonio Gramsci: o marxismo diante da

modernidade, Stefano G. Azzarà………………………………………………………………….. 383

Cronologia – vida e obra……………………………………………………………………………. 391

Bibliografia………………………………………………………………………………………………. 407

Indice onomastico ……………………………………………………………………………………. 419

 

Entre pandemia e crise orgânica: contradições e narrações hegemônicas do capitalismo em colapso

Artigo presente no volume (e-book) Para Além da quarentena: reflexões sobre crise e pandemia, Ana Lole, Ines Stampa, Rodrigo Lima R. Rodrigues, Morula, Rio de Janeiro, 2020, ISBN 978-65-86464-13-9

Para além da quarentena: reflexões sobre crise e pandemia

 

Entre pandemia e crise orgânica:

contradições e narrações hegemônicas do capitalismo em colapso

 

 

Gianni Fresu

(professor de Filosofia Política da UFU/ presidente da IGS Brasil)

 

  1. A contradição entre capital e trabalho

 

Essa acumulação primitiva desempenha na economia política aproximadamente o mesmo papel do pecado original na teologia. Adão mordeu a maçã e, com isso, o pecado se abateu sobre o gênero humano. Sua origem nos é explicada com uma anedota do passado. Numa época muito remota, havia, por um lado, uma elite laboriosa, inteligente e sobretudo parcimoniosa, e, por outro, uma súcia de vadios a dissipar tudo o que tinham e ainda mais. De fato, a legenda do pecado original teológico nos conta como o homem foi condenado a comer seu pão com o suor de seu rosto; mas é a história do pecado original econômico que nos revela como pode haver gente que não tem nenhuma necessidade disso. Seja como for. Deu-se, assim, que os primeiros acumularam riquezas e os últimos acabaram sem ter nada para vender, a não ser sua própria pele. E desse pecado original datam a pobreza da grande massa, que ainda hoje, apesar de todo seu trabalho, continua a não possuir nada para vender a não ser a si mesma, e a riqueza dos poucos, que cresce continuamente, embora há muito tenham deixado de trabalhar.[1]

 

Em meio à pandemia de covid-19, uma das argumentações mais recorrentes espalhadas pela nova Internacional da direita coordenada por Steve Bannon, que tem entre os seus afiliados Trump, Bolsonaro, Orbán e Salvini, é a necessidade de retomar as atividades produtivas. “A vida não pode parar”, como nesses dias eles vão repetindo, apesar do drama que atinge a realidade atual onde o dado mais visível é que a vida, sem os devidos cuidados e um planejamento político emergencial racional e fundamentado nas indicações da ciência, não apenas pode parar, mas acabar. Dentro dessa narrativa, segundo a qual o verdadeiro perigo mortal seria o colapso econômico, não temos apenas a tentativa de evitar uma crise que abalaria os respectivos governos de Trump e Bolsonaro, mas também uma operação hegemônica. Afirmando que é preciso voltar ao trabalho, essa retórica levanta o problema da sustentação econômica das classes populares apresentando seus propagandistas como defensores dos interesses materiais dos trabalhadores ameaçados pelas indicações da OMS e pelas providências dos governadores que limitaram a “liberdade de iniciativa econômica”.

Claro que tanto o Presidente quanto os empresários, empenhados nessa campanha a favor da reabertura das atividades, são hábeis em ocultar como essa crise tornou ainda mais evidente a contradição entre capital e trabalho. Para além das funções hegemônicas e demagógicas, o desespero do mundo dos negócios e a vontade avassaladora de reabrir fábricas e trazer os trabalhadores de volta à produção, confirmam uma verdade que, embora questionada desde o século XIX, não cessa de se manifestar: sem a exploração do trabalho não há lucro, sem lucro não há capital. Embora tenham tentado durante anos decretar a morte cerebral do velho Marx, alegando que o capital tem novas formas de remuneração totalmente independentes do salário, na realidade, o lucro não pode existir sem a exploração do trabalho. Por outro lado, se não fosse assim, não se explicaria por que estão sempre à procura constante de mão de obra barata a ser explorada nos países em desenvolvimento e prontos para relocalizar sua produção, nem por que, após cada crise, sua receita de política econômica permanece inabalavelmente a mesma: aumentar a produtividade e reduzir os custos de mão de obra.

