L’autonomia integrale. Subalternità ed emancipazione nelle vicende del popolo sardo

L’autonomia integrale.

Subalternità ed emancipazione nelle vicende del popolo sardo

 Tratto dal volume Il pensiero necessario. Teoria e prassi nella vita politica di Umberto Cardia, (a cura di) P. Lusci, G. Marci, Isolapalma, Cagliari, 2022, ISBN 978-88-946694-8-0, p. 237-262.

In un passaggio nodale del suo libro di memorie Il mondo che ho vissuto, Cardia descrive il senso di straniamento e umiliazione provocato (nel suo animo di diciannovenne che si affacciava alla vita adulta) dal proclama con cui, il 10 giugno 1940, il Duce annunciava l’ingresso dell’Italia in guerra.

Moralmente ero già fuori dal regime e all’opposizione: ma non sapevo cosa fare, con chi parlare, al di là delle battute d’occasione e dell’indifferentismo, o del sottile cinismo, che, con poche eccezioni, accomunavano la cerchia dei miei familiari e parenti, dei miei coetanei e compagne o compagni di studio e dei nostri professori. Non avevamo, nella nostra ripulsa, né guide né maestri. Eravamo, ciascuno di noi, soli con i nostri dilemmi e i nostri tormenti. Da soli dovevamo trovare la nostra strada[1].

Lo stato di angoscia, lo spaesamento e la solitudine, il non aver «né guide né maestri», erano sentimenti diffusi, in una fase comunque attraversata da un clima di strisciante inquietudine tra un numero sempre maggiore di giovani, educati nella dottrina del fascismo, ma profondamente insoddisfatti delle sue realizzazioni concrete[2]. La mancanza di punti di riferimento alternativi all’ideologia del regime, specie tra le nuove generazioni che non avevano nemmeno memoria di cosa fosse stata l’Italia prefascista, era uno dei segnali più evidenti della vittoria di Mussolini. Essere riusciti a interrompere con il rapporto tra le generazioni, la consapevolezza e la conoscenza dei giovani sul trapasso al fascismo, era uno degli effetti dell’opera di penetrazione capillare nella società, persino nella vita delle singole famiglie, del fascismo.  Tuttavia, proprio le nuove leve allevate a “pane e fascismo” e non contaminate dal germe delle ideologie liberali, democratiche o marxiste, quelle su cui il regime tanto aveva puntato e da cui doveva venir fuori «l’uomo nuovo fascista», si rivelarono in definitiva il suo punto debole. Le generazioni inquiete degli “anni difficili”, infatti, fornirono una parte consistente di quadri e, più in generale, una base di massa alla guerra di liberazione nazionale. Come detto erano giovani cresciuti nel regime, ma furono protagonisti di un processo di distacco e poi di emancipazione dal fascismo, fino all’opposizione aperta e l’arruolamento nelle formazioni partigiane. Tra le vecchie leve di antifascisti, in gran parte esuli sconfitti anche se non piegati dal fascismo, e questi giovani c’era un salto generazionale, ciò nonostante, negli anni a cavallo tra i Trenta e i Quaranta si determinò una saldatura fortissima destinata a costituire la spina dorsale della Resistenza[3].

In questo processo storico di frattura e ricomposizione troviamo le premesse ideali e le determinazioni concrete grazie alle quali, insieme a «guide» e «maestri», Cardia riuscì a trovare la propria «strada», definendo le due passioni che animeranno l’intera sua esistenza: 1) l’amore per la politica, intesa come impegno civile teso al riscatto e all’emancipazione sociale degli sfruttati, di coloro che non hanno altra ricchezza al di fuori della propria forza lavoro e subiscono gli effetti della subalternità tanto nella dimensione materiale quanto in quella spirituale; 2) l’amore per la Sardegna e la sua storia, né da mitizzare né da misconoscere, cui andava restituita la sua importanza e dignità nel quadro generale di rinnovamento politico e sociale generato dalla sconfitta del fascismo e dall’edificazione di una nuova democrazia repubblicana con ambizioni progressive. Negli anni dei grandi dibattiti sulla Rinascita della Sardegna, di cui Cardia fu sicuro protagonista, riscattare quella storia dalle consolatorie narrazioni del «regionalismo chiuso» e insieme dalle valutazioni sprezzanti del «cosmopolitismo di maniera»[4] era un’esigenza organicamente connessa ai grandi temi dello sviluppo economico e culturale.

Nel libro curato da Umberto Cardia, nel quale vengono raccolti scritti e interventi su La Sardegna di ieri e di oggi[5], Laconi rilevava come nella storia della filosofia e delle scienze non compariva neanche il nome di un sardo, mentre nella storia letteraria a malapena era compresa Grazia Deledda. Nei manuali di storia, poi, la Sardegna emergeva raramente e in funzione totalmente marginale, fino ad apparire niente altro che terra di conquista disertata dal genio nel corso dei secoli. Dietro a questo taglio della storiografia nazionale unitaria si celava lo stesso indirizzo ideologico che aveva condannato al silenzio la storia delle classi subalterne. Pertanto, rimanevano fuori dalla storia d’Italia tutti quegli episodi nei quali la Sardegna aveva assunto una sua propria soggettività autonoma. Contro questa censura, in Sardegna, tra la fine del XVIII e l’inizio del XX secolo, si era sviluppato un movimento culturale che attraverso la ricerca storica intendeva sottrarre l’isola dall’oblio e dal silenzio delle memorie.

Dal territorio dell’approfondimento storico quel movimento si era esteso agli studi economici, dell’arte, della poesia e della letteratura. Da quest’aspirazione nasceva il progetto politico del sardismo, che era stato soffocato dal fascismo, condannando l’isola ad altri venti anni di dolorosa amputazione della sua storia e delle sue tradizioni, attraverso la cancellazione di ogni spazio che consentisse un proprio fermento culturale. Nella prospettiva nazionalista del fascismo anche gli studi sardi avevano finito per assumere un connotato sovversivo, al punto che fu ridotta al silenzio “Il Nuraghe”, l’unica realtà editoriale che tra mille limiti si era occupata di raccogliere e pubblicare le opere degli scrittori isolani. Questa lunga, pervasiva, stagione di chiusura politica e culturale, secondo Laconi, aveva finito per influenzare anche la mentalità di tanti giovani intellettuali sardi, i quali, magari, pur non essendo divenuti fascisti si lasciarono guidare dall’inerzia e dalla pigrizia, piuttosto che trovare un comune orientamento ideologico attraverso il quale resistere all’oscurantismo. A quella pigrizia e alle sicurezze conformiste che l’impiego intellettuale garantisce Laconi riconduceva anche l’atteggiamento provinciale di buona parte degli intellettuali sardi nei confronti della propria cultura, vissuta con malcelato fastidio e con l’irrisione verso l’ambiente e le tradizioni locali. Questo approccio produceva una frattura tra gli intellettuali isolani e il profondo sentimento sardista che animava il pastore o il semplice contadino.

Firenze, Torino, Roma, culle delle classi dirigenti, sono fin nelle più minute vicende della loro vita municipale, le grandi protagoniste della cronaca e della storia d’Italia. E Firenze, Milano, Roma divengono le patrie ideali dell’intellettuale di provincia. Spesso l’insegnante, il medico, che sono nati in Sardegna, si trovano nella stessa condizione d’animo del funzionario trasferitovi contro sua voglia, pronti a cogliere la prima occasione per ottenere una destinazione sul continente. E poiché i migliori trovano più facile il salto, ogni generazione d’intellettuali si screma e la Sardegna perde, di anno in anno, molti fra i suoi figli più attivi e capaci. Chi resta, se svolge un’attività artistica o culturale, ha sul continente, e non in Sardegna, il giornale o l’impresa culturale a cui far capo, ed è magari, come artista o scrittore, pressoché ignoto nell’Isola[6].

Sensibile a questo ordine di problemi, Umberto Cardia trovò in Gramsci e Laconi quelle «guide» e quei «maestri» di cui, nelle giornate tragiche del giugno 1940, sentiva disperatamente bisogno per intraprendere, all’interno di un progetto collettivo di emancipazione sociale, una sua strada verso la liberazione dall’angustia esistenziale imposta dal regime fascista. Dal primo ereditò la passione per la storia disgregata ed episodica dei gruppi subalterni raccogliendo la sua esortazione alla costruzione della “storia integrale”, ossia, un approccio insieme scientifico e politico capace di «cogliere il valore inestimabile di ogni traccia di iniziativa autonoma»[7] delle masse senza voce. Dal secondo assunse il compito programmatico della costruzione di una nuova «autonomia integrale»[8] come soluzione progressiva delle contraddizioni immanenti alla questione sarda: immettere la storia delle masse popolari sarde, con tutto il suo retroterra di tradizioni popolari e manifestazioni culturali, nel grande alveo della storia generale, della politica nazionale ed internazionale. Se la Sardegna in quanto tale esprimeva storicamente il problema di una soggettività marginale e subalterna ciò valeva ancora di più per le sue masse popolari inquadrate in livelli di assoggettamento molteplice persino più profondi e stratificati. Una «autonomia integrale» che andava perseguita non solo attraverso le lotte sociali e l’impegno politico, ma anche attraverso un’indagine storica e filosofica in grado di gettare le basi una nuova «coscienza critica» attraverso la quale popolo sardo potesse intraprendere il cammino verso la propria emancipazione:

Il sentimento del carattere profondo, millenario, delle radici e dell’autonomismo sardo è, in Gramsci, come del resto in Emilio Lussu e nella cultura sarda dell’ultimo secolo […], più istintivo che riflesso, dato lo stato ancora frammentario e monografico della ricostruzione «dall’interno» della vicenda storica del popolo sardo e dei tratti specifici, autonomi e differenziali della sua formazione nel tempo. Gli uomini politici sardi, quello d’elezione almeno, hanno dovuto sopperire a questa vasta lacuna, trasformandosi in storici o, almeno, in studiosi del nostro passato[9].

 

Il problema storico e concettuale di una dolosa rimozione

Nel volume intitolato Gramsci e la svolta degli anni Trenta curati, che raccoglie articoli e materiali pubblicati sulla rivista “Rinascita Sarda” tra il 1966 e il 1967 attorno al dibattito suscitato dalla pubblicazione della famosa biografia di Giuseppe Fiori, Umberto Cardia affronta diversi nodi interpretativi e importanti questioni non sufficientemente studiate[10]. Tra esse, egli ha indicato l’importanza della questione sarda nella definizione di alcune categorie e concezioni a partire dalle quali, nel corso di un’elaborazione di anni, Gramsci giunge a identificare nella questione meridionale lo snodo paradigmatico delle contraddizioni organiche connaturate alla formazione nazionale italiana[11].  A partire dalla sua esperienza sarda, infatti, la centralità dei rapporti di sviluppo diseguali tra Nord e Sud, chiave di volta degli equilibri sociali passivi tradizionali, diventa sempre più chiara a Gramsci.

Come personalmente ho affermato in altre occasioni[12], tenere in debita considerazione il contesto storico e sociale della terra in cui Gramsci nasce, si forma e definisce le sue propensioni intellettuali, è importante non solo per assolvere alle esigenze di ricostruzione biografica, ma per comprendere l’origine di categorie e concezioni che ne contraddistinguono il pensiero. Gramsci arriva non solo negli anni della maturità a una visione complessa del conflitto di classe, concependo la rivoluzione come sintesi di un blocco sociale capace di unire organicamente le rivendicazioni della classe operaia e le istanze storiche dei gruppi rurali subalterni. La centralità della questione contadina è in lui ben precedente alla sua scoperta e lettura di Lenin. Essa è una delle primissime acquisizioni del giovane Gramsci, affondando le proprie radici nella concretezza della formazione sociale sarda, nell’insieme delle esperienze di vita e nell’attenta osservazione di quel mondo, con tutte le sue contraddizioni[13].

Come Guido Melis ebbe modo di chiarire, nei primi anni Venti la Sardegna appariva a Gramsci il terreno ideale per la verifica delle sue idee sulla questione meridionale, per questo, e non solo per riabbracciare i suoi effetti, nell’ottobre del 1924, decise di tornare per l’ultima volta nella sua terra in occasione del Congresso semiclandestino di Is Arenas a Cagliari:

L’aveva ammesso implicitamente egli stesso, quando, nel 1923, aveva definito proprio la situazione del Partito sardo d’Azione, movimento di ex combattenti e come tale “primo partito laico” dei contadini”, come «il campo per affermazioni essenziali nel problema dei rapporti fra proletariato e classi di campagna». Lo avrebbe ribadito a Is Arenas, nell’intento di convincere i riluttanti compagni sardi ad una politica più aperta verso il problema delle masse rurali[14].

L’importanza di questo vincolo tra Gramsci e la sua terra, tuttavia, ancora oggi, appare non pienamente considerato nella sua debita importanza[15]. In parte non trascurabile della cultura italiana persiste, forte e radicata, la tendenza a non prendere mai troppo sul serio le vicende della storia sociale sarda, considerata in genere “storia locale” o “storia minore”, di limitato o secondario interesse rispetto alla “Storia con la S maiuscola”. Una sottovalutazione che coinvolge anche molte letture dell’opera di Gramsci, la cui genialità è sovente ricondotta alla “sprovincializzazione” del futuro teorico dell’egemonia nel continente. In realtà non solo il retroterra sardo è fondamentale per comprendere la sua formazione[16], la questione sarda è importante nel processo di definizione della questione meridionale, in primo luogo per capire le premesse della rivolta morale contro la natura parassitaria del capitalismo italiano, che porta il giovane Gramsci ad assumere per la prima volta una posizione politica formale aderendo al Gruppo sardo antiprotezionista di Attilio Deffenu già nel 1913[17].

Di questa giovanile rivolta morale, che lo salvò dal «diventare completamente un cencio inamidato», troviamo traccia anche nelle lettere, ad esempio in quella spedita alla madre il 6 marzo 1924 nella quale Gramsci ricordava l’istinto di ribellione contro i ricchi, allargatosi a «tutti i ricchi che opprimevano i contadini della Sardegna», quando il futuro dirigente comunista ancora pensava che «si dovesse lottare per l’indipendenza nazionale della regione» e nelle sue discussioni ripeteva spesso la frase «Al mare i continentali!»[18]. La rimozione di questo retroterra, in sé poco gramsciana, diventa paradossale quando a fronte dell’interesse post-coloniale verso realtà lontane caratterizzate dall’assoggettamento capitalistico occidentale, negli studi gramsciani non si mostra la stessa attenzione per le dinamiche di “colonialismo interno”, relegate nella dimensione della irrilevanza storica in quanto “periferiche”. Quando poi questa “periferia” è addirittura ventre materno palestra di vita di un autore come Gramsci dal paradosso si passa alla contraddizione. Ciò di cui non si tiene conto, sebbene sia di fondamentale importanza nella definizione di alcune concezioni e posizioni specifiche di Gramsci, è l’insieme degli avvenimenti che riguardano la modernizzazione passiva della sua terra[19].

In evidente polemica con questa dolosa rimozione, Cardia ha scritto, «Gramsci fu più sardo e più pienamente di quanto non si sia generalmente riconosciuto ed ammesso»[20]:

Si è persino potuto credere che, nel suo pensiero e nella sua concezione nazionale e universale, della rivoluzione proletaria e della creazione dell’ordine nuovo socialista e comunista, nell’immagine stessa di un mondo grande e terribile con le sue mareggiate e catastrofi, vi fosse non so quale superamento della «questione sarda» e del «sardismo», o che la Sardegna finisse per essere, nella mente di lui, solo il porto lontano ed angusto da cui aveva, un giorno, alzato le vele, una regione di favola, un ricordo, una acuta nostalgia. E che, in definitiva, nella sua visione, unitaria e nazionale, della questione meridionale e del disgregato e informe amalgama contadino, cui solo l’impulso disciplinato della moderna classe operaia settentrionale poteva imprimere uno slancio rivoluzionario, si perdesse ogni specificità e concretezza storica della «questione sarda» come questione di una semi-nazionalità in lotta per il riscatto politico, economico, civile[21].

Questione sarda e questione meridionale

Come sappiamo, la questione meridionale è sistematicamente presente in tutte le elaborazioni politiche e nell’analisi della società italiana di Gramsci, una questione problematica attorno alla quale si articolano le contraddizioni del processo di unificazione nazionale e le modalità distorte di sviluppo economico e sociale del Paese. Approfondendo tutto questo, attraverso una lunga e articolata elaborazione, l’autore dei Quaderni ha definito alcune delle sue categorie più importanti e studiate a livello internazionale, come quelle riconducibili al ruolo dell’egemonia e alla funzione degli intellettuali nell’opera di passivizzazione e neutralizzazione preventiva di qualsiasi autonoma soggettività dei gruppi subalterni. La centralità di questo problema nell’elaborazione gramsciana si definisce negli anni, costituendo l’asse centrale delle Tesi di Lione, del saggio sulla Questione meridionale e delle note dei Quaderni sulle contraddizioni immanenti al processo di unificazione ed edificazione statale italiana.

