Moderati e democratici nel Risorgimento italiano: l’interpretazione di Gramsci

Comitato per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia

Convegno

RISORGIMENTO: STORIA E DIDATTICA

28-29 settembre 2006 oristano

 

 

Gianni Fresu

 

Moderati e democratici nel Risorgimento italiano: l’interpretazione di Gramsci

 

In sede storiografica il tema risorgimentale ha dato luogo ad una mole imponente di studi, convegni, pubblicazioni, che ha pochi paragoni con altre pagine della storia moderna e contemporanea italiana, ma soprattutto ha determinato letture profondamente diverse tra gli orientamenti filosofici e politici che, in vario modo e a vario titolo, si sono rapportati ad esso. Differenze, spesso palesatesi anche all’interno dello stesso campo ideologico, che divengono particolarmente acute in rapporto alla valutazione su funzione e incisività delle due componenti che, a varo titolo e modo, si pongono oggettivamente come le più rappresentative del liberalismo risorgimentale italiano: quella dei moderati e quella dei democratici. La dialettica tra queste due correnti storiche segna in particolare le riflessioni sul Risorgimento di Antonio Gramsci, che in esse legge il codice genetico della società politica italiana, così come cattura l’attenzione di tante altre firme di primissimo piano nella storiografia italiana ed internazionale tra Ottocento e Novecento.

 

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Per uno dei più importanti storici italiani del pensiero liberale come Guido de Ruggiero la prima considerazione da fare in ordine al liberalismo italiano è che esso ha una importanza modesta rispetto alle principali correnti storiche del movimento europeo, ponendosi in larga parte come un semplice riflesso di dottrine e indirizzi stranieri.

Opinione condivisa questa anche da Arturo Carlo Jemolo, il quale in più riprese sottolinea come il liberalismo moderno, fondato (pur nelle sue molteplici accezioni) sull’idea di uno Stato nazionale con un ordinamento costituzionale e un governo legittimato da una maggioranza parlamentare, non ebbe nel movimento intellettuale in Italia – almeno fino a Cavour – alcun grande teorizzatore. I suoi uomini, scrive Jemolo, furono piuttosto apostoli dell’idea, missionari o realizzatori1.

Le ragioni di questa limitata importanza sono riconducibili a fattori molteplici: il frazionamento politico che ha impedito la formazione di grandi correnti di opinione pubblica, segregando ogni sviluppo nell’angustia e nella rivalità di piccole fazioni regionali se non comunali; l’asservimento di tanta parte del territorio italiano a potenze straniere, che ha portato a concentrare le migliori energie nella lotta per l’emancipazione nazionale, ma anche alla confusione concettuale tra indipendenza e libertà; lo spirito della controriforma che aveva mortificato il sentimento individualistico premessa essenziale del liberalismo moderno; la natura letteraria e libresca di una cultura ridotta a «polverosa erudizione separata da tutti gli interessi vitali del presente»; ma soprattutto, l’arretratezza economica che ha ritardato il differenziamento sociale delle classi e la formazione di un largo ceto medio.