Depois do prolongado colapso da economia mundial começado em 2008 nos Estados Unidos, que mostrou a natureza aleatória e fraudulenta do sistema especulativo financeiro, a pandemia jogou novamente o capitalismo numa crise orgânica internacional, abalando todas as certezas e as convicções do mundo ocidental, pondo em questão o paradigma neoliberal, que fora assumido acriticamente nas últimas décadas como única opção possível e legítima para os rumos do desenvolvimento histórico. Diante dos efeitos combinados da pandemia e da crise econômica, a contradição entre o direito ao lucro privado e o interesse geral tornou-se cada vez mais evidente. Apenas onde o poder público conservou um papel forte diante das pretensões do mercado, essa crise está sendo enfrentada com sucesso. Onde, pelo contrário, prevaleceu o domínio ideológico da metafísica do mercado, ou seja, a convicção segundo a qual intervir com medidas públicas no livre desenvolvimento da lei da oferta e da procura não passa de pura blasfêmia, tudo se tornou mais complicado. Nos países marcados pela contradição entre miséria absoluta e imensas concentrações da riqueza econômica, nos quais prevalecem a especulação e a lucratividade privada sobre as atividades eminentemente públicas (educação, universidade, saúde, pesquisa, sistema de aposentadoria, políticas de assistência e inclusão social), estamos observando um autêntico fracasso, que alcança proporções inimagináveis se comparamos com a situação de cinco meses atrás.

  1. A transfiguração ideológica da realidade

A mística do mercado, que subordina o homem à ilusão ideológica da “mão invisível”, é a forma mais sistemática e alienante de totalitarismo criada pelo homem. Um artifício retórico que consegue apresentar o direito à exploração do homem como uma filosofia de liberdade, e não de escravidão. O paradigma do egoísmo absoluto, tornado universal por um hábil trabalho ideológico de reconstrução interessada da realidade, é uma lei de ferro que produz riqueza para poucos e miséria para os demais. A suposta superioridade econômica do liberalismo é um escárnio colossal; a vitória dos netos de Adam Smith se dá em terreno hegemônico, por meio da auto-apologia, certamente não do lado do bem-estar e da riqueza social. Marx e Engels trataram não apenas das condições materiais no fundo dos acontecimentos históricos, eles investigaram a função política das ideologias em relação à tarefa da defesa e da conservação dos equilíbrios passivos tradicionais entre as classes. A história, a filosofia, o direito, a economia, a religião e todas as representações espirituais da realidade tornam-se instrumentos de governo de uma classe sobre as outras, por meio das quais cria-se um conformismo social entre os dominantes e, ao mesmo tempo, se arregimentam os dominados garantindo sua passividade. As ideias da classe dominante são, em cada época, as ideias dominantes, então, essa classe é ao mesmo tempo a força material e espiritual dominante, porque não controla apenas os meios de produção material, mas dispõe também dos meios de produção espiritual. Essas ideias, portanto, sempre se tornam a expressão ideal das relações materiais dominantes, concebidas como ideias que marcam uma inteira era histórica. Estritamente entrelaçada a essa função especializada de produção, Marx e Engels sublinharam a centralidade da separação entre trabalho espiritual e material:

A divisão do trabalho expressa-se também no seio da classe dominante como divisão do trabalho espiritual e material, de tal modo que no interior desta classe uma parte aparece como os pensadores desta classe (seus ideólogos ativos, conceptivos, que fazem da formação de ilusões desta classe a respeito de si mesma seu modo principal de subsistência), enquanto que os outros relacionam-se com estas ideias e ilusões de maneira mais passiva e receptiva, pois são, na realidade, os membros ativos desta classe e têm pouco tempo para produzir ideias e ilusões acerca de si próprios.[2]

  1. O capitalismo vive porque são os homens que lhe dão vida e o fazem viver

O capitalismo não existe por causa da objetividade implacável de suas leis, assim como jamais será superado única e exclusivamente por causa de suas contradições internas. Esse modo social de produção sobrevive à sucessão de suas crises devastadoras, não pela inegável eficiência econômica de seus equilíbrios, mas porque os homens o mantêm vivo mesmo através de terapias intensivas e, se necessário, por meio de involuções autoritárias (a era do fascismo). Isso porque o capitalismo (além da dominação) não é apenas economia, é também política, filosofia, relações hegemônicas, ou seja, um formidável arsenal capaz de transfigurar a realidade (dando a aparência de universalidade a certos interesses particulares) a ponto de tornar-se a miséria e a exploração “consensualmente” aceitas pelo miserável e pelo explorado[3].