L’Ottocento è un secolo emblematico per la storia d’Italia, non solo per i processi politici che preparano e conducono in porto un evento tanto complesso e difficile a realizzarsi come l’Unità d’Italia, ma anche perché in esso si determinano significative tensioni dialettiche connesse alla modernizzazione (economico-sociale, politico-istituzionale, culturale), destinate ad avere importanti riflessi anche sulla storia del Novecento. Ciò riguarda in primo luogo la storia della Sardegna, al centro di processi riformatori che, a prescindere dai giudizi di merito e dai risultati ottenuti, costituiscono un epocale momento di transizione. Il problema della costituzione di un capitale originario e di una conseguente borghesia con connotati moderni, il mutamento dei regimi fondiari e delle modalità di produzione e accumulazione nelle campagne, la questione degli assetti istituzionali dell’isola in rapporto ai più complessivi mutamenti nella penisola, sono tutti temi di assoluto rilievo storico che in passato hanno trovato molteplici momenti di approfondimento monografico in ambito economico, giuridico e storico. In Sardegna la tradizionale dialettica città-campagna assume una sua connotazione peculiare come dialettica incrociata tra borghesia urbana e comunità dedite alle attività pastorali e, allo stesso tempo, tra agricoltura stanziale e allevamento errante. Tutti i problemi economici, culturali e politici connessi alle riforme sulla proprietà perfetta e l’eversione del vecchio regime feudale, così come le fasi più acute di malessere sociale sfociate nelle ondate di banditismo, sono connesse strettamente a questa dialettica.

La concezione amministrativa e moderna dello Stato piemontese, pervasa da una fiducia illuministica e fisiocratica verso le possibilità di transizione normativa alla modernità, rivelò, nell’urto con la realtà sarda una indubbia rigidità politica, ciò impedì, anche in età liberale, di comprendere nel profondo le cause reali del suo malessere. Tutto rientrava nell’alveo della prova di forza militare e degli interventi legislativi tesi a cancellare l’anomalia della civiltà pastorale sarda con un regime fondiario che ne impedisse la sopravvivenza. «I piemontesi obbedivano ad un disegno di colonizzazione più puntuale e rigoroso di quello spagnolo, un disegno che richiedeva un controllo sicuro dell’intero territorio isolano»[22].

Tra il 1720 e il 1850 per i Savoia e le classi dirigenti sardo-piemontesi la Sardegna è stata un grande laboratorio nel quale vengono sperimentate le forme di egemonia e di dominio che si riproporranno dopo l’Unità nella relazione diseguale tra regioni settentrionali e meridionali. Con la fine dei moti antifeudali, dei fermenti antipiemontesi e delle rivendicazioni autonomistiche, si aprì una fase di progressivo inserimento delle classi dirigenti sarde negli equilibri governativi[23].

Rifacendosi alle categorie di Gramsci, Cardia spiega come la dialettica tra classi dirigenti e subalterni in Sardegna, quella tradizionale tra città e campagna, resa qui ancora più complessa dalla dialettica tra agricoltura stanziale e pastorizia errante, trova dunque un punto essenziale nella funzione degli intellettuali grandi, intermedi e piccoli. Secondo Cardia, superate le turbolenze di fine Settecento, nel corso del XIX secolo si determina un assorbimento delle classi dirigenti sarde entro gli equilibri di quelle piemontesi prima, e italiane poi. Tutti gli strumenti culturali inevitabilmente sono messi a servizio di quest’operazione politica di modernizzazione passiva, ottenuta evitando accuratamente ogni reale processo di crescita delle masse rurali sarde in termini di indipendenza economica, sociale e quindi politica.

La dinamica della modernizzazione sarda nei termini di una rivoluzione passiva, a partire dalla trasformazione del suo regime fondiario nel corso del XIX secolo[24], seppur nelle sue peculiarità, costituisce un primo importantissimo caso di colonialismo interno che, sotto diversi aspetti, anche nelle forme di radicale insorgenza generate e duramente represse, anticipa le caratteristiche essenziali della questione meridionale italiana[25]. Come ha scritto Giulio Angioni, «con una certa verosimiglianza si può affermare che la Sardegna è stata in qualche modo una piccola prova generale del processo di discriminazione sviluppatosi macroscopicamente in seguito nell’ambito dello Stato nazionale italiano, diretto dalla borghesia industriale e finanziaria delle regioni settentrionali e secondariamente dagli agrari latifondisti e da altri ceti parassitari del Meridione».[26]

La barbarie congenita

La continuità nel rappresentare a tinte fosche la civiltà pastorale, affermandone la congenita e brutale tendenza a delinquere, rientra per molti versi in questa dinamica delle classi dirigenti in gran parte disinteressate alla vera natura delle contraddizioni al fondo della questione sarda, su cui, con queste parole, Cardia si esprime:

Il brigantaggio sardo, forma peculiare di banditismo rurale, i cui rudimenti disgregati permangono nelle ultime vicende del nostro secolo, sgorga continuamente, oltre che da radici e motivi di carattere più generale e politico, da quella contraddizione, come prodotto organico non della povertà endemica ma del sistema di appropriazione e di gestione della terra e del pascolo. Il banditismo sardo nasce, sociologicamente, nel terreno selvaggio della lotta e della concorrenza per i pascoli, per un confine, per una fonte e un rivo d’acqua: la società lo plasma poi, a seconda del prevalere delle forme specifiche del potere economico, sociale, politico[27].

Trascurare la matrice politica del banditismo durante la transizione sarda verso la modernità, dunque, significa per Cardia non comprendere in profondità un fenomeno che anche fino a tempi relativamente recenti produceva senso di appartenenza ed emulazione in non limitati strati di popolazione. La vita alla macchia per lungo tempo è stata percepita «una forma sia pure degradata di libertà, quasi immagine e nostalgia di un proprio autoctono stato, di una giustizia propria»[28]. Il ribellismo endemico in Sardegna, almeno alle sue origini, ha avuto anche un suo significato sociale e politico di rifiuto verso i modelli imposti dal «forestiero», di rivolta contro l’oppressione feudale prima e capitalistica poi, in quanto formazioni sociali imposte dall’esterno.

Nell’urto prodottosi dal contrasto tra gli usi tradizionali della società sarda e l’avvento di forme economiche, giuridiche e istituzionali moderne, l’esplodere del banditismo sociale, i moti popolari all’insegna del torrare a su connottu, sono anche conseguenza diretta di quell’«equilibrio passivo» su cui si realizzò la fusione e dell’occasione persa dalle stesse classi dirigenti sarde. La modernizzazione si arrestò a un livello preliminare senza dar corso a una reale evoluzione di tipo liberale, dell’economia, della società e soprattutto del sistema politico. La pastorizia errante, nonostante la sua centralità nella società sarda, fu il principale ambito produttivo a fare le spese del nuovo regime. Complice il fisco rapace, l’approssimazione mortificante con cui fu realizzato il catasto, l’assenza di risorse da investire per una modernizzazione effettiva della produzione nelle campagne, le riforme non riuscirono a imprimere la svolta auspicata e propagandata, deprimendo ulteriormente una realtà economica già di per sé debole. In assenza del decollo imprenditoriale e capitalistico della produzione agraria, la struttura economica delle campagne non fu in grado di assorbire forza lavoro e, al contempo, non disponeva più delle tradizionali regole di autosufficienza su cui si era basata per secoli la sussistenza delle masse rurali. Le vecchie civiltà rurali si trovarono sotto assedio e i pastori furono marchiati come residuo di un passato feudale da cancellare. Da ciò una miseria crescente che finì per suscitare una nostalgia leggendaria per il passato e la fiera resistenza in difesa di quel poco che ne era sopravvissuto. Come ho avuto modo di chiarire in una mia monografia, gli abusi commessi dai proprietari nella realizzazione dei loro patrimoni, spesso con la complicità delle istituzioni, contribuirono a far percepire a molti la proprietà privata delle terre come il frutto di una gigantesca razzia, di un’usurpazione violenta e prepotente, di una bardana originaria su larga scala.

Un profondo mutamento nel modo di produzione agropastorale si determinò inoltre con l’impianto delle industrie casearie in Sardegna tra il 1885 e gli inizi del Novecento. I primi stabilimenti vennero creati da imprenditori laziali e toscani desiderosi di far fronte alle crescenti richieste di pecorino romano dal mercato statunitense a cui la produzione del Lazio non poteva far fronte. La pastorizia sarda aveva mantenuto nei secoli una fisionomia primitiva e la produzione era finalizzata al limitato mercato interno, al baratto, alle mere esigenze delle stesse famiglie di produttori. Le esigenze del mercato nazionale e internazionale spinsero a incrementare la produzione di latte, quindi a sottrarre terreni all’agricoltura per destinarli al pascolo. In ragione del minor numero di addetti nella pastorizia rispetto all’agricoltura si determinò una diminuzione degli occupati nelle campagne, contestualmente ad un aumento dei canoni di affitto e del costo della vita. La nuova fase imprenditoriale avvantaggiò esclusivamente la proprietà fondiaria e gli industriali che potendo fare cartello imponevano con assoluta discrezionalità un prezzo del latte talmente irrisorio da impedire qualsiasi investimento e sviluppo fino a non consentire la copertura dei costi di produzione. Se prima i pastori erano i signori delle zone interne che controllavano autonomamente l’intero ciclo di produzione pastorale, con la privatizzazione delle terre e l’impianto dell’industria casearia divengono solo un anello della catena, quello più debole e indifeso esposto ad una condizione di precarietà che inevitabilmente genera tensione verso i proprietari terrieri e gli industriali. Il cosiddetto malessere delle zone interne, i picchi nei tassi di criminalità dall’Ottocento fino a tempi recentissimi affondano le radici in questo insieme di concause. Il pastore prima era allevatore, produttore e commerciante, ora è solo un custode mungitore, mentre la trasformazione e commercializzazione vengono assunti dai gruppi industriali. Un processo che ricorda molto da vicino le riflessioni di Marx sulla separazione del produttore dai mezzi di produzione nella cosiddetta fase dell’accumulazione originaria.

Nella sua relazione per l’Inchiesta parlamentare del 1971 Ignazio Pirastu individuò proprio in questa contraddizione, tra la dimensione ancora primitiva dell’allevamento e la modernità capitalistica delle fasi di trasformazione e vendita dei prodotti, il punto critico della società sarda che incredibilmente ha varcato non solo l’Ottocento ma anche il secolo successivo, arrivando fino alle cronache di lotta dei pastori sardi dei giorni nostri:

Sarà il pastore d’ora in poi a subire le conseguenze di ogni crisi di mercato, crisi che l’industriale potrà affrontare con la manovra del prezzo del latte contro il pastore ormai non più in grado di modificare la rigida componente del canone d’affitto cui si è impegnato o che ha già pagato all’inizio dell’annata agraria. […] La mancata modifica del primitivo assetto della pastorizia e la mancata trasformazione dei pascoli urtano drammaticamente con le nuove moderne forme di produzione industriale, accentuando ed esasperando le contraddizioni, il divario e l’impronta di arretratezza che già esisteva nel secolo precedente[29].

Il pastore è inserito in un mercato più vasto che non può più controllare in alcun modo, ne diviene la semplice forza lavoro senza per questo mutare le forme arcaiche della sua realtà. Non è un lavoratore salariato, ma subisce allo stesso modo quel processo di alienazione tra la sua attività e il risultato del suo lavoro che Marx aveva analizzato per la produzione industriale. Il punto decisivo, che segna la rottura dei vecchi equilibri e determina l’esplodere del banditismo, non è tanto o solo la condizione di disagio economico, quanto il costante rischio di annullamento, il declassamento imposto dalla preponderanza di figure sociali più forti e tutelate come i proprietari e gli industriali. Un mondo sottoposto alla costante minaccia di perdere tutto, agitato dal timore dei pastori di ridursi a braccianti, senza né terra né bestiame, quindi dalla paura di perdere una funzione sociale e produttiva esercitata con continuità in una lunghissima storia. È da questa condizione sociale, nelle campagne sempre più spopolate, nelle fasi della transumanza, che ha origine quello che viene definito il primo passo verso il banditismo, l’abigeato, quindi la rapina e l’estorsione.

Secondo Gramsci, il processo d’unificazione nazionale italiano non si realizzò sulla base di un rapporto d’uguaglianza, ma attraverso una relazione squilibrata all’interno della quale l’arricchimento e l’incremento industriale del Nord dipendevano strettamente dal crescente impoverimento del Mezzogiorno. La realtà dello sfruttamento semicoloniale del Sud è stata sempre accuratamente celata dalle classi dirigenti e a quest’opera, secondo Gramsci, contribuirono pure gli intellettuali socialisti, i quali, anziché svelare l’origine del rapporto diseguale, spiegarono l’arretratezza del Sud con l’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita dell’uomo meridionale. In questo modo ha trovato ampio seguito la convinzione di un Sud liberato dalla feudalità, fertile e ricco di risorse naturali, e ciò nonostante incapace di emanciparsi dalla miseria e dall’arretratezza per ragioni tutte interne al Meridione stesso; vale a dire, si è radicata l’immagine di un Sud «palla al piede» che impediva al Nord un più rapido progresso verso la modernità industriale e la ricchezza economica[30]. Una visione presente, ben prima dell’Unità d’Italia, anche nelle analisi sul disagio economico e sociale della Sardegna e del suo fenomeno più emblematico, il banditismo.

Come ha scritto Michelangelo Pira, per lungo tempo, le cause del banditismo, e del brigantaggio meridionale, furono ricondotte alle individualità «considerate feroci per natura» piuttosto che «ai codici di intere comunità oppresse». Il positivismo fece da supporto scientifico alla pretesa di imporre con l’esercito la «civiltà», e tra le classi dirigenti mai si fece spazio l’idea che «la questione sarda non è una questione di polizia, ma una vera e propria guerra politica e sociale»[31].

Prima e dopo il Risorgimento, la questione sarda fu archiviata come problema di ordine pubblico e il banditismo considerato la causa del sottosviluppo, non l’effetto; le cause della criminalità andavano ricercate in una sorta di tara congenita, biologico-razziale, del popolo sardo[32]. Un tema che troviamo spesso nelle riflessioni di Gramsci, tanto negli scritti giovanili[33], pensiamo all’articolo da egli dedicato al viaggio di Pietro Mascagni in Sardegna nel maggio 1916, trasformato sulle colonne de “La Stampa” in viaggio esotico in una terra primitiva abitata da barbari e banditi[34], quanto nelle considerazioni mature sul rapporto nefasto tra positivismo e antropologia criminale presente negli approcci del socialismo italiano alla questione meridionale.

Le basi parassitarie del protezionismo

Dietro al protezionismo, che colpì ferocemente la società sarda di fine Ottocento, Gramsci intravvedeva la moneta di scambio del blocco di potere che univa la borghesia industriale del Nord e i ceti parassitari della proprietà terriera meridionale, di cui le sterminate plebi del Sud pagarono il conto. La drammatica condizione della Sardegna a cavallo tra Ottocento e Novecento, posta in relazione con gli effetti devastanti del protezionismo, è descritta da Gramsci nel 1918 come esempio paradigmatico delle contraddizioni nazionali:

Anni terribili, che in Sardegna, per esempio, hanno lasciato lo stesso ricordo dell’anno ’12 [1812, n.d.A.], quando si moriva di fame per le vie e uno starello di grano veniva clandestinamente scambiato col campo seminativo corrispondente. L’inchiesta dell’on. Pais sulla Sardegna è un documento che rimarrà indelebile marchio d’infamia per la politica di Crispi e dei ceti economici che la sostennero. L’isola di Sardegna fu letteralmente rasa al suolo come per un’invasione barbarica; caddero le foreste – che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche – per trovare merce facile che ridesse credito, e piovvero invece gli spogliatoi di cadaveri, che corruppero i costumi politici e la vita morale[35].