Tanto o liberalismo clássico (segundo o qual o capitalismo não seria um sistema artificial, mas uma realidade objetiva independente da vontade humana, determinada “naturalmente” pelas leis da oferta e da procura) quanto o determinismo marxista (durante anos convencido de que esse sistema econômico burguês entraria em colapso por causa de suas contradições internas) compartilham a mesma visão metafísica das coisas. Cada modo social de produção sempre é o fruto de uma complexa combinação de elementos objetivos e subjetivos em que o fator econômico é sem dúvida predominante, mas não o único. Historicamente, a sociedade burguesa se afirmou no plano econômico e ideológico, no sentido de que era o resultado de uma autodeterminação material e espiritual com a qual essa classe conseguiu escapar tanto das regras corporativas da antiga sociedade feudal (conquistando sua autonomia econômica) quanto da visão de mundo da aristocracia feudal (afirmando o princípio da dignidade humana universal em oposição ao particularismo feudal, que determinou o status legal em razão do nascimento)[4]. O segundo elemento é certamente (em geral) colocado em condição de dependência em relação ao primeiro, mas isso não significa que seja secundário[5]. Por tudo isso, esperar que o capitalismo seja superado por suas contradições internas, quase sem esforço de luta, portanto, sem a irrupção da vontade ativa das massas, sem política e ideologia, significa atribuir a esse modo social de produção uma existência autônoma, independente da vida humana, para torná-lo uma divindade que, por sua natureza transcendente, existe não por causa da vontade humana, mas como consequência da fatalidade das coisas. O velho determinismo socialista veiculou Marx por meio de Darwin e aplicou à história a dinâmica evolutiva das ciências naturais, chegando à conclusão de que a humanidade passaria do feudalismo ao capitalismo e, portanto, ao socialismo, por razões internas às leis da economia, evidentemente, assim como na evolução da espécie passa-se do símio ao homem. As consequências políticas dessa concepção foram três: 1) atribuir aos protagonistas de sua emancipação (o proletariado) uma função totalmente secundária em relação aos líderes encarregados de entender essas leis e enxergar, dentro delas, a hora fatídica da “crise final”; 2) a ideia de que não se deve fazer a revolução, mas preparar sua implacável inelutabilidade, acumulando forças; 3) a convicção de que toda a humanidade estava destinada a viver os mesmos processos evolutivos, pois era necessário percorrer o caminho da via crucis do capitalismo (a civilização industrial do tipo ocidental) para passar à integral emancipação do homem. Este terceiro termo levou o movimento socialista a desinteressar-se da questão camponesa e da questão colonial, a ponto de olhar positivamente para a função civilizadora e modernizadora do imperialismo ocidental. Todos esses três termos foram literalmente varridos pela Revolução de Outubro, e, mais genericamente, todo o conceito de positivismo determinista foi duramente contestado não apenas por Lênin, mas pelo próprio Friedrich Engels:

Segundo a concepção materialista da história, o fator que em última instância é determinante na história é a produção e reprodução da vida real. Mais do que isso nunca foi afirmado nem por Marx nem por mim. Se agora alguém deturpa as coisas, afirmando que o fator econômico é o único determinante, transforma aquela proposição em uma frase vazia, abstrata, absurda. A situação econômica é a base, mas os diversos momentos da superestrutura […] exercem sua própria influência no curso da luta histórica e, em muitos casos, determinam sua forma predominante. Há uma ação recíproca de todos esses fatores, e é através deles que o movimento econômico termina por afirmar-se como elemento central em meio à infinidade de acontecimentos acidentais […], se assim não fosse, a aplicação da teoria em um determinado período da história seria mais simples que a mais elementar equação de primeiro grau[6].