Già in un articolo dell’aprile 1916 Gramsci trova nella questione meridionale un incrocio di contraddizioni paradigmatiche dei limiti nel processo di unificazione nazionale, a partire dall’adozione di un modello amministrativo centralistico, inadeguato alla realtà italiana e profondamente diverso da quello che Cavour aveva in mente. Dopo più di mille anni venivano riunificati due tronconi della penisola fino ad allora caratterizzati da forme di sviluppo storico, economico e anche istituzionale completamente differenti. «L’accentramento bestiale» concepì il Sud come mercato coloniale interno del Nord, confondendo o ignorando le reali esigenze del Mezzogiorno. L’unica alternativa alla miseria assoluta si incontrava negli esodi biblici dell’emigrazione di massa, mentre la reazione a questo stato di cose si manifestò nelle forme episodiche e disorganiche del ribellismo contadino o del brigantaggio. Il protezionismo, pertanto, era lo strumento di consolidamento di un processo contraddittorio di modernizzazione, in seguito sintetizzato con il concetto di «rivoluzione passiva», il sigillo apposto a quell’alleanza con cui si rendeva e strutturale la questione meridionale:

il protezionismo industriale rialzava il costo della vita al contadino calabrese, senza che il protezionismo agrario, inutile per lui che produceva […] riuscisse a ristabilire l’equilibrio. La politica estera degli ultimi trent’anni rese quasi sterili i benefici effetti dell’emigrazione. Le guerre eritree, quella di Libia, fecero emettere dei prestiti interni che assorbirono i risparmi degli emigrati[36].

Gli equilibri passivi e conservatori dell’Italia, cementati dal trasformismo molecolare dall’Unità sino al fascismo[37], si basavano proprio su questa alleanza parassitaria tra le classi dirigenti nazionali responsabile del drenaggio permanente di quote enormi di ricchezza prodotta per sostenere intere stratificazioni di classi improduttive.

Gramsci, tuttavia, contrariamente a quanto solitamente si scrive, non prende coscienza della funzione parassitaria e regressiva del protezionismo a contatto con gli ambienti accademici einaudiani a Torino, ma in Sardegna, dove questa misura arrivò come una pietra tombale apposta a qualsiasi prospettiva progressiva di modernizzazione. La Sardegna visse la sua transizione alla modernità all’interno di un rapporto diseguale i cui termini fondamentali, anche grazie al protezionismo, erano destinati a perdurare nel nuovo secolo. Paradossalmente, uno dei segnali più forti di unità con il quale la Sardegna è riconosciuta parte integrante della realtà nazionale non viene dalla storia delle classi dirigenti, ma da quella delle sue masse di sfruttati: la proclamazione del primo sciopero generale nazionale nella storia d’Italia del 1904 dopo l’eccidio di Buggerru.  Temi che riemergono nel 1919, in un articolo, intitolato I dolori della Sardegna, nel quale Gramsci denunciava la disastrosa condizione coloniale in cui era costretta la sua terra, la cui origine risaliva proprio ai tempi del Regno di Sardegna e al dominio delle classi dirigenti torinesi:

La censura non ha permesso che si accennasse ai rapporti politici ed economici che intercorrono tra la Sardegna e la classe dirigente italiana e specialmente tra la Sardegna e quella classe dirigente italiana che abita a Torino (borghesia industriale e nobiltà). […] Perché deve essere proibito all’Avanti! ricordare che a Torino hanno la sede i consigli di amministrazione delle ferrovie sarde e di qualche società mineraria sarda? Perché deve essere proibito ricordare che gli azionisti  delle Ferrovie sarde, i quali si dividono lautissimi dividendi, i quali riscuotono per ogni chilometro di strada ferrata, fanno viaggiare i pastori e i contadini sardi in vetture bestiame, fanno pagare ai pastori e ai contadini sardi tariffe altissime, fanno viaggiare i contadini e i pastori sardi in convogli trainati da locomotive riscaldate a legna invece che carbon fossile, provocando ogni anno centinaia di migliaia di lire di danni con gli incendi determinati da questo combustibile? Perché non si può ricordare che i minatori sardi sono pagati con salari da fame, mentre gli azionisti torinesi impugnano i loro portafogli con dividendi cristallizzati con il sangue dei minatori sardi, che spesso si riducono a mangiare le radici per non morire di fame? Perché deve essere proibito ricordare che due terzi degli abitanti della Sardegna vanno scalzi d’inverno e d’estate, perché il prezzo delle pelli è portato alle altezze proibitive dai dazi dei protettori che arricchiscono gli industriali torinesi del cuoio, uno dei quali è presidente della Camera di Commercio di Torino? Perché è proibito ricordare che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini, dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea, in quanto lo Stato «spende» per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale?[38].

Conclusioni

Nelle note su Americanismo e Fordismo Gramsci descrive l’essenza della società meridionale a partire da un dato strutturale: la sopravvivenza in essa di classi generate dalla ricchezza e complessità della storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito[39].

Il compromesso tra industriali e agrari, reso possibile dal protezionismo, attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord industrializzato era come la metropoli capitalistica per la colonia; le classi dirigenti del Sud (grandi proprietari e media borghesia) svolgevano la stessa funzione delle categorie sociali delle colonie alleate con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al proprio sfruttamento. In Italia il protezionismo si consolidò sfruttando abilmente gli interessi antagonistici tra città e campagna contrapponendo una parte dell’Italia all’altra. In questa dinamica il prezzo del grano divenne leva per garantire la sopravvivenza dei ceti improduttivi, non certo uno strumento teso a favorire lo sviluppo rurale[40]. L’egemonia del Nord sul Sud avrebbe potuto assolvere una funzione positiva se l’industrialismo si fosse posto l’obiettivo di ampliare la sua base di nuovi quadri, incorporando, non dominando, le nuove zone economiche assimilate. In tal senso l’egemonia del Nord sarebbe stata espressione di «una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo»[41].

Una dinamica di questo tipo avrebbe potuto innescare o favorire una rivoluzione economica con carattere nazionale, al contrario l’egemonia non ebbe carattere inclusivo, ossia finalizzata a far venir meno quella distinzione, ma «permanente», «perpetua», nel senso di reggersi su un’idea di sviluppo diseguale tale da rendere la debolezza del Sud un fattore, indeterminato nel tempo, funzionale alla crescita industriale del Nord, come se il primo fosse una appendice coloniale del secondo. Questo vincolo organico, questa alleanza innaturale, impedì la dialettica (caratteristica delle forme classiche di sviluppo capitalistico) tra due classi che non dovrebbero essere permanentemente alleate, salvo congiunture particolari, ma contrapposte. In Gran Bretagna dalla dialettica tra industriali e agrari si è originata anche la storia dei partiti e quella parlamentare. In Italia non esisteva la rotazione su base parlamentare, la formazione delle classi dirigenti avveniva per assorbimento e cooptazione fiduciaria, tramite il trasformismo, di singole personalità negli equilibri passivi del grumo di interessi addensatosi attorno alla Corona. Il sistema gerarchizzato di privilegi definitosi dopo il Risorgimento ha portato ad accentuare e rendere permanente la natura arretrata della struttura economico-sociale meridionale, aumentando a dismisura il suo sfruttamento e drenando da essa quote di risparmio delle sue classi parassitarie verso il Nord. Tuttavia, nella prospettiva storica questo sistema di compromesso si rivelò inefficace perché si risolse in un ostacolo allo sviluppo tanto dell’economia industriale, quanto di quella agraria, ciò determinò in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse. I termini di questa contraddizione trovarono in Sardegna modo di esprimersi, in tutta la loro drammatica crudezza, particolarmente a cavallo tra i due secoli. Proprio negli anni dell’infanzia di Gramsci, l’Isola visse drammaticamente tanto le conseguenze negative della modernizzazione passiva anteriore all’Unità d’Italia quanto gli effetti depressivi generati dalle nuove politiche protezionistiche nazionali, anni segnati da conflitti durissimi, come l’eccidio di Buggerru e i moti insurrezionali del 1906 testimoniano[42].

Come Cardia ha segnalato nel corso degli anni, l’origine di questa ricca elaborazione trova nella questione sarda una centralità solo raramente riconosciuta e ancora meno approfondita[43].  Lo stretto intreccio di tali questioni, dunque l’anteriorità della questione sarda rispetto alla questione meridionale nelle analisi gramsciane, è stato uno degli assilli che più hanno segnato la vita politica, gli studi e le riflessioni di Umberto Cardia. Problemi in buona parte ancora sul tappeto, rispetto ai quali la sua lezione può fornirci stimoli e suggerimenti essenziali, utili non solo a interpretare la realtà, ma a trasformarla in meglio.

 

Gianni Fresu

 

Immagine tratta dall’Archivio fotografico di Giuseppe Podda.

 

 

 

 

 

[1] U. Cardia, Il mondo che ho vissuto, a cura di G. Marci, Cagliari, Cuec, 2009, p. 118-119.

[2] Tra tutti, il testo fondamentale per comprendere la crisi del regime presso le giovani leve cresciute nel Ventennio, rimane l’opera di Ruggero Zangrandi Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Amico d’infanzia e compagno di studi di Vittorio Mussolini, l’autore è per molti versi una figura che sintetizza in sé la delusione di una generazione cresciuta con il mito della rivoluzione fascista, divenendo perciò ancora più risoluta nel prenderne le distanze, una volta compresa la differenza di significato tra autorappresentazione e realizzazioni concrete del regime: R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Milano, Feltrinelli, 1976.

[3] Per maggiori approfondimenti su questo tema rimando alla monografia nella quale ho avuto modo di trattare approfonditamente questi argomenti: G. Fresu, Eugenio Curiel. Il lungo viaggio contro il fascismo, Roma, Odradek, 2013.

[4]«Cosmopolitismo di maniera» e «regionalismo chiuso» non sono unicamente i vizi tipici di un’intellighenzia di matrice sostanzialmente provinciale: Gramsci vi vede due deviazioni attive e operanti nella stessa lotta di classe sarda, sia in termini d’un avanguardismo esasperato che separa i potenziali gruppi dirigenti, e in primo luogo gli intellettuali, dal movimento di massa, sia sotto la forma del separatismo e dell’indipendentismo su base regionale, una versione appena più sofisticata di quell’istintiva ideologia dell’«a mare i continentali!» che lo stesso giovane Gramsci aveva conosciuto e praticato. In entrambi i casi il risultato politico consiste nella separazione dei contadini e dei pastori sardi dai loro «fratelli continentali», nella frammentazione di un potenziale fronte di lotta anticapitalistico, in un vantaggio per l’avversario di classe: Guido Melis, Antonio Gramsci e la questione sarda, Cagliari, Edizioni della Torre, 1977, p. 14.

[5] L’opera, seppur nel suo carattere frammentario, viene pubblicata postuma con il titolo La Sardegna di ieri e di oggi grazie al lavoro di Umberto Cardia, che dopo aver lavorato per anni nello stesso partito a stretto contatto di gomito con Laconi curò la pubblicazione di queste note. Prima di addentrarci in esse, una tappa intermedia essenziale è contenuta nel saggio Questione sarda e questione meridionale, pubblicato su «Rinascita Sarda» nel 1957: R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967), Cagliari, Edes, 1988.

[6] R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967), Cagliari, Edes, 1988, p. 233.

[7] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Q. 22, §2, Torino, Einaudi, 1975, p. 2283-2284.

[8]«Io non voglio, qui, riassumerne i termini politici, riproporre le ragioni e i connotati di quella che ho chiamato, altrove, “autonomia integrale”, traendo l’espressione da Gramsci, laddove parla dei problemi della subalternità e del suo superamento. Solo una autonomia più forte, nel senso giuridico-istituzionale e politico della espressione, può consentirci di signoreggiare i processi della triplice integrazione: italiana, europea, mondiale». U. Cardia, Il mondo che ho vissuto, cit. p. 47.

[9] U. Cardia, La Sardegna di Laconi, in R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi. Scritti e discorsi (1945-1967, cit., p. 13.

[10] «Ecco, ancora, dunque, un problema e un nodo da esplorare, da portare alla luce, da risolvere: il modo come, in Gramsci, comincia a delinearsi la concezione dell’autonomia sarda, della lotta per il rinnovamento della società isolana, di un potere autonomistico nuovo, appoggiato sulle grandi masse dei contadini, di operai e intellettuali». U.  Cardia, Il sardismo di Gramsci, “Rinascita sarda”, a. IV, n. 9, 15-31 maggio 1967, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, a cura di U. Cardia, Cagliari, Edes, 1976, p. 26.

[11] «Attento lettore di Antonio Gramsci e assiduo studioso di storia e cultura sarda, Cardia una penetrante analisi degli enormi ostacoli che un gruppo subalterno deve superare al fine di liberarsi dalla prigione dei propri usi e costumi fossilizzati, acquisire la capacità di parlare a nome proprio e imparare ad autogovernarsi. Come Gramsci ha spiegato nelle sue note sui subalterni, il raggiungimento dell’autonomia è un processo molto più complicato e lento di un atto di sfida contro il potere. […] Nelle sue riflessioni su subalternità e autonomia, Cardia fa eco a Gramsci, ma offre anche al suo lettore qualcosa di più, ovvero un chiarimento e un esame critico degli aspetti distintivi e specifici della “questione sarda” che Gramsci aveva toccato solo brevemente in alcuni appunti sparsi. A differenza di Gramsci, naturalmente, Cardia è stato in grado di osservare in prima persona e di svolgere un ruolo di primo piano nella vita politica e culturale della Sardegna», J. Buttigieg, Prefazione, in U. Cardia, Il mondo che ho vissuto, cit., p.  XXIII.

[12] G. Fresu, Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Cagliari, Aipsa, 2019, p. 221-246.

[13] U. Cardia, Regionalismo e classe operaia nel pensiero di Gramsci, “Rinascita sarda”, a. V, n. 8, 20 aprile / 5 maggio 1967, cit., pp. 141-146.

[14] G. Melis, Antonio Gramsci: un’idea di Sardegna, in A. Gramsci, Scritti sulla Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2008, p. 21.

[15] Guido Melis, curatore nel 1975 di una prima antologia di scritti sulla questione sarda (Antonio Gramsci e la questione sarda, Cagliari, Edizioni Della Torre), nella sua introduzione a una nuova raccolta attorno a questo tema da lui curata, 33 anni dopo il suo primo approfondimento, così rileva: «Desta una certa sorpresa, affrontando il tema ormai molto sedimentato del Gramsci sardo, dover constatare come nel grande corpus degli scritti gramsciani i riferimenti diretti alla Sardegna siano relativamente pochi»: G. Melis, Antonio Gramsci: un’idea di Sardegna, in Antonio Gramsci, Scritti sulla Sardegna, cit., p. 9.

[16] Renzo Laconi pose con acutezza l’esigenza di un’indagine gramsciana sull’importanza della questione sarda nella formazione intellettuale dell’autore dei Quaderni, mostrando quanto il particolare contesto del ventennio da lui trascorso nell’Isola fu essenziale per formare la sua concezione complessa della lotta di classe, orientando di fatto i suoi interessi e le sue propensioni intellettuali. R. Laconi, Note per un’indagine gramsciana. XX anniversario della morte di Gramsci, “Rinascita sarda”, n. 1.2, 15 giugno 1957, p. 65-74.

[17] «Caro Deffenu, ti ho già indirizzato da parecchio un vaglia di 2,00 lire quota di adesione al Gruppo sardo della Lega antiprotezionista» A. Gramsci, Epistolario, volume 1 (1906-1922), Edizione Nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci, Roma, Treccani, 2009, p. 143.

[18] A. Gramsci, Scritti sulla Sardegna, cit., p. 105.

[19] Per maggiori approfondimenti rimando a G. Fresu, La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, Cagliari, Cuec, 2011.

[20] U.  Cardia, Il sardismo di Gramsci, “Rinascita sarda”, a. IV, n. 9, 15-31 maggio 1967, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, cit., p. 24.

[21] Ibidem.

[22] M. Brigaglia, Sardegna perché banditi, Milano, Carte segrete, 1971, p. 60.

[23] U. Cardia, Autonomia sarda. Un’idea che attraversa i secoli, Cagliari, Cuec, 1999, p. 173-174.

[24] Come ha ben sintetizzato Birocchi, forse lo studioso che con maggior rigore e serietà scientifica ha affrontato questi temi, «il trionfo della proprietà in Sardegna coincise con l’affermarsi di una borghesia non solo priva di quegli orizzonti universalistici che altrove l’avevano portata alla testa del movimento riformatore, ma legata a mentalità clientelari e a pratiche suggerite da interessi estremamente ristretti»: I. Birocchi, Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna. Provvedimenti normativi, orientamenti di governo e ruolo delle forze sociali dal 1839 al 1851, Milano, Giuffrè, 1982, pp. 446-447.