  1. A queda da religião da liberdade e o relativismo liberal

O capitalismo é um modo de produção social historicamente determinado, portanto, historicamente superável como qualquer produto humano. A questão é que, por sua própria e íntima natureza, esse sistema não só é profundamente revolucionário (sempre pronto para mudar as técnicas de produção, as formas de distribuição, as relações sociais e institucionais), mas tem um arsenal material e imaterial (hegemônico) que nenhuma forma social jamais teve antes na história.

Tendo claro tudo isso, a atual crise nos mostra a necessidade de concentrar nossa investigação crítica não apenas nas contradições da estrutura econômica, mas nos aparelhos hegemônicos por meio dos quais molda-se a opinião pública. Estamos vivendo uma fase de gravíssima crise sanitária e política que atinge de forma combinada o Brasil e o mundo, em que tanto a vida das pessoas quanto as liberdades democráticas estão em perigo diante das constantes tensões entres os poderes do Estado e das recorrentes tentações autoritárias que permeiam parte significativa das classes dirigentes e da sociedade brasileira.

Antigamente o liberalismo se definia de início por sua devoção filosófica à “religião da liberdade”. Assim, Benedetto Croce, um dos maiores filósofos do liberalismo no século XX, enfatizando que essa doutrina não pode ser contrária, em princípio, à “socialização e [à] estatização dos meios de produção”, ressaltou que a convergência entre liberalismo político e liberalismo econômico foi apenas de natureza empírica e provisória, rejeitando a tendência de apresentar as duas dimensões como idênticas:

Como já deveria ser pacífico, o liberalismo não coincide com o chamado liberalismo econômico, com o qual teve apenas concomitâncias, e talvez ainda tenha, mas sempre com uma aparência provisória e contingente, sem atribuir à máxima de deixar outro valor que não o empírico, como válido em certas circunstâncias e não válido em circunstâncias diferentes. Portanto, nem pode rejeitar em princípio a socialização ou estatização dos meios de produção, nem sempre a rejeitou no fato de ter feito, de fato, bastantes obras desse tipo.[7]

Quando isso aconteceu, a recusa foi determinada por razões práticas, não teóricas, ou seja, pela convicção de que tal escolha em determinado momento (não em termos absolutos) poderia ter deprimido a economia gerando um empobrecimento geral sem reduzir as desigualdades. O julgamento de qualquer reforma, segundo Croce, depende antes de tudo de um fator: se ela promove ou restringe a liberdade e a vida dos homens. A devoção à religião da liberdade levou John Stuart Mill a definir o liberalismo inicialmente como recusa de qualquer monismo de valores ou conformismo intelectual, que pelo contrário prevalece prevalente na cultura liberal de hoje:

Se todos os homens, exceto um, tivessem a mesma opinião, e apenas um fosse de opinião contrária, a humanidade não teria maior justificativa para silenciar esse homem do que ele teria, se tivesse o poder, para silenciar a humanidade […] o mal singular de silenciar a expressão de uma opinião é que isso rouba ao gênero humano, tanto a posterioridade quanto a geração existente, e aqueles que discordam da opinião ainda mais do que aqueles que estão de acordo. Se a opinião é correta, a humanidade se priva da oportunidade de trocar o erro pela verdade; se errada, perde aquilo que quase constitui um grande benefício; ou seja, a percepção mais clara e a impressão mais viva da verdade, produzida pela sua colisão com o erro.[8]

Falando de outro autor liberal clássico, Isaiah Berlin, o alvo central de sua obra é o pluralismo dos valores, a convicção de que as visões do mundo que inspiram a vida dos seres humanos sejam não apenas muitas e diversificadas, mas, em vários casos, inconciliáveis e até incompatíveis. Tanto ao nível das culturas gerais quanto em relação aos valores de uma mesma cultura ou pessoa. Seria característico das grandes religiões e das ideologias monistas achar que existe apenas um jeito correto de viver, uma só estrutura de valores de verdade, ou seja, afirmar, de forma fanática e indiscutível, a unicidade de uma tese que inevitavelmente desemboca na perseguição dos valores críticos ou não homologados. O pluralismo seria o único antídoto ao fundamentalismo, uma fonte perene de liberalismo e de tolerância que nunca pretende apagar as outras visões do mundo por ter vieses alternativos a nossas convicções mais profundas[9]. Por concluir com este tema, John Rawls escreve que uma sociedade liberal bem ordenada e regulada por uma concepção política de justiça (como equidade) assim o pode ser apenas dentro de um quadro de razoável pluralismo. Outro objetivo do liberalismo político é descrever como deve ser concebida e quais bases de unidade social deve ter uma sociedade liberal bem ordenada, cuja articulação torne possível o relacionamento dialético entre visões políticas razoavelmente diferentes. A cultura política de uma sociedade liberal democrática é sempre marcada pela presença de diversas doutrinas religiosas, filosóficas e morais em conflito: dialética que o liberalismo considera resultado inevitável do livre exercício das faculdades da razão humana[10].