[25] Per maggiori approfondimenti rimandiamo a una monografia nella quale ci siamo occupati diffusamente della contraddittoria transizione alla modernità della Sardegna e dei conflitti da essa generata attraverso un lavoro di archivio e di analisi storico-sociale e politica che ha fatto ampio ricorso alle categorie di Antonio Gramsci: G. Fresu, La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, cit.

[26] G. Angioni, Rapporti di produzione e cultura subalterna: contadini in Sardegna, Cagliari, Edes, 1982, p. 70.

[27] Ivi, p. 37-38.

[28] Ivi, p. 100

[29] I. Pirastu, Il banditismo in Sardegna, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 64-55.

[30] A. Gramsci, La questione meridionale, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 9-10.

[31] M. Pira, La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna, Milano, Giuffrè, 1978, p. 101.

[32] A. Niceforo, La delinquenza in Sardegna, Cagliari, Edizioni della Torre, 1977, pp. 31-44.

[33] Un esempio del modo sarcastico con cui Gramsci risponde ai luoghi comuni sulla Sardegna, dunque, al fatto che essa sarebbe povera essenzialmente per l’incapacità dei sardi a far fruttare una terra fertile, si trova nel gustosissimo articolo Menti inferme, “Avanti!”, ediz. piemontese, 19 febbraio 1917, XXI, n. 50, in A. Gramsci, Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi, 1975, pp. 89-90.

[34] «Un mese di soggiorno in Sardegna: banchetti, bicchierate, strette di mano, entusiasmo per l’Italiano illustre che ha fatto il sacrifizio di portare la sua preziosa persona fra i briganti, i mendicanti, i pastori vestiti di pelli dell’isola. E l’italiano illustre tornato in terra ferma si atteggia a Cristoforo Colombo e scopre qualcosa, tanto per dimostrare che non ha perduto il suo tempo. […] i sardi passano per lo più per incivili, barbari, sanguinari, ecc., ecc.; ma non lo sono evidentemente quando è necessario mandare a quel paese gli scopritori di buona volontà. Un ufficiale andato a Cagliari nel 1906 per reprimere uno sciopero, compiange le donne sarde destinate a diventare legittime metà degli scimmioni vestiti di pelli non conciate, e sente in sé (testuale) ridestarsi il genio della specie (quella non vestita di pelli), che vuole porsi all’opera per mitigare la razza. Giuseppe Sergi in 15 giorni si sbafa una quantità di banchetti, misura una cinquantina di crani, e conclude per l’infermità psicofisica degli sciagurati sardi, e via di questo passo»: A. Gramsci, Gli scopritori, “Avanti!”, XXII, n. 143, 24 maggio 1916, in Scritti 1910-1926, vol. I 1910-1916, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, 2019, pp. 395-396.

[35] A. Gramsci, Uomini, idee, giornali e quattrini, “Avanti!”, ediz. piemontese, 23 ottobre 1918, XXII, n. 294, in, Scritti giovanili 1914-1918, cit., p. 331.

[36] A. Gramsci, “Il mezzogiorno e la guerra”, Il Grido del Popolo, 1° aprile 1916, XXII, n. 610 in Scritti (1910-1926) volume 1 (1910-1916), Edizione Nazionale degli Scritti di Antonio Gramsci, Roma, Treccani, 2019, p. 278-279.

[37] A. Gramsci, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 2020, p 798-799.

[38] A. Gramsci, I dolori della Sardegna, “Avanti!” ed. piemontese, 16 aprile 1919, In Scritti 1915-1925, Milano, Moizzi Editore, 1976, p. 177.

[39] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Q. 22, § 1, cit., p. 2141.

[40] Clericali ed agrari, “L’Avanti!”, 7 luglio 1916, XXII, n. 187, in A. Gramsci, 610 in Scritti (1910-1926) volume 1 (1910-1916), cit., p. 513-514.

[41] Ivi, Q. 1, § 149, p. 131.

[42] Questi temi hanno trovato una trattazione approfondita e ben documentata nell’opera di Girolamo Sotgiu, a nostro modesto parere tra i più importanti storici sardi dell’età contemporanea. In particolare, rimandiamo ad alcune sue monografie: Lotte sociali e politiche nella Sardegna contemporanea, Cagliari, Edes, 1974; Movimento operaio e autonomismo, Bari, De Donato Editore, 1975; Storia della Sardegna sabauda, (1720-1847), Bari, Laterza, 1984; Storia della Sardegna dopo l’Unità, Bari, Laterza, 1986.

[43] «Essa è da ricercare non tanto nel «sardismo» del giovane Gramsci, che fu peraltro alimento essenziale, quanto nell’elaborazione della «questione sarda» che egli avviò dopo il ritorno dalla Russia a Roma, mentre si preparava il Congresso di Lione in fraterna comunione con Emilio Lussu ch’era allora il rappresentante più genuino del movimento»: U. Cardia, Il sardismo di Gramsci, in Gramsci e la svolta degli anni Trenta, cit., p. 24.

Antonio Gramsci. O homem filosofo.

(Boitempo, São Paulo 2020, 424 páginas, R$ 63,20)

Em terras brasileiras, como se sabe, Antonio Gramsci aportou como o “herói” da luta cultural antifascista, como o teórico das superestruturas. No intricado processo de recepção e apropriação das suas ideias a partir das primeiras traduções em finais da década de 1960 operou-se, portanto, uma grave cisão entre o filósofo e o político, entre pensamento e ação, entre o homem histórico e o mito desencarnado. O pensamento gramsciano, com efeito, não apenas no Brasil, mas na América Latina de modo mais abrangente, foi submetido aos mais diversos usos, resultando em leituras parciais e fragmentárias. De lá para cá muitos esforços têm sido envidados em busca de uma leitura integral de Gramsci e, de fato, é possível dizer que tal empreendimento – vital na mesma medida em que é árduo – está ainda em construção. Neste sentido, A edição brasileira de Antonio Gramsci, “o homem filósofo”: apontamentos para uma biografia intelectual, de Gianni Fresu, constitui uma importantíssima contribuição para este projeto coletivo de apreensão integral do pensamento gramsciano. Neste livro, Fresu consegue, de fato, dar concretude ao “Gramsci histórico”, sujeito às modificações – e, pode-se dizer também, evoluções – intelectuais e morais exigidas diante de seus próprios limites humanos tanto quanto pelos desafios teóricos e políticos do seu tempo. Emerge desta leitura toda a complexidade do autor em suas diversas fases de vida e de pensamento, isto é, das diferentes perspectivas que Gramsci assume em sua trajetória intelectual, ao mesmo tempo em que podemos perceber o fio condutor que opera a unidade do pensamento ao longo do tempo, isto é, de um pensamento que ao mesmo tempo em que sempre rejeitou veementemente o pedantismo e o diletantismo burgueses, nunca tolerou os esquematismos e os dogmatismos nas próprias fileiras. Fresu nos faz enxergar os elementos de permanência e de coerência interna no pensamento gramsciano – desde a juventude até o período carcerário – entre os quais se destaca o firme e resoluto combate à instrumentalização política das classes subalternas pelas minorias dirigentes. A adesão à perspectiva das classes subalternas não corresponde, contudo, – como fica evidente sob a pena de Fresu – a um procedimento meramente teórico, mas à identificação e imersão concreta no drama histórico dos dominados e subalternizados, na concretização de uma epistemologia popular capaz de prover fundamentos sólidos a uma filosofia de massa, ou, pode-se dizer, à filosofia da práxis.

 

Luciana Aliaga

https://www.boitempoeditorial.com.br/produto/antonio-gramsci-o-homem-filosofo-994


Sinopse do livro

Na figura de Antonio Gramsci coexistem diferentes necessidades e perspectivas, mas toda a sua produção teórica se desenvolve dentro de uma estrutura de profunda continuidade. Isso não significa que ele permaneça sempre idêntico a si mesmo, pelo contrário, em muitas questões seu raciocínio desenvolve-se, torna-se mais complexo, toma novas direções, muda alguns juízos iniciais. O Gramsci dos Cadernos não pode ser sobreposto ao jovem diretor de L’Ordine Nuovo, ou ao líder comunista, porque sua elaboração não se desenvolveu em uma condição de rigidez intelectual, ausente de evoluções. Todavia, a suposta divisão ideológica entre um antes e um depois, em razão da qual um “Gramsci político” tende a ser oposto a um Gramsci “homem de cultura”, é o resultado de uma falsificação ditada por necessidades essencialmente políticas. A vida do intelectual sardo é marcada pelo drama da Primeira Guerra Mundial, o primeiro conflito de massas em que as grandes descobertas científicas das décadas anteriores foram aplicadas em larga escala e onde milhões de camponeses e operários foram literalmente enviados ao massacre. Em toda a sua produção teórica, essa relação dualista, que exemplifica com perfeição o uso instrumental dos “simples” pelas classes dominantes, ultrapassa o contexto bélico das trincheiras, encontrando plena expressão nas relações fundamentais da moderna sociedade capitalista. Em contraste com essa ideia de hierarquia social, considerada natural e imutável, Gramsci afirma constantemente a necessidade de se superar a fratura historicamente determinada entre as funções intelectuais e manuais, em razão da qual se faz necessária a existência de um sacerdócio ou de uma casta separada de especialistas da política e do saber.  Não é a atividade profissional específica (material ou espiritual) que determina a essência da natureza humana, para Gramsci “todo homem é um filósofo”. Nesta expressão dos Cadernos, encontramos condensada sua ideia de “emancipação humana”, que é a necessidade histórica de uma profunda “reforma intelectual e moral”: a subversão das relações tradicionais entre dirigentes e dirigidos e o fim da exploração do homem pelo homem.


Sumario

Nota do autor…………………………………………………………………………………………….. 11

Prefacio, Marcos Del Roio……………………………………………………………………………… 13

 

Primeira parte – O jovem revolucionario………………………………………. 17

  1. As premissas de um discurso ininterrupto……………………………………………….. 19
  2. Dialetica versus positivismo: a formacao filosofica do jovem Gramsci………….. 31
  3. Autoeducacao e autonomia dos produtores…………………………………………….. 47
  4. Lenin e a atualidade da revolucao…………………………………………………………. 59
  5. L’Ordine Nuovo………………………………………………………………………………….. 75
  6. Origem e derrota da revolucao italiana…………………………………………………… 85
  7. O problema do partido……………………………………………………………………….. 93
  8. Refluxo revolucionario e ofensiva reacionaria………………………………………… 105

 

Segunda parte – O dirigente politico…………………………………………… 117

  1. O Partido novo………………………………………………………………………………… 119
  2. O Comintern e o “caso italiano”…………………………………………………………. 135
  3. Rumo a uma nova maioria…………………………………………………………………. 163
  4. Gramsci a frente do Partido……………………………………………………………….. 177
  5. O amadurecimento teorico entre 1925 e 1926………………………………………. 187
  6. O Congresso de Lyon……………………………………………………………………….. 195

 

Terceira parte – O teorico…………………………………………………………… 209

  1. Das contradicoes da Sardenha a questao meridional……………………………….. 211
  2. Os Cadernos: o inicio conturbado de um trabalho “desinteressado”…………… 237
  3. Relacoes hegemonicas, relacoes produtivas e os subalternos……………………… 243
  4. O transformismo permanente…………………………………………………………….. 253
  5. Premissas historicas e contradicoes congênitas da biografia italiana…………….. 267
  6. “O velho morre e o novo nao pode nascer”…………………………………………… 281
  7. A dupla revisao do marxismo e o ponto de contato com Lukacs………………. 2958.

Tradutibilidade e hegemonia………………………………………………………………. 317

  1. O homem filosofo e o gorila amestrado……………………………………………….. 333
  2. Michels, os intelectuais e o problema da organizacao……………………………. 349
  3. O desmantelamento dos velhos esquemas da arte politica……………………… 365

Conclusao…………………………………………………………………………………… 377

 

Posfacio – Antonio Gramsci: o marxismo diante da

modernidade, Stefano G. Azzarà………………………………………………………………….. 383

Cronologia – vida e obra……………………………………………………………………………. 391

Bibliografia………………………………………………………………………………………………. 407

Indice onomastico ……………………………………………………………………………………. 419

 

Recensione a “Antonio Gramsci. L’uomo filosofo”. L’ultimo libro di Gianni Fresu

Pubblicato su “Marxismo Oggi” il 4 settembre 2019

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di Gabriele Repaci

Antonio Gramsci (1891 – 1937) è stato uno dei filosofi italiani più importanti del Novecento. La sua fama ha ormai superato i confini del nostro paese per estendersi non solo all’Europa, ma anche all’Asia, all’America Latina, al Nordamerica e persino al mondo arabo e all’Africa. E questo non solo perchè egli è stato uno dei più originali pensatori marxisti di tutti i tempi, nonché una delle più eccellenti vittime della repressione del regime fascista, ma perchè Gramsci è stato un genio del pensiero politico al pari di Thomas Hobbes, Niccolò Machiavelli e Carl von Clausewitz.

Egli comprese, più di ogni altro, che il potere si conquista e si mantiene solo attraverso una forte e radicata egemonia all’interno della società civile. Tuttavia, all’interno della vasta letteratura gramsciana, anche in quella di impronta marxista, vi è una tendenza a contrapporre il pensiero di Gramsci a quello di Lenin. Secondo tale interpretazione il rivoluzionario russo viene presentato quale massimo esponente di quella «guerra manovrata» volta alla presa diretta del potere da parte dei “rivoluzionari di professione”, a cui Gramsci avrebbe contrapposto la «guerra di posizione», diretta alla conquista delle «casematte», ossia l’insieme delle istituzioni della società civile. Il merito del libro di Gianni Fresu, professore di Filosofia politica alla Universidade de Uberlândiandia (MG Brasil), nonché dottore di ricerca in Filosofia all’Università degli studi “Carlo Bo” di Urbino, Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Aipsa Edizioni, Cagliari, 2019, p. 402, con un importante prefazione di Stefano G. Azzarà, è quello di mettere in luce la sostanziale continuità tra il pensiero gramsciano e la tradizione marxista e leninista. L’autore infatti mette giustamente in evidenza come nelle note relative al passaggio dalla «guerra manovrata» alla «guerra di posizione» del Quaderno 7, l’intellettuale sardo attribuisca proprio a Lenin il merito di aver compreso la complessità degli aspetti di dominio delle società occidentali capitalisticamente avanzate, indicando per primo alle classi subalterne il compito della conquista egemonica. Nel Quaderno 11, Gramsci inoltre ricorda come nel 1921, fu proprio il leader bolscevico ad aver sottolineato l’incapacità di tradurre nelle lingue europee la lingua russa, ossia di dare contenuto nazionale ai valori universali, scaturiti dalle condizioni eminentemente nazionali, della Rivoluzione d’Ottobre. Attraverso lo sviluppo delle forze produttive e l’evoluzione della società in senso democratico e burocratico, anche per Lenin, si ampliavano e divenivano sempre più sofisticati i sistemi dell’apparato egemonico e di dominio. Secondo Gramsci – spiega Fresu – uno dei temi più caratteristici della teoria della rivoluzione in Lenin è l’esigenza di “tradurre” nazionalmente i principi del materialismo storico, ossia rigettare le affermazioni superficiali sul capitalismo e la rivoluzione in generale, per costruire una nuova teoria della trasformazione a partire dalle concrete condizioni di ciascuna formazione economico sociale. Per Gramsci Lenin era stato capace di intuire questo fatto, ma non ebbe tempo di elaborarlo più accuratamente, anche perchè secondo il filosofo sardo avrebbe potuto farlo solo sul piano teorico, mentre «il compito era essenzialmente nazionale», vale a dire che spettava ai partiti comunisti dei paesi occidentali operare una profonda ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza: «In Oriente – scrive Gramsci in un celebre passo dei Quaderni – lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale». È bene precisare come fa giustamente notare l’autore del volume, che in Gramsci i termini Oriente ed Occidente non riguardano semplicemente realtà geografiche differenti. «Nella definizione di Gramsci – scrive Fresu a pagina 256 del volume – il concetto di Occidente riguarda essenzialmente le realtà caratterizzate da un elevato sviluppo delle forze produttive e degli apparati egemonici, mentre quello di Oriente si riferisce a realtà caratterizzate da società civili ancora “primordiali” e “gelatinose” nelle quali il potere si regge essenzialmente per mezzo di rapporti di dominio propri della società politica». L’incomprensione della natura dello Stato in Occidente, secondo Gramsci, portava ad errori madornali perchè lo si riconduceva semplicemente all’apparato coercitivo mentre per Stato non dovrebbe intendersi solo l’apparato governativo ma anche l’apparato privato di egemonia e società civile che costituisce il luogo di formazione e radicamento dell’«egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società». Più concretamente, l’idea concerne la «struttura ideologica di una classe dominante: cioè l’organizzazione materiale» dell’egemonia «intellettuale e morale»: case editrici, giornali e riviste, scuole e biblioteche, circoli e «clubs di vario genere» e ancora «tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente e indirettamente» comprese l’architettura, l’urbanistica e la toponomastica stradale. Per questo Gramsci definiva la «società civile» anche «contenuto etico dello stato». Per Gramsci, lo studio della società civile diventava essenziale nell’ottica di realizzare un’egemonia che avrebbe reso possibile il superamento del capitalismo. La «guerra manovrata», adatta a società come quella russa contraddistinta da un limitato sviluppo delle forze produttive e quindi anche degli apparati egemonici delle classi dominanti, non poteva che essere causa di disfatta, e doveva essere quindi sostituita da una lunga «guerra di posizione», diretta alla conquista dell’insieme delle istituzioni della società civile.