Um sinal inequívoco do refluxo democrático desses anos nos é dado pelas contradições do mundo liberal, justamente no que diz respeito à questão das liberdades. A dimensão econômica (liberalismo) ocupou definitivamente toda a cena, de modo que a devoção à metafísica do mercado leva os liberais de hoje a considerar sagrada apenas a liberdade de iniciativa econômica. A esfera político-filosófica liberal, por outro lado, acabou encolhendo tanto que o tema das “liberdades fundamentais” parece ser simples retórica em defesa do mero individualismo econômico. Assim, hoje, aqueles que se autodenominam liberais olham com irritação mal disfarçada para as reivindicações de liberdades civis, sexuais e religiosas, bem como para a ideia de pluralismo político, cultural, filosófico e científico. Em suma, eles não suportam o poder público quando se trata de seus negócios, mas gostariam de um Estado autoritário e inquisitorial para comprimir todas as liberdades humanas, exceto a econômica, é claro.

A ideia de uma relação inversamente proporcional entre a esfera da liberdade e a extensão das atividades do Estado tornou-se dos mais duradouros mitos ideológicos, que tornam comum as concepções do “governo limitado” de John Locke e as teorias sobre o totalitarismo de Hannah Arendt. A condenação preventiva ou póstuma à ambição de regulamentar a vida social, intervir na economia e fornecer uma direção social à vida de uma comunidade nacional está diretamente entrelaçada com a mais eficaz representação ideológica do pensamento liberal: a capacidade natural de autorregulamentação das leis do mercado, teoricamente não compatível com a artificial irrupção ordenadora da política. Mas, como escreveu Gramsci, atrás dessa visão o erro teórico justifica-se pelo interesse prático:

A abordagem do movimento de livre comércio baseia-se em um erro teórico do qual não é difícil identificar a origem prática: na distinção entre sociedade política e sociedade civil, que é feita e apresentada como uma distinção orgânica. Assim, afirma-se que a atividade econômica é própria da sociedade civil e que o Estado não deve intervir na sua regulação. Mas, como na realidade a sociedade civil e o Estado coincidem, é preciso estabelecer que o liberalismo econômico é uma regulamentação de caráter estatal, introduzida e mantida por meios legislativos e coercitivos: é um fato de vontade consciente, e não a expressão espontânea e automática do fato econômico.[11]

De acordo com essa visão do mundo, atividades reconduzíveis à iniciativa econômica autônoma de indivíduos privados não podem ser objeto de interferência política porque, “naturalmente”, as leis da oferta e da procura sempre encontram soluções mais adequadas, eficazes e eficientes do que qualquer hipótese de regulação social. A realidade mostra que tanto os grandes empresários quanto seus teóricos são a favor do liberalismo econômico quando pode gerar lucro, mas se tornam intervencionistas quando arriscam seus ativos, porque, assim que os bancos e as grandes empresas veem suas margens de lucro reduzidas, exigem intervenção pública para salvar a economia privada.

Essas situações dramáticas para a humanidade, se de nada mais servirem, são úteis para entender tanto as contradições do liberalismo quanto o relativismo de valores imanentes a essa doutrina: “se a economia cresce, os lucros são meus, entretanto, quando há uma crise, a queda é de todos”. Os lucros são privados, mas as perdas devem ser socializadas. Assim, se normalmente os apologistas do “privado é melhor” invocam o Estado mínimo, considerando blasfêmia a ingerência da política na capacidade “natural” do mercado de se regular, durante as recessões invariavelmente pedem a ajuda do público. Como escreveu Marx a respeito da crise do capitalismo de 1857, “é bom ver que os capitalistas, que tanto gritam contra o direito ao trabalho, agora exigem o apoio público dos governos em todos os lugares, e reivindicam o direito ao lucro às custas da comunidade”[12].

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Concluindo, apesar das transfigurações ideológicas e das narrações hegemônicas que marcam tanto a luta política quanto o enfrentamento ideológico, como era inevitável, também os efeitos da covid-19 reproduzem um quadro social marcado por uma brutal e unilateral luta de classes (de cima para baixo). No início da pandemia, ouvimos jornalistas falando de um vírus democrático, que não olha a classe social dos atingidos. Nada mais errado. Pelo contrário, a pandemia está desmascarando ainda mais a estrutura oligárquica e classista do país, onde, justamente por tal estrutura, essa doença golpeia sobretudo os mais pobres. O coronavirus chegou ao Brasil de avião, veiculado pelos representantes daquelas mesmas “classes nobres” que hoje pretendem reabrir tudo para retomar as atividades econômicas, todavia, quem está pagando realmente a conta dos erros políticos e da insensatez social espalhada nesse período pelo Brasil são as periferias, as favelas, as áreas rurais largadas ao seu próprio destino e, nelas, os “homens condenados a comer seu pão com o suor de seu rosto”.

[1] Karl Marx, O capital: crítica da economia política, Livro I: O processo de produção do capital, trad. Rubens Enderle,, Boitempo, São Paulo, 2011, p. 960-1.

[2] Karl Marx e Friedrich Engels, A ideologia alemã, trad. Luciano Cavini Martorano, Nélio Schneider e Rubens Enderle, São Paulo, Boitempo, 2007, p. 47.

[3] “Até agora, a arte do governo nada mais tem sido do que a arte de despojar e escravizar a maioria em benefício de uma minoria; e a legislação nada mais tem sido do que o instrumento para erguer esses ataques sistêmicos. Reis e aristocratas fizeram seu trabalho perfeitamente: agora cabe a você fazer o seu.” M. Robespierre, “Discurso sobre o governo representativo”, 10 de maio de 1793, em A revolução jacobina (Roma, Editori Riuniti, 1967), p. 127 (a tradução deste trecho do italiano para o português é de minha autoria).

[4] “Desde este instante, a consciência está em condições de emancipar-se do mundo e entregar-se à criação da teoria, da teologia, da filosofia, da moral, puras. Mas ainda que esta teoria, esta teologia, esta filosofia e esta moral entrem contradição com as relações existentes, isso pode acontecer porque as relações sociais existentes se encontram em contradição com as forças de produção existentes.” Karl Marx e Friedrich Engels, A ideologia alemã, cit., p. 16.

[5] “A classe revolucionária, por já se defrontar desde o início com uma classe, surge não como classe, mas sim como representante de toda a sociedade; ela aparece como a massa inteira da sociedade diante da única classe dominante. Ela pode fazer isso porque no início seu interesse realmente ainda coincide com o interesse coletivo de todas as demais classes não dominantes e porque, sob a pressão das condições até então existentes, seu interesse ainda não pôde se desenvolver como interesse particular de uma classe particular. […] Toda essa aparência, como se a dominação de uma classe determinada fosse apenas a dominação de certas ideias, desaparece por si só, naturalmente, tão logo a dominação de classe deixa de ser a forma do ordenamento social, tão logo não seja mais necessário apresentar um interesse particular como geral ou ‘o geral’ como dominante.” Ibidem, p. 49-50.

[6] Friedrich Engels, Sul materialismo storico (Roma, Editori Riuniti, 1949), p. 75.

[7] Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono (Bari, Laterza, 1965), p. 34-5.

[8] John Stuart Mill, Da liberdade individual e econômica (Barueri, Faro editorial, 2019), p. 30.

[9]Isaiah Berlin, Libertà (org. Henry Hardy, Milão, Feltrinelli, 2005), p. 62.

[10] John Rawls, O liberalismo político (São Paulo, Atíca, 2000), p. 46-7.

[11] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere 13 (Roma, Editori Riuniti, 1975), p. 1.590.

[12] Carta de Karl Marx ao Friedrich Engels de 13 de novembro de 1857, em Karl Marx e Friedrich Engels, Carteggio (Roma, Editori Riuniti, 1972), vol. III, p. 58.