Questo compito storico richiedeva l’impegno degli intellettuali, che dovevano dedicarsi a promuovere il cambiamento sociale e la rivoluzione, creando «un blocco di forze sociali per condurre uno scontro contro l’egemonia della borghesia, in modo da stabilire l’egemonia del proletariato».

Il concetto di «blocco storico» ha dunque un’importanza centrale in Gramsci. Gli intellettuali, «organizzatori dell’egemonia» avevano infatti il compito storico di realizzare l’alleanza necessaria al rovesciamento dello Stato borghese e di educare il proletariato, in modo da renderlo consapevole della sua missione storica.

Si può perciò dire che Gramsci giunge a negare, insieme ad una strategia universalmente valida, anche un modello universale di rivoluzione. Si può dire che egli apra la strada ad affermare la originalità dei processi rivoluzionari nazionali.

Nel dopoguerra Palmiro Togliatti, subentrato a Gramsci come segretario del Partito Comunista, fu il primo a tentare di tradurre in azione concreta le indicazioni gramsciane elaborando la sua concezione della «democrazia progressiva» come forma di transizione al socialismo. Si trattava dell’ipotesi di un regime democratico repubblicano che, grazie all’articolazione dialettica tra gli organismi tradizionali di rappresentanza (parlamenti ecc.) e i nuovi istituti di democrazia diretta (consigli di fabbrica, di quartiere, ecc.), permetteva un avanzamento progressivo nel senso di profonde riforme di struttura, con la conquista permanente di posizioni in una battaglia di lungo respiro verso il socialismo. Nella formulazione del Migliore, pertanto, la democrazia politica perdeva il suo carattere di tappa da raggiungere per poi essere abbandonata al momento dell’”assalto al potere”, nell’atteso “grande giorno”, per divenire un insieme di conquiste da conservare ed elevare a livello superiore – ossia per essere dialetticamente superate – nella democrazia socialista. Questo processo non cessò con Togliatti; basti pensare, ad esempio, alle riflessioni di Pietro Ingrao, svolte soprattutto negli anni settanta, sulla “democrazia di massa”, come integrazione di democrazia di base e di democrazia rappresentativa, e sulla necessità di articolare egemonia e pluralismo nella lotta per il socialismo e nella costruzione della società socialista.

 

A dialética entre a chamada Globalização e o Estado nacional.

A dialética entre a chamada Globalização e o Estado nacional.

Gianni Fresu

 “Revista Princípios”, n. 140, janeiro fevereiro 2016, pag. 65-74  (ISSN: 2358-0690), Editora Anita Garibaldi, São Paulo.

 

Os processos de mundialização da economia não são um fenômeno recente, mas uma tendência que atravessou em profundidade toda a fase de expansão da economia gerada desde a revolução industrial, e também, em formas diferentes, as fases precedentes. Não é casualidade o fato de Marx e Engels tratarem, já no Manifesto do Partido Comunista, do processo de internacionalização da produção, do consumo e do abastecimento das matérias primas. Uma condição de interdependência que determina novas exigências, envolvendo também a produção imaterial num processo que «das literaturas nacionais e locais se desenvolve para uma literatura mundial». Mas é, sobretudo, a própria universalização do modo de produção e distribuição burguesa que esclarece que a origem dos fenômenos geralmente definidos como “globalização” não é recente:

Com o rápido avanço de todos os instrumentos de produção, com as comunicações infinitamente mais cômodas, a burguesia atira na civilização a todas as nações mais bárbaras. Os baixos preços das suas mercadorias são a artilharia pesada com a qual derruba todas as muralhas chinesas e com que obriga à capitulação até a mais obstinada xenofobia dos bárbaros. Ela obriga todas as nações a adotar o sistema de produção da burguesia, ainda que não queiram introduzir nos seus países a chamada civilização, ou seja, tornarem-se burgueses. Numa palavra, ela cria um mundo à sua imagem e semelhança[1].

Eugenio Curiel: alle origini della nostra democrazia repubblicana. Intervento al Convegno “La figura e il pensiero di Eugenio Curiel nel 70° della sua uccisione”

Eugenio Curiel: alle origini della nostra democrazia repubblicana.

Intervento di Gianni Fresu al Convegno “La figura e il pensiero di Eugenio Curiel nel 70° anniversario della sua uccisione”

Università Statale di Milano, 7 marzo 2015.

Il settantesimo anniversario della morte di Curiel si tiene in un contesto segnato da una ripresa di interesse verso la storia della Resistenza, testimoniato dall’uscita di studi e biografie di valore (quelle su Longo, Secchia, Colorni e Grieco solo per fare qualche esempio) dedicate a protagonisti di questa storia. All’interno di tale rinascita storiografica, dopo decenni di oblio, anche Curiel sembra finalmente suscitare una attenzione nuova, il vostro Convegno e altre iniziative analoghe nelle settimane passate, ne sono il segnale più evidente. Mi scuso con tutti voi per non essere presente in questo momento tanto importante, al quale tenevo particolarmente, ma ragioni di lavoro e di ricerca mi hanno portato molto lontano dalla mia terra, rendendo praticamente impossibile, oltre che costosissima, una mia eventuale trasferta italiana. Per ragioni di tempo, e vista la forma della mia comunicazione, in questo intervento mi limiterò a svolgere alcune brevi considerazioni di carattere generale sul percorso politico-esistenziale dell’intellettuale triestino, rimandando per approfondimenti più organici alla monografia da me pubblicata lo scorso anno[1].

Quando decisi di intraprendere la mia ricerca e poi pubblicare il libro, alcuni mi misero in guardia dall’occuparmi di un tema che a loro dire avrebbe suscitato ben poco interesse al di fuori degli ambienti di addetti ai lavori e nessun riscontro sul piano accademico italiano. Non è stato così, fortunatamente, e dal novembre 2013 all’agosto del 2014 (data della mia partenza) il libro ha avuto una ventina di presentazioni, alcune anche all’estero (Lussemburgo e Londra), nelle quali le vicende di Eugenio Curiel hanno trovato accoglienza e suscitato un interesse del tutto inaspettato per me, sebbene non insperato.

“Madonna evoluzione” e materialismo storico: il rapporto Gramsci-Labriola

Madonna evoluzione” e materialismo storico: il rapporto Gramsci-Labriola

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International Gramsci Society
III Convegno internazionale di studi
Antonio Gramsci un sardo nel “mondo grande e terribile”
(Cagliari-Ghilarza-Ales 3-6 maggio 2007)

Di Gianni Fresu

La distanza di Antonio Gramsci dalle matrici filosofiche positiviste e del determinismo economico ha trovato più di una trattazione autorevole, tuttavia, ritornare su tale tema non è mai superfluo, almeno se si vuole cogliere uno degli elementi più caratteristici dell’elaborazione teorica gramsciana maggiormente presenti nel dibattito marxista del Novecento.
Nelle diverse fasi della sua attività, Gramsci ha sempre individuato nell’impostazione filosoficamente angusta data dai teorici della Seconda Internazionale al movimento socialista mondiale, uno dei limiti che maggiormente ha influito sulle deficienze socialismo italiano. Quando, tra Ottocento e Novecento, il marxismo si affermò nel movimento operaio, esso fu veicolato da intellettuali in gran parte dei casi giunti a Marx attraverso Darwin e lo studio positivistico delle scienze sociali. La diffusione del marxismo nel movimento operaio tedesco trovò due veicoli straordinari nel settimanale «Sozialdemocrat», pubblicato a Zurigo sotto la supervisione di Whilelm Liebknecht, e nella «Neue Zeit» nata nel settembre del 1882 a Salisburgo attorno a Kautsky, Liebknecht, Bebel e Dietz.
La «Neue Zeit» si affermò come la prima rivista teorica di un partito operaio e divenne il principale organo di approfondimento del marxismo nella Seconda Internazionale ; sull’opera di diffusone del marxismo da parte di questa rivista influì enormemente l’impostazione culturale dei suoi fondatori, nella quale il rapporto stesso con il marxismo risultava mediato dalle suggestioni positiviste, dalla fiducia nella scienza e nel progresso, dal primato assoluto attribuito alle scienze sociali. La storia di questa rivista, dei suoi dibattiti, delle sue svolte, è nei fatti la storia del marxismo della Seconda Internazionale, di cui Ernesto Ragionieri ha fornito una sintetica quanto efficace definizione: «Per marxismo della II Internazionale si intende in genere, una interpretazione ed elaborazione del marxismo che rivendica un carattere scientifico alla sua concezione della storia in quanto ne indica lo sviluppo in una necessaria successione di sistemi di produzione economica, secondo un processo evolutivo che soltanto al limite contempla la possibilità di rotture rivoluzionarie emergenti dallo sviluppo delle condizioni oggettive » .
Per Gramsci il marxismo è stato un momento fondamentale della cultura moderna capace di fecondare alcune correnti assai importanti al di fuori del proprio campo. Ciò nonostante, i «marxisti ufficiali» di fine Ottocento trascurarono questo fenomeno, perché il tramite tra il marxismo e la cultura moderna era rappresentato dalla filosofia idealista . Nelle sue note Gramsci ritornò più volte sulla doppia revisione subita dal marxismo tra Ottocento e Novecento: da un lato alcuni suoi elementi furono assorbiti da certe correnti idealistiche (Croce, Sorel, Bergson); dall’altra i cosiddetti «marxisti ufficiali», preoccupati di trovare una filosofia che contenesse il marxismo, la trovarono nelle derivazioni moderne del materialismo filosofico volgare o anche nel neo-kantismo. I «marxisti ufficiali» hanno cercato al di fuori del materialismo storico una concezione filosofica unitaria proprio perché la loro concezione si basava sull’idea dell’assoluta storicità del marxismo, come prodotto storico dell’azione combinata della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, mentre ne ignoravano completamente la matrice filosofica tedesca. In un tale contesto, all’interno del panorama marxista italiano, Labriola era per Gramsci il solo ad essersi distinto nel porre il marxismo come filosofia indipendente ed originale e aver cercato di «costruire scientificamente» la filosofia della praxis. Nei Quaderni 3 e 11, Gramsci definisce «stupefacente» il fatto che Trockij parlasse di dilettantismo in rapporto al marxismo di Labriola. In questa posizione egli vedeva un riflesso della «pedanteria pseudoscientifica» di intellettuali tedeschi come Kautsky, tanto influenti nella tradizione della socialdemocrazia russa e delle opinioni di Plechanov. In queste note si rilevava come la tendenza dominante avesse creato due correnti: una riconducibile al «materialismo volgare» ben rappresentato proprio da Plechanov, incapace per Gramsci di impostare il problema della cultura filosofica di Marx e dunque il tema delle «fonti del marxismo»; una tendenza opposta, sebbene creata dalla prima, impegnata a coniugare il marxismo con Kant, secondo cui, in ultima analisi, «il marxismo può essere sostenuto o integrato da qualsiasi filosofia». Nella «fase romantica della lotta», la poca fortuna di Labriola nella pubblicistica della socialdemocrazia, era dovuta all’eccessiva sottolineatura delle armi più immediate e dei problemi della tattica politica. Il quadro mutò al momento di edificare lo Stato socialista:

Dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente il problema di una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi più raffinate e decisive. Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua impostazione del problema filosofico deve essere fatta predominante. Questa è una lotta per la cultura superiore la parte positiva della lotta per la cultura che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a-privati e gli anti- (anticlericalismo, ateismo ecc.). Questa è la forma moderna del laicismo tradizionale che è alla base del nuovo tipo di Stato .

Per Gramsci con lo sviluppo delle forze produttive e l’assunzione da parte della classi subalterne di funzioni dirigenti e non più delegate, le posizioni più primitive e meccanicistiche del marxismo andavano necessariamente superate. In questo sforzo di maturazione, Gramsci attribuiva proprio all’impostazione del problema filosofico di Labriola una funzione centrale, al punto da affermare che essa sarebbe dovuta divenire predominante. A tal fine in una nota del Quaderno 8 è indicato il compito di uno studio obbiettivo e sistematico sulla dialettica di Labriola, capace do chiarire il suo percorso dalle originarie posizioni herberteriane e antihegeliane al materialismo storico.
Indagare le ragioni per le quali il marxismo è risultato assimilabile, per alcuni suoi aspetti non trascurabili, tanto all’idealismo quanto al materialismo volgare era secondo Gramsci un compito estremamente complesso, perché avrebbe dovuto non solo chiarire quali elementi fossero stati assorbiti «esplicitamente» dall’idealismo e da altre correnti di pensiero, ma anche svelare gli assorbimenti «impliciti» e non confessati. Il marxismo, infatti, è stato un momento della cultura, un’atmosfera diffusa che in quanto tale ha modificato, spesso inconsapevolmente, i vecchi modi di pensare. Costruire una storia della cultura moderna dopo Marx ed Engels, perché di ciò si trattava, richiedeva uno studio rigoroso degli insegnamenti pratici lasciati in dote dal marxismo a partiti e correnti di pensiero ad esso avverse. La ragione per la quale gli «ortodossi» della Seconda Internazionale hanno operato una combinazione della filosofia della praxis con altre filosofie e concezioni, andava ricercata nella necessità di combattere tra le masse popolari i residui del mondo precapitalistico, derivanti in particolare dalla concezione religiosa. Il marxismo aveva contemporaneamente il compito di combattere le ideologie più elevate delle classi colte, e di far uscire le masse da una cultura ancora medievale ponendole in condizione di produrre un proprio gruppo di intellettuali indipendenti dalla cultura delle classi dominanti. Proprio questo secondo compito di carattere pedagogico ha finito per assorbire gran parte delle energie «quantitative» e «qualitative» del movimento:
Per «ragioni didattiche», la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po’ superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova filosofia era nata per superare la più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, e per suscitare un gruppo di intellettuali proprii del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo
Antonio Labriola arrivò al socialismo attraverso un lungo e meditato percorso di avvicinamento filosofico e politico, che lo distingue fortemente dai teorici della «Neue Zeit», con i quali si trovò in più riprese a polemizzare, avanzando l’esigenza di un diverso approccio al marxismo, da lui definito «comunismo critico». Nelle sue dispute contro il «dilettantismo di tanti neofiti della causa socialista», Labriola si contrappose alle combinazioni spurie tra il marxismo e le costruzioni forzatamente unitarie e sistemiche, proprie del positivismo e dell’evoluzionismo applicato alle teorie sociali. Uno dei prodotti storici più nefasti della cultura del tempo era per Labriola il verbalismo, vale a dire un culto smodato delle parole che porta a corrodere il senso reale e vivo delle «cose effettuali», a occultarle, a trasformarle in termini, parole e modi di dire astratti e convenzionali:
Il verbalismo tende sempre a chiudersi in definizioni puramente formali; porta le menti nell’errore, che sia cosa facile il ridurre in termini e in espressioni semplici e palpabili l’intricato e immane complesso della natura e della storia; e induce nella credenza che sia cosa agevole il vedersi sott’occhi il multiforme e complicato e complicatissimo intreccio delle cause e degli effetti, come in ispettacolo da teatrino; o a dirla in modo più spiccio, esso oblitera il senso dei problemi perché non vede che denominazioni .
Quando il verbalismo si unisce alle supposizioni teoretiche di una falsa contrapposizione tra materia e spirito, immediatamente pretende di spiegare tutto quel che riguarda l’uomo facendo affidamento al solo calcolo degli interessi materiali fino a contrapporre questi agli interessi ideali e ridurre meccanicamente i secondi ai primi. La causa di questo modo d’intendere il materialismo storico era riconducibile all’impreparazione e all’improvvisazione di tanti intellettuali scopertisi propugnatori del marxismo, i quali hanno cercato di spiegare agli altri ciò che essi stessi non avevano ancora compreso a pieno, estendendo alla storia le leggi e i modelli concettuali che avevano trovato proficua attuazione nello studio e nella spiegazione del mondo naturale ed animale. Ma la storia dell’uomo riguarda i processi attraverso i quali questo soggetto può creare e perfezionare i suoi strumenti di lavoro e tramite gli strumenti modifica l’ambiente in cui è inserito fino a crearne uno nuovo e artificiale che a sua volta reagisce e produce molteplici effetti sopra di lui; la storia, secondo l’uso della parola, vale a dire quella parte del processo umano che si esprime nella tradizione e nella memoria, inizia quando la creazione di questo terreno artificiale si è già prodotta, quando l’economia è già in funzione. La scienza storica ha per suo oggetto fondamentale proprio la conoscenza di questo terreno artificiale, delle sue forme originarie, delle sue trasformazioni, e solo l’abuso dell’analogia e la fretta di arrivare a delle conclusioni, può portare a dire che tutto questo non è se non parte e prolungamento della natura. Dunque, secondo Labriola, mancano tutte le ragioni per ricondurre questo processo evolutivo riguardante l’uomo e il suo ambiente, appunto la storia, alla pura e semplice lotta per l’esistenza, non c’é ragione per confondere il darwinismo con il materialismo storico, né di rievocare e servirsi di una qualunque forma, «mitica, mistica o metaforica», di fatalismo. Pertanto è priva di fondamento quell’opinione che tende a negare ogni ruolo alla volontà e che pretende di sostituire al volontarismo l’automatismo. La tendenza a trasformare in pedanteria e «novella scolastica» qualunque trovato del pensiero, piuttosto che dedicarsi alla ricerca critica, ha fatto si che «la fantasia degli inesperti d’ogni arte e ricerca storica e lo zelo dei fanatici, trovasse stimoli ed occasioni persino nel materialismo storico a foggiare una nuova ideologia e a trarre da esso una nuova filosofia della storia sistematica, cioè schematica, ossia a tendenze e a disegno» . Per Labriola invece il materialismo storico non è, e non pretende di essere, la visione intellettuale di un grande piano o disegno, ma è un metodo di ricerca e concezione. Le critiche più varie dei detrattori delle teorie di Marx ed Engels, hanno esercitato i loro effetti più nefasti proprio tra i socialisti ed in particolare tra quei giovani intellettuali che tra gli anni 70 e 80 si dedicarono alla causa del movimento operaio:
Molti dei focosi rinnovatori del mondo di quel tempo lì, si misero sulla via di proclamarsi seguaci della teoria marxista pigliando proprio per moneta contante il marxismo più o meno inventato dagli avversari» ed è così che questi «mescolando cose vecchie a cose nuove arrivarono a credere, che la teoria del sopravvalore, come si presenta solitamente semplicizzata in semplici esposizioni, contenesse hic et nunc il canone pratico, la forza impulsiva, anzi la morale e la giuridica legittimità di tutte le rivendicazioni proletarie .
Tra gli anni 70 e 80 si formò un neoutopismo – mosso da un’idea malsana della «filosofia universale», nella quale il socialismo doveva essere ben inserito come la parte nella visione del tutto – letteralmente, il brodo di cultura nel quale trovarono il giusto microclima tutti gli spropositi del determinismo socialista. In una lettera scritta a Turati , Labriola descrisse il percorso filosofico che lo aveva condotto a Marx, affermando che se anche poteva dirsi socialista da non più di dieci anni, era in grado comunque di dichiarare – grazie ai suoi studi e alla sua attività accademica – di aver già fatto per tempo i conti con il positivismo, il neokantismo e che pertanto tutto poteva fare tranne che farsi ribattezzare da Darwin e Spencer. Egli non pretese di ricevere dal marxismo l’ABC del sapere e non cercò se non quel che esso conteneva, vale a dire la sua critica dell’economia politica, i lineamenti del materialismo storico, la politica del proletariato enunciata. Per Luigi Dal Pane Labriola vide nel materialismo storico «il punto di partenza di impensati svolgimenti», perché nelle opere di Marx ed Engels il materialismo era un filo conduttore, una linea di tendenza, non la concatenazione dogmatica di principi espressi in forma precisa e, soprattutto, definitiva:
Di fatto il Marx e l’Engels non pensarono a compiere un lavoro sistematico di organizzazione della nuova dottrina e, nei vari momenti della loro vita, secondo le circostanze che li spronavano, fermaron la mente ora sopra uno, ora sopra l’altro aspetto della vita umana storica, senza un ordine logico prestabilito e rigoroso. Avvenne così che segnarono qualche grande schema, alcune linee maestre, veramente utili ed importanti per chi abbia la capacità di farle rivivere, di poco rilievo invece per chi le enuncia in una forma astratta .
Il marxismo dunque non come formula astratta, data dalla distinzione netta e dalla successione matematica tra categorie economiche ideologiche, bensì una «concezione organica della storia» come unità e totalità della vita sociale, nella quale anche l’economia, anziché «estendersi astrattamente a tutto il resto», è concepita storicamente . Labriola si formò nella Napoli protagonista della seconda fioritura dell’hegelismo, si avvicinò a Marx avendo già nel suo bagaglio filosofico una profonda conoscenza della dialettica . Per Labriola in ciò andava ricercata la distinzione tra la sua concezione della filosofia della prassi e quella dei tanti intellettuali marxisti-positivisti della nuova generazione, responsabili, a suo dire, di confondere «la linea di sviluppo che è propria del materialismo storico, (…) con quella malattia celebrale che da anni già ha invaso i cervelli di quei molti italiani che parlano ora di una madonna evoluzione, e l’adorano» . Ecco un punto essenziale individuato da Labriola sul quale Gramsci ritorna più volte: l’incontro tra positivismo e marxismo e la volgarizzazione deterministica di questo, ha tra le varie cause il fatto che la dialettica hegeliana fosse in gran parte dei casi totalmente sconosciuta a quanti si posero a propugnare il marxismo.
Questa lettura trova un’autorevole conferma nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale del 1873, dove Karl Marx – pur richiamandosi alla critica condotta trent’anni prima al «lato mistificatore della dialettica hegeliana» – sentiva il bisogno di prendere le distanze dai «molesti, presuntuosi e mediocri epigoni» che al tempo si permettevano di trattare Hegel come «un cane morto». In questo poscritto, oltre ad ammettere di avere «civettato qua e là» col modo di esprimersi peculiare a Hegel, nella parte relativa alla teoria del valore, Marx si professava apertamente scolaro del «grande pensatore» . Ma lo scritto più importante da questo punto di vista è sicuramente il Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca del 1888, nel quale Engels sentì il bisogno di ripartire dagli elementi essenziali della dialettica hegeliana per riaffermarne il primato rispetto alle concezioni del materialismo più rozzo e meccanico. Engels si prese la briga di ritornare sul progetto che nel 1845 lui e Marx si erano proposti di realizzare: fare i conti con la loro stessa formazione filosofica, riaffrontare la concezione ideologica della filosofia tedesca.
Significativamente, Engels fece iniziare la pubblicazione del suo saggio su Feuerbach sulla «Neue Zeit» proprio mentre venivano pubblicate le ultime puntate del saggio di Kautsky su La miseria della filosofia, nel quale questa concezione era ampiamente e sistematicamente esposta. Nel Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia tedesca, Engels si richiamò al «vecchio Hegel», e al carattere rivoluzionario della sua dialettica, riconoscendo nel movimento operaio tedesco l’erede della filosofia classica tedesca. Questo richiamo sulla formazione filosofica del socialismo scientifico, costituiva secondo vari studiosi – primo fra tutti Ernesto Ragionieri – una risposta di Engels alle concezioni delle nuove leve che si accostavano al marxismo .
Antonio Labriola costituiva un caso a parte nel panorama del socialismo italiano sia per la sua formazione filosofica, sia per essere a conoscenza del dibattito più avanzato in seno alla Seconda Internazionale. Così, se nel Ludwig Feuerbach il tributo e il costante richiamo alla filosofia di Hegel assumeva un significato polemico nei confronti della nuova vulgata socialista, la critica alle imperdonabili semplificazioni di questa era ancora più esplicita in una lettera del 27 ottobre 1890:

Quel che manca a tutti questi signori è la dialettica. Essi vedono sempre e solamente qui la causa, là l’effetto. Non arrivano a vedere che questa è una vuota astrazione, che nel mondo reale simili contrapposizioni metafisiche polari esistono soltanto nei momenti di crisi, ma che l’intero grande corso delle cose si svolge nella forma dell’azione e reazione reciproca, anche se di forze molto ineguali, tra cui il movimento economico è di gran lunga il più forte, il più originario, il più decisivo; essi non arrivano a capire che niente è assoluto e tutto è relativo. Per essi Hegel non è esistito .

Tuttavia la chiarificazione più interessante in proposito è contenuta in uno scambio di vedute tra Engels e Marx in due lettere scritte tra l’8 e il 9 maggio del 1870. Nella prima lettera Engels si lamentò con Marx perché Wilhelm Liebknecht, in qualità di editore, decise di aggiungere in glossa marginale alla sua pubblicazione La guerra dei contadini una precisazione (non richiesta e soprattutto non condivisa) su Hegel. Questo commento fece andare su tutte le furie Engels, il quale, dopo aver definito Liebknecht «animale» e la glossa un’autentica «stupidaggine» così di espresse:

Costui commenta ad vocem Hegel: al largo pubblico noto come scopritore(!) e elogiatore (!!) dell’idea dello Stato (!!!) regio-prussiana (…) questo somaro che per anni s’è tormentato sulla ridicola antitesi fra diritto e potere senza capacitarsi, come un soldato di fanteria montato su un cavallo bizzarro e chiuso in un galoppatoio, quest’ignorante ha la sfrontatezza di voler liquidare un tipo come Hegel con la parola prussiano e di dar a intendere al pubblico che l’abbia detto io. Ne ho abbastanza ora se W[ilhelm] non pubblica la mia dichiarazione, mi rivolgerò ai suoi superiori, al comitato, e se anche costoro cercheranno di manovrare, proibirò l’ulteriore pubblicazione. Meglio non pubblicato affatto che essere in tal modo proclamato asino da W[ilhelm]» Non meno dura è la risposta del 10 maggio da parte di Marx: «Ieri ho ricevuto l’accluso foglietto di Wilhelm. Incorreggibile artigiano zoticone tedesco-meridionale.(…) gli avevo detto che, se su Hegel non era in grado di far altro se non ripetere le vecchie porcherie di Rotteck e Welckler, se ne stesse piuttosto zitto. Questo egli lo chiama trattare Hegel un po’ meno cerimoniosamente ecc., e, se lui scrive scemenze sotto i saggi di Engels, Engels allora può ben (!) dire cose più particolareggiate(!!). costui è davvero troppo stupido
A sua volta, Marx, rispondendo alla lettera di Engels liquidò l’intera vicenda definendo Liebknecht «incorreggibile artigiano zoticone tedesco-meridionale» . Al di là del caso specifico, questo modo di intendere il materialismo storico era per Engels, come per Marx, frutto di un fraintendimento grossolano, ciò trova la sua conferma più chiara nella lettera scritta a Bloch il 20 settembre del 1890.

Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base ma i diversi momenti della soprastruttura (…) esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca in tutti questi fattori, ed attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali (…) se non fosse così l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la semplice equazione di primo grado .

Tutte le tendenze deterministe del materialismo storico hanno trovato poi cittadinanza nella parte generale del programma di Erfurt del 1891 – scritto proprio da Kautsky – non solo votato dalla socialdemocrazia tedesca, ma presto divenuto un’importante assunto teorico per tutti gli altri partiti socialisti, compreso quello italiano . Se da un lato, sull’affermarsi di certe interpretazioni tra gli anni Ottanta e Novanta, hanno influito le concrete esigenze del movimento operaio, dall’altra sicuramente ha avuto una certa importanza anche il fatto, che la tesi sull’inevitabilità della fine del modo di produzione capitalistico, come una «necessità storica», pareva offrire un’adeguata spiegazione alla grande depressione di quegli anni. Lo stato d’instabilità e la vulnerabilità della società borghese, create dalla più grande crisi della produzione capitalistica fino ad allora, unito al peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori per quasi vent’anni, sembrarono una materializzazione delle teorie sulla «miseria crescente» e della «crisi finale» .
Ma per tornare a Gramsci, nelle sue note, Labriola è un costante punto di riferimento, se vogliamo l’antidoto, contro i denunciati limiti filosofici del socialismo tra Ottocento e Novecento. Nei Quaderni il giudizio è netto: la superstizione del progresso scientifico ha seminato illusioni e concezioni talmente ridicole ed infantili da «nobilitare la superstizione religiosa», ha fatto nascere l’attesa verso un nuovo messia che avrebbe realizzato sulla terra il «paese di Cuccagna» senza l’intervento della fatica umana ma solo per opera delle forze della natura e dei meccanismi del progresso resi sempre più perfezionati. Questa infatuazione puerile per le scienze in realtà nascondeva la più grande ignoranza sui fatti scientifici, sulla specializzazione dei suoi rami disciplinari, e dunque finiva per caricare di attese il mito del progresso scientifico trasformato in una «superiore stregoneria». Il determinismo fatalistico e meccanicistico è caratteristico di una fase ancora contraddistinta dalla subalternità di determinati gruppi sociali, costituisce una sorta di «aroma ideologico immediato», una sorta di eccitante o religione necessitata appunto dal carattere subalterno del gruppo sociale. La concezione meccanicistica è per Gramsci «la religione dei subalterni». Nel marxismo la scissione tra teoria e prassi corrisponde alla separazione tra intellettuali-dirigenti e masse, cioè ad una fase in cui l’iniziativa ancora non è nella lotta, e il determinismo, la convinzione nella razionalità della storia, divengono una forza di resistenza morale e coesione. Ma tutto questo cambia nel momento in cui il subalterno diviene dirigente, se prima era una «cosa» ora diviene una «persona storica, un protagonista, se ieri era irresponsabile perché resistente a una volontà estranea, oggi sente di essere responsabile perché non più resistente ma agente e necessariamente attivo e intraprendente». Il determinismo meccanico può essere spiegato come «filosofia ingenua» della massa, tuttavia quando viene innalzato a filosofia dagli intellettuali «diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza, e ciò senza aspettare che il subalterno sia diventato dirigente e responsabile» . Secondo Gramsci sono proprio i residui di meccanicismo – che portano a considerare la teoria come un «complemento accessorio» della prassi, come «ancella della pratica» – ad aver impedito nel marxismo un pieno sviluppo della questione relativa all’unità tra teoria e prassi.
L’indisponibilità a scendere a patti con le matrici culturali del socialismo positivista costituisce un dato costante dei diversi momenti dell’elaborazione gramsciana; il numero unico de «La Città Futura», interamente scritto da Gramsci nel febbraio del 1917, riconosciuto da gran parte degli studiosi come il punto d’arrivo della sua formazione giovanile, ne è un esempio. In esso Gramsci saluta il dissolvimento del mito socialista della fede cieca in tutto ciò che è accompagnato dall’attributo «scientifico», una superstizione che tende a relegare l’intervento dell’uomo ad un ruolo subalterno e passivo, in virtù del quale il raggiungimento della società modello deve basarsi sui postulati di un positivismo filosofico mistico, nei fatti «aridamente meccanico» e ben poco scientifico. Di questo mito era rimasto per Gramsci un ricordo sbiadito nel riformismo di Claudio Treves definito un «balocco di fatalismo positivista le cui determinanti sono energie sociali astratte dall’uomo e dalla volontà».
Il mito pseudoscientifico del positivismo socialista aveva nei confronti della vita lo stesso approccio di chi osserva da lontano una valanga nella sua irresistibile caduta: vede l’unità, l’effetto, ma non il molteplice di cui l’uomo è la sintesi. Dunque, la débâcle della scienza nel socialismo, o per meglio dire del suo mito, ha per Gramsci il significato di un profondo rinnovamento che porta il proletariato a riacquistare la coscienza del suo ruolo non più schiacciato dal peso di leggi naturali infrangibili. «Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli pseudo-scienziati è stata sostituita: la volontà tenace dell’uomo» .
Ampiamente rappresentativo di questo percorso di definizione teorica sono alcuni altri articoli come il noto La rivoluzione contro il «Capitale» e soprattutto l’articolo immediatamente successivo, intitolato La critica critica, nel quale Gramsci risponde alle accuse di volontarismo che gli vengono mosse dal versante riformista. Claudio Treves in particolare, in un articolo su «Critica Sociale», aveva denunciato «la spaventosa incultura della nuova generazione socialista italiana», colpevole di aver sostituito il volontarismo al determinismo. A Treves, Gramsci risponde che «la nuova generazione», leggendo è studiando pubblicazioni scritte in Europa dopo la stagione d’oro del positivismo, ha preso definitivamente coscienza del fatto che «la stelirizzazione operata dai socialisti positivisti» sull’opera di Karl Marx, non solo non si è rivelata una grande conquista di cultura, ma non si è neanche accompagnata a grandi conquiste nella realtà. Treves al posto dell’uomo individuale realmente esistente pone il determinismo e riduce il pensiero di Marx «a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente verificantesi all’infuori della volontà degli uomini», rende il marxismo una dottrina dell’inerzia del proletariato.
Gramsci rivendica «alla nuova generazione» la volontà di ritornare alla genuina dottrina di Marx, «per la quale l’uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà, non sono dissaldati, ma si identificano nell’atto storico», e per la quale «i canoni del materialismo storico valgono solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato e non debbano diventare ipoteca sul presente e sul futuro» .
Le deformazioni operate sull’opera di Marx dal parte del marxismo ufficiale portavano la grave responsabilità di averne mortificato la vitalità, di aver trasformato il senso più profondo del materialismo storico in «parabole» scandite da imperativi categorici ed indiscutibili al di fuori da qualsiasi categoria di spazio e tempo. Per Gramsci Marx non era né un messia né un profeta, bensì uno storico e in ragione di ciò il marxismo andava epurato da tutte le successive incrostazioni metafisiche e ricollocato nella sua giusta dimensione, per coglierne il valore generale e trarne un metodo, questo sì scientifico, di valutazione storica. Prima di Marx – annota Gramsci – «la storia era solo dominio delle idee. L’uomo era considerato come spirito, come coscienza pura. Due conseguenze erronee derivavano da questa concezione: le idee messe in valore erano spesso arbitrarie, fittizie. I fatti cui si dava importanza erano aneddotica, non storia. Con Marx la storia continua ad essere dominio delle idee, dello spirito, si sustanziano, perdono la loro arbitrarietà, non sono più fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è nell’economia, nell’attività pratica, nei sistemi e nei rapporti di produzione e di scambio. (…) è inutile l’avverbio marxisticamente, e anzi esso può dare luogo ad equivoci e ad inondazioni fatue e parolaie. Marxisti, marxisticamente… aggettivo e avverbio logori come monete passate per troppe mani» .
Tutto questo aveva una conseguenza fondamentale nella svalutazione dell’intervento attivo e cosciente delle grandi masse popolari, nell’attribuzione ad esse di un ruolo subordinato nei confronti delle contraddizioni immanenti alle leggi dell’economia capitalistica, quindi verso la capacità dei dirigenti politici del movimento operaio di saperle leggere. In questa svalutazione risiedono le premesse del fallimento della stagione rivoluzionaria del biennio rosso ed insieme della reazione delle classi dominanti che gli ha fatto seguito.
Quando, in una fase di «crisi organica», «il vecchio muore e il nuovo non può nascere», può esserci inettitudine non solo nella classe dirigente al potere, ma anche in quella che si pone, o dovrebbe porsi, come la sua negazione: nonostante la crisi di autorità del regime liberale nel dopoguerra. La diffusione del marxismo in Italia non andò oltre un certo grado di sviluppo e il partito del proletariato si mostrò incapace di assumere un qualsiasi ruolo positivo cadendo vittima della sua inerzia. Gramsci trova la rappresentazione esemplare di questa «crisi organica» nel discorso tenuto in Parlamento da Claudio Treves il 30 marzo 1920: secondo Treves la «crisi del regime» è dovuta al fatto che esso non può più imporre il suo ordine alle masse e queste contemporaneamente non possono ancora imporre il loro, perché la rivoluzione non è un qualcosa che si fa in un dato momento ma è come un lento processo naturale di erosione che si svolge in uno stato febbrile di irrequietudine delle masse. Per Treves l’espiazione della borghesia per le sue colpe, consiste nel fatto che l’agonia degli ordinamenti economici e politici esistenti non può essere accorciata da una rivoluzione immediata, ma deve passare attraverso una via crucis lunga e penosa destinata a durare anni. Dietro a questa rappresentazione apocalittica di Treves si nascondeva per Gramsci la paura di assumere una qualche responsabilità concreta e con essa la mancanza di un qualsiasi legame del partito con le masse, l’incapacità a comprenderne i bisogni fondamentali, le aspirazioni, le energie latenti:
C’era una grandezza sacerdotale in questo discorso, uno stridore di maledizioni che dovevano impietrire di spavento e invece furono una grande consolazione, perché indicavano che il becchino non era ancora pronto e Lazzaro poteva risorgere .

L’Edizione anastatica dei Quaderni del carcere

L’Edizione anastatica dei Quaderni del carcere

L’uscita dell’edizione anastatica dei Quaderni è una tappa fondamentale del lungo lavoro scientifico attorno all’opera, realizzata tra il febbraio del 1929 e il 1935 da Antonio Gramsci, compiuto con rigore e dedizione da più generazioni di studiosi avvicendatisi dal dopoguerra fino a oggi: Felice Platone, Valentino Gerratana, Gianni Francioni.

La prima edizione tematica Platone-Togliatti realizzata tra 1948 e il ’51 e costituì una delle più importanti operazioni culturali di tutto il dopoguerra, i Quaderni furono un’autentica rivelazione per tutta la politica e la cultura nel nostro Paese, a prescindere dalla collocazione ideologica. Oggi in tanti hanno da ridire sull’arbitrarietà del riordino tematico di questa edizione, Lo Piparo ci vede addirittura la prova della malafede di un Togliatti tutto intento censurare Gramsci, in realtà, almeno io la penso così, si trattò di un’operazione estremamente intelligenete che consentì un approccio graduale a un’opera tanto complessa, favorendone la circolazione. Personalmente ritengo che, ancora oggi, quest’edizione sia la più appropriata per chi intenda avvicinarsi la prima volta ai Quaderni senza restare travolto dalla struttura frammentaria di questi.

Il secondo passaggio fu l’edizione critica curata da Valentino Gerratana nel 1975, che segna la maturità degli studi gramsciani e il tentativo di pubblicare i quaderni secondo l’ordine di realizzazione seguito dall’autore.

Per quanto riguarda l’edizione anastatica curata da Gianni Francioni, che riproduce non solo in maniera fedele la successione cronologica dei Quaderni, ma anche i manoscritti originali comprensivi di tutte le loro parti, copertine incluse, essa è stata realizzata nel 2009 dal gruppo editoriale «L’Unione Sarda» e dall’Istituto Treccani, su proposta della Fondazione Siotto e con l’indispensabile sostegno della Fondazione Gramsci. Un esempio assai importante di sinergia tra realtà diverse, in anni di ristrettezze finanziarie a sostegno delle operazioni culturali, che ha anticipato la nuova edizione nazionale dei Quaderni in corso di realizzazione, consentendo a tutti di possedere a un prezzo modico un’opera curata in ogni dettaglio, sia sul versante scientifico, sia su quello della fattura tipografico-editoriale.

L’idea stessa di associare l’uscita settimanale dei singoli volumi a un quotidiano di larga tiratura (seppur regionale), quindi la loro disponibilità in tutte le edicole è stata una felice iniziativa di promozione culturale che ha consentito all’opera di varcare la soglia degli ambienti riservati agli addetti ai lavori.

L’Edizione anastatica è un passaggio decisivo di questo lungo lavoro, sviluppato nel corso dei decenni, teso in primo luogo a favorire la conoscenza e la diffusione dell’opera gramsciana, quindi a rispettarne il rigore filologico. Essa è stata realizzata seguendo il più fedelmente possibile la cronologia dei quaderni e il ritmo di sviluppo degli studi e delle riflessioni realizzate da Gramsci.

Quest’ultima edizione, oltre a dare a tutti l’opportunità di misurarsi con la più fedele riproduzione dei Quaderni, dunque con la stessa grafia minuta «tonda e regolare» di Antonio Gramsci, costituisce uno strumento indispensabile per chi intenda realizzare uno studio scientifico sulle sue riflessioni..

La chiarezza della grafia, farebbe presupporre una lettura piana dei manoscritti, non è così, essa è resa complessa dal metodo di lavoro di Gramsci, ossia dalla sua tendenza a lavorare contemporaneamente su più quaderni, affrontando argomenti estremamente diversificati, sebbene logicamente concatenati, attraverso note in alcuni casi sintetiche, quasi dei promemoria, in altri estese ed approfondite, magari ulteriormente sviluppate e poste in connessione con altri plessi tematici in parti o quaderni successivi. Proprio questa struttura frammentaria, che nella lettura spinge naturalmente a seguire l’affinità tematica degli argomenti, rende arduo il proposito di rispettare l’effettiva cronologia del testo. Per questo l’apparato di note e gli studi realizzati attorno a quest’opera rappresentano una fondamentale bussola di orientamento per non perdersi nel Mare magnum di un’opera tanto complessa.

Nell’edizione anastatica trovano finalmente la loro giusta collocazione le traduzioni delle novelle dei fratelli Grimm curate da Gramsci agli inizi della sua carcerazione, una fase segnata da enormi difficoltà di concentrazione e avvio del piano di lavoro. Era infatti impossibile un rapporto dialogico con altri soggetti, necessario ad evitare un lavoro troppo autoriflessivo; era difficilissimo ottenere i mezzi per studiare con continuità e scrivere secondo un ordine razionale.

Lo sconforto conseguente alle prime disordinate letture gli fanno dubitare sulle reali possibilità di riuscita del progetto. Così in una lettera a Tania, il 23 maggio 1927, annunciava di volersi dedicare a due attività con scopo terapeutico come gli esercizi ginnici e le traduzioni dalle lingue straniere:

Un vero e proprio studio credo mi sia impossibile, per tante ragioni non solo psicologiche ma anche tecniche; mi è molto difficile abbandonarmi completamente a un argomento o a una materia e sprofondarmi solo in essa, proprio come si fa quando si studia sul serio, in modo da cogliere tutti i rapporti possibili e connetterli armonicamente. Qualche cosa in tal senso forse incomincia ad avvenire per lo studio delle lingue, (…) ora leggo le novelline dei fratelli Grimm. Sono proprio deciso a fare dello studio delle lingue la mia occupazione predominante.

Al di là dell’aspetto “terapeutico”, queste traduzioni sono importanti anche sul piano biografico. In una lettera alla sorella Teresina del 18 gennaio 1932, Gramsci scriveva di voler dare un suo piccolo contributo allo sviluppo della fantasia dei nipoti ricopiando e spedendo loro le traduzioni dei fratelli Grimm:

una serie di novelline popolari proprio come quelle che ci piacevano tanto quando eravamo bambini. Sono un po’ all’antica, alla paesana, ma la vita moderna, con la radio, l’aeroplano, il cine parlato, Carnera, ecc. non è ancora penetrato abbastanza a Ghilarza perché il gusto dei bambini d’ora sia molto diverso dal nostro di allora.

Pur provenendo dalla tradizione tedesca, le novelle, ambientate in boschi fitti e tenebrosi popolati di spiriti, streghe e folletti, non erano distanti dalla tradizione orale della fantasia popolare sarda e sembravano plasmarsi perfettamente sull’atmosfera della sua terra e del suo paese, un luogo, sono parole di Gramsci, «dove esisteranno sempre tipi all’antica come tia Adelina e Corroncu e le novelle avranno sempre un ambiente adatto». Il mondo di quelle fiabe gli riportava a memoria le scorribande d’infanzia nelle vallate tra Ghilarza e Abbasanta, quando, suggestionato dalle letture d’avventura, non usciva mai di casa senza avere in tasca chicchi di grano e fiammiferi avvolti nella tela cerata, nella malaugurata eventualità di finire in un’isola deserta. Queste traduzioni, rimasero escluse dalla pubblicazione delle precedenti edizioni dei Quaderni. La presente edizione ha il merito filologico di restituirle alla loro collocazione originaria, fornendo un quadro più esaustivo allo studio completo dell’opera.

L’interesse di Gramsci per la linguistica risale ai tormentati anni dello studio universitario nella grande Torino, resi difficili da salute cagionevole e disponibilità economiche che rasentavano la miseria più assoluta. Il giovane sardo attirò subito l’attenzione di uno dei più importanti studiosi di glottologia del tempo, Matteo Bartoli, e intensificò i rapporti con il docente di letteratura Umberto Cosmo, in passato professore al Liceo Dettori di Cagliari. Bartoli in particolare lo incoraggiò nello studio della linguistica sarda. Così non è inusuale trovare lettere ai familiari riguardanti questo tema. In una destinata al padre del 3 gennaio 1912 chiedeva quando nel dialetto fonnese la s «si pronuncia dolce, come in italiano rosa» e «quando dura, come sole», in altre destinate alla sorella chiedeva di informarsi circa alcune peculiarità del logudorese e del campidanese, su termini, pronunce, varianti. Non è dunque un caso se nei Quaderni tanta attenzione sia dedicata alla glottologia e in generale alla linguistica. Dopo anni di militanza e un’intensa attività teorico-politica, le traduzioni di queste prime note dal carcere avevano un valore propedeutico, oltre che terapeutico, necessarie all’inizio di un lavoro «disinteressato» rispetto al quale le condizioni ambientali non aiutavano. È ancora una lettera a Tania del 15 settembre 1930, nella quale considerazioni personali e di studio si mischiano, ad accennarlo:

sarà perché tutta la mia formazione intellettuale è stata di ordine polemico; anche il pensare disinteressatamente mi è difficile, cioè lo studio per lo studio. Solo qualche volta, ma di rado, mi capita di dimenticarmi in un determinato ordine di riflessioni e di trovare per dir così, nelle cose in sé l’interesse per dedicarmi alla loro analisi. Ordinariamente mi è necessario pormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non sento alcuno stimolo intellettuale

Al di là di questa valutazione autocritica, tratto caratteristico della personalità di Gramsci, le traduzioni e gli studi di linguistica sono condotti con assoluto rigore filologico, curiosità intellettuale e un metodo oggi analizzato con grande attenzione dagli specialisti della materia. Nel comunicare in una lettera la volontà di dedicarsi ad uno studio sistematico della linguistica comparata,  egli confessò alla cognata Tania che uno dei suoi maggiori rimorsi intellettuali era «il dolore procurato al buon professor Bartoli dell’Università di Torino»,  ma gli avvenimenti del «mondo grande, terribile e complicato», che precedettero e seguirono la guerra, avevano spinto il giovane intellettuale sardo, come tanti della sua generazione, a trovare nell’impegno politico una nuova ragione di esistenza per la quale valeva la pena di rischiare tutto, compresa la vita.

Il terzo Quaderno di traduzioni, oltre a proseguire lo studio sui ceppi linguistici di Franz Nikolaus Finck, contiene le traduzioni delle Conversazioni con Goethe di Eckermann. Le Conversazioni raccolgono le memorie del grande poeta e scrittore tedesco attraverso i colloqui con il suo segretario Joahn Peter Eckermann. Goethe è stato definito un genio universale per la versatilità del suo estro manifestatosi in diversi campi del sapere, poesia, letteratura, scienza, filosofia. Eckermann tramite i ricordi ne ricostruisce l’universo ideale, il mondo e i valori, fino a tratteggiare un affresco biografico ritenuto uno dei più grandi patrimoni della letteratura occidentale, tanto da essere definito da Niezstche «il miglior libro tedesco mai scritto». Goethe è una figura sistematicamente presente nei Quaderni come nelle lettere. Per Gramsci ogni nazione ha un letterato che ne riassume in qualche modo la gloria intellettuale, Shakespeare per l’Inghilterra, Cervantes per la Spagna, Dante per l’Italia, Goethe per la Germania. Tuttavia solo Shakespeare e Goethe possono ritenersi figure intellettuali operanti anche nell’età contemporanea, autori attuali, per la loro capacità «d’insegnare come dei filosofi quello che dobbiamo credere, come poeti quello che dobbiamo intuire (sentire), come uomini quello che dobbiamo fare». In Goethe Gramsci intravede una forza politico-culturale capace di varcare il suo tempo e imporsi al presente: «solo Goethe è sempre di una certa attualità, perché egli esprime in forma serena e classica ciò che nel Leopardi è ancora torbido romanticismo», rappresenta la fiducia nell’attività creatrice dell’uomo in una natura vista non come nemica e antagonista. La lettura delle Conversazioni con Goethe nella condizione di detenzione accomuna l’esperienza di Gramsci con quella di un grande critico letterario francese vissuto negli stessi anni, Jacques Rivière. Nel Quaderno I Gramsci riporta alcuni stralci delle Impressioni di prigionia, scritte dallo storico editore della «Nouvelle Revue Française» e pubblicate nel 1928, tre anni dopo la sua morte. In esse Rivière raccontava le vessazioni subite durante la prigionia nella prima guerra mondiale, in particolare l’umiliazione patita nel corso di una perquisizione nella sua cella, quando vennero sequestrate le sue poche cose e soprattutto l’unico libro che aveva con sé, appunto le Conversazioni con Goethe. Gramsci ha trascritto le sensazioni di disperazione e angoscia del francese per lo stato brutale e incerto di una prigionia, vissuta come un’ineliminabile «stretta al cuore», nella quale si è costantemente esposti a ogni tipo di angheria e la condizione di oppressione fisica e psichica diviene insopportabile. Un’angoscia, testimoniata da tutto il carteggio delle lettere, condivisa dall’intellettuale sardo che non a caso concluse queste note scrivendo del pianto in carcere «quando l’idea della morte  si presenta per la prima volta e si diventa vecchi d’un colpo».

In una famosa lettera scritta alla cognata Tania Schucht il 19 marzo 1927 dal carcere di Milano, Gramsci avanzava l’esigenza di dedicarsi ad un lavoro di ricerca «disinteressato» capace di occuparlo intensamente. Questo brano costituisce un ponte tra l’analisi sulla Questione meridionale e quella dei Quaderni ed è la prima esposizione del piano di lavoro ipotizzato per gli anni di detenzione. Già nel primo Quaderno, il tema dei rapporti tra Settentrione e Meridione è indagato con una prospettiva storica che comprende le dinamiche del Risorgimento italiano e la funzione politica degli intellettuali. Per Gramsci l’Unità si è realizzata attraverso una relazione squilibrata dove l’arricchimento e l’incremento industriale del Nord dipendevano dall’impoverimento del Mezzogiorno. Egli parla di uno sfruttamento semicoloniale occultato da tutta una letteratura che spiegava l’arretratezza del Sud con l’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita dell’uomo meridionale. Un Meridione liberato dal giogo borbonico, ritenuto fertile e ricco di risorse naturali, e ciò nonostante incapace di emanciparsi dalla miseria e dall’arretratezza per ragioni tutte interne al Meridione stesso. Un Sud «palla al piede» che impediva al Nord un più rapido progresso verso la modernità industriale e la ricchezza economica. Nel Quaderno uno è analizzato un tema organico all’intera opera, la debolezza delle classi dirigenti italiane: l’arresto dello sviluppo della civiltà comunale e la mancata formazione di uno Stato unitario moderno, i limiti del Risorgimento e l’assenza di una compiuta dialettica parlamentare in età liberale, il fenomeno del trasformismo. Il Risorgimento, tuttavia, è lo snodo analizzato maggiormente nel primo Quaderno, a iniziare dal fallimento delle prospettive democratiche del partito di Mazzini e dalla capacità egemonica dei Moderati di Cavour, i veri protagonisti dell’unificazione nazionale per l’intellettuale sardo. Il problema tutto italiano del «trasformismo» non era per Gramsci semplicemente un fenomeno di malcostume politico, bensì un preciso processo di cooptazione con il quale, dal Risorgimento in poi, si è ottenuto un consolidamento del potere politico attraverso la decapitazione e l’assorbimento dei gruppi avversi allo Stato. L’importanza di queste analisi, che tratteggiano i termini essenziali di una “biografia nazionale”, è notevole sia per la storia che per la scienza politica e in esse sono contenute alcune tendenze che ciclicamente ricorrono nella vita politica italiana, specie nelle sue fasi di crisi. Ma l’originalità di tale analisi risiede nel comprendere che ogni sistema di potere si regge non solo sull’uso della forza ma anche sul consenso, sulla capacità di formare sul piano culturale e sociale ciò che comunemente viene definito “opinione pubblica”: la funzione essenziale degli intellettuali in una società moderna, il grande tema della società civile come articolazione organica di ciò che genericamente si intende per Stato.

Come accennato, nel carcere di Turi l’8 febbraio 1929, più di due anni dopo l’arresto, avvenuto l’8 novembre del 1926, Gramsci aveva iniziato la stesura dei Quaderni. In carcere lo studio è un metodo di resistenza all’abbruttimento intellettuale, strumento di sopravvivenza sia fisica che politica. Come ha scritto Valentino Gerratana, dalla tensione tra queste due esigenze prendono forma i Quaderni, un lavoro composto di appunti e riflessioni destinati ad ulteriore definizione, eppure di straordinaria ricchezza, tanto da essere ritenuto irrinunciabile per tanti ambiti scientifici molto diversi tra loro. Dalla critica letteraria alla linguistica, dalla storia alla scienza politica, dalla pedagogia al teatro. Un’opera che attualmente è oggetto di studi universitari approfonditi negli USA, in Inghilterra, Giappone, India, Brasile e Messico più di quanto non lo sia in Italia. Nei Quaderni emerge il rigore politico e insieme la spietata concretezza, con i quali l’intellettuale sardo fa i conti con il crollo del sistema liberale in Italia e con esso il travolgimento del movimento operaio e del proprio campo politico. Un dramma storico che spinge Gramsci ad un’indagine priva di indulgenze sui limiti, gli errori, le astrattezze dell’intero fronte oppostosi a Mussolini. Ma l’indagine non si ferma al contingente dato politico. Gramsci si interroga problematicamente sulla totalità e organicità dei processi storici, sui limiti congeniti dell’intera vita politica italiana, sulla continuità dei suoi vizi, senza tentare di assolvere o fare sconti al suo stesso orientamento politico-ideologico. Proprio questa problematicità ha spinto Gramsci ad evitare qualsiasi lettura storiografica e politica semplificante. Il fascismo costituiva la negazione più completa dei suoi valori e delle sue prospettive politiche, ciò nonostante l’intellettuale sardo lo analizza come fenomeno razionale e reale, scaturito da precise cause, storicamente determinate, in continuità con la storia delle sue classi dirigenti. Il fascismo ha per Gramsci radici profonde nella storia d’Italia e per molti versi il piano di lavoro dei Quaderni del carcere costituisce un tentativo d’indagine per andare al fondo di quelle radici. Da questa esigenza prende corpo un’opera assai vasta che passa sotto una lente d’ingrandimento mai banale i fatti degli uomini e delle idee, esposti con una prosa attenta e tagliente che spesso non disdegna di cogliere il lato ironico delle cose. Il carattere tutt’altro che dogmatico dell’opera di Gramsci, gli ha permesso di sfuggire alle rigide classificazioni, di andare oltre la crisi e il crollo del suo stesso campo politico-ideologico, di varcare il limite temporale e politico del Novecento. I Quaderni del carcere sono uno strumento chiave per leggere anche l’attualità, costituiscono ancora oggi una bussola fondamentale per orientarsi nelle contraddizioni della modernità, e non è certo un caso se gli studi in suo onore abbiano, oggi più di ieri, un posto di assoluto rilievo a livello internazionale tra i grandi pensatori della storia dell’umanità.

L’edizione anastatica ha il merito di renderci i Quaderni così come sono, senza mediazioni o dubbi sulla natura arbitraria delle scelte operate dal curatore di turno, da a ognuno un privilegio fino a oggi riservato a pochissimi studiosi, quello di leggere Gramsci seguendo, non solo la natura magmatica dei suoi ragionamenti, ma anche la sua originale traduzione grafica. Conoscendo e seguendo le sue vicende biografiche, nei tormentati anni passati in carcere si può quasi immaginare lo stato d’animo dell’autore attraverso il ritmo delle sue riflessioni e il tratto della sua mano. Per tutte queste ragioni, la realizzazione di questa edizione rappresenta una pietra miliare nella storia delle ricerche su Antonio Gramsci e più in generale nella storia culturale del nostro Paese. Per una volta, possiamo dirlo con orgoglio, un progetto tanto importante è stato realizzato in Sardegna.

 

Gianni Fresu

Eugenio Curiel, i giovani e la Resistenza. La generazione che “rottamò” il fascismo.

Eugenio Curiel, i giovani e la Resistenza.

La generazione che “rottamò” il fascismo.

Gianni Fresu

 

I temi del rinnovamento anagrafico e della cosiddetta “rottamazione”, sembrano oggi monopolizzare l’attenzione del dibattito politico, sovente a prescindere dalla proposta avanzata. Nella storia non sono mancate fratture generazionali, tuttavia, i risultati più profondi in termini di rinnovamento si sono avuti quando tra vecchie e nuove generazioni si è determinata una saldatura incentrata sulle scelte di campo. La lotta di liberazione dal nazifascismo è un esempio in tal senso proprio per l’irrompere diffuso di giovani cresciuti nel regime che, nella clandestinità, trovarono un terreno d’incontro con i vecchi protagonisti dell’antifascismo sconfitto da Mussolini. Tra le figure dimenticate, eppure più significative, di quella pagina di storia si può annoverare quella del giovane scienziato e partigiano Eugenio Curiel di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Nato a Trieste l’11 dicembre 1912 da una famiglia benestante di religione ebraica, dopo l’iscrizione in Ingegneria a Firenze e il Politecnico a Milano, si laureò in fisica e matematica a Padova nel 1933 con il massimo dei voti e una tesi sulle disintegrazioni nucleari. Con la docenza universitaria, Curiel iniziò a partecipare anche ai seminari di studi dell’Istituto di filosofia del diritto. Ciò gli diede l’opportunità di curare l’altro versante delle sue passioni intellettuali, facendo i conti con la filosofia idealista di Croce e Gentile per arrivare attraverso Hegel al marxismo, secondo un percorso comune a tanti giovani della sua generazione. A questo periodo risalgono anche i suoi primi scritti e l’avvio di una più matura elaborazine politico-filosofica. Con altri giovani come Atto Braun, Renato Mieli (il padre di Paolo) e Guido Goldschmied costituì la cellula comunista di Padova, quindi nel ’36 stabilì un contatto con il PCI e partì per Parigi. Tra gli esiliati politici, l’arrivo di giovani italiani, che con l’entusiasmo e la voglia di fare si portavano dietro testimonianze dirette della situazione nel Paese, era atteso come una boccata d’aria fresca. Tornato a Padova con le direttive del partito, Curiel dovette fronteggiare la delusione dei suoi giovani compagni, desiderosi di passare all’azione e poco propensi a dedicarsi alle sole attività di penetrazione nelle organizzazioni fasciste indicate dal centro estero del PCI. In coerenza con le direttive ricevute, Curiel iniziò una stabile collaborazione con il giornale universitario fascista “Il Bò”, dove scrisse 54 articoli tra il 1937 e il ’38 curandone la pagina sindacale. Le lunghissime discussioni redazionali si spostarono alle fabbriche, per l’intuizione di confrontare preventivamente le questioni da trattare nel giornale con gli stessi operai. Ciò consentì al gruppo di costruire solidi legami sociali nel mondo del lavoro, poi rivelatisi fondamentali con lo sgretolamento del regime. Ottenuto nel dicembre del 1937 il passaporto per motivi di studio, riuscì tornare a Parigi dove per due mesi ebbe modo di rafforzare sempre più i rapporti con Donini, Grieco e Sereni. Curiel avrebbe voluto dedicarsi totalmente all’attività clandestina, ma il centro estero lo convinse a sfruttare fino all’ultimo gli spazi legalitari che ancora gli erano rimasti e di non rinunciare né al suo lavoro universitario, né all’attività nei GUF. Nel 1938, abbandonata la collaborazione con “Il Bò” ed estromesso dall’Università per la promulgazione delle leggi razziali, Curiel tornò a Parigi in una fase difficilissima per le forze antifasciste, con la Guerra Spagnola avviatasi verso una tragica sconfitta e dissidi sempre più grossi tra le forze della sinistra. Gli offrirono diverse sistemazioni lavorative sicure in Francia, Svizzera e persino negli USA USA – dove ebbe l’opportunità di partire per fare da insegnante al figlio di uno dei più importanti magnati dell’industria cinematografica, Luis Burt Mayer – ma li rifiutò tutti per non abbandonare la sua militanza e l’impegno antifascista nel Paese. Fermato dalla polizia svizzera nel maggio fu arrestato nel mese di giugno. Sottoposto a interrogatorio a San Vittore e mandato al confino a Ventotene, dal gennaio1940, Curiel si dedicò allo studio e alla formazione dei confinati antifascisti. Lasciata Ventotene, dopo tre anni, insieme agli altri confinati, Curiel tornò in libertà proprio alla vigilia dell’8 settembre. Trasferitosi a Milano, su indicazione della direzione Alta Italia del PCI, con il compito di creare il Fronte della Gioventù, curare l’edizione settentrionale de “l’Unità” e della rivista “La nostra lotta”, diventò il «partigiano Giorgio». Dopo una medaglia d’oro al valor militare, una lapide e un inno partigiano a lui dedicato, di questa singolare figura, tanto interessante da meritare una sceneggiatura cinematografica, rimangono alcune vecchie pubblicazioni e il ricordo degli ultimi testimoni di quella storia. La generazione di Curiel diede alla guerra di liberazione una parte consistente di quadri e la sua base di massa. Giovani cresciuti nel regime, ma capaci di emanciparsi dal fascismo, aderire all’opposizione e affiliarsi nelle formazioni partigiane. Tra le vecchie generazioni di antifascisti, in gran parte esuli sconfitti anche se non piegati dal fascismo, e questi giovani inquieti e insoddisfatti dal regime c’era un salto generazionale, ciò nonostante tra essi si determinò una saldatura fortissima destinata a costituire la spina dorsale della Resistenza. I leaders del vecchio movimento antifascista, costretti all’emigrazione dopo il carcere e le violenze subite, senza l’apporto delle nuove generazioni difficilmente avrebbero potuto raggiungere una tanto vasta mobilitazione contro il movimento di Mussolini. Le nuove generazioni allevate a “pane e fascismo” e non “contaminate” dal germe delle ideologie liberali, democratiche o marxiste, quelle su cui il regime tanto aveva puntato e da cui doveva venir fuori «l’uomo nuovo fascista», si rivelarono in definitiva il suo punto debole. Il 24 febbraio 1945, dopo aver pranzato in ufficio con la sua compagna, con Arturo Colombi e con altre due giovani collaboratrici e aver discusso il piano del numero de “l’Unità” in preparazione lasciò la redazione, riconosciuto sulla strada da un delatore, fu raggiunto e ucciso da una squadra fascista. Curiel morì a due mesi dalla liberazione di Milano, non aveva ancora compiuto 33 anni. Le cronache narrano che sul suo sangue un’anziana fioraia milanese gettò una manciata di garofani rossi. Tra tutti, per concludere, il ricordo dell’amico Giorgio Amendola: «Passammo, così, anche l’ultima notte del ’44, e salutammo con gioia il nuovo anno, quello della vittoria ormai certa. Ci vedemmo ancora una volta, qualche settimana dopo, e ci lasciammo in quel bar, all’angolo di Corso Magenta, da cui sarebbe uscito il 24 febbraio per andare in Piazzale Baracca incontro alla morte, alle pallottole dei fascisti. Anche la sua vita fu gettata nel rogo, come quella di tanti altri giovani. Ed il suo sacrificio, così crudele alla vigilia della liberazione, ha fatto di Eugenio Curiel, medaglia d’oro, un simbolo, il capo della gioventù della Resistenza». Quei giovani anteposero un ben preciso progetto, abbattere il regime e ricostruire da zero la democrazia, alla velleitaria pretesa di tagliare orizzontalmente ogni rapporto con le vecchie generazioni, non solo con quelle responsabili della dittatura, ma anche con chi lo aveva combattuto, seppur perdendo. Scelsero piuttosto di “rottamare” il fascismo.

 

 

 

 

Processate Gramsci!

Processate Gramsci!
Di Gianni Fresu

Ci risiamo, sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo alla storia del partito comunista italiano. La bibliografia tesa a presentare un Gramsci tormentato e proteso verso un approdo liberale, al limite socialdemocratico, è ampia e, sebbene di scadentissimo valore scientifico, molto apprezzata. A questa si aggiungono altre tesi strampalate, sempre di taglio scandalistico e mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile, particolarmente ambite dalle “grandi” testate giornalistiche italiane e dai programmi televisivi di divulgazione storica. Per sommi capi le richiamo:
1)Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di Gramsci) agenti del KGB assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3) Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di morte dell’intellettuale sardo (attendiamo con trepida attesa le prossime rivelazioni sul Gramsci devoto di padre Pio).
Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano sulla rilettura forzata (ovviamente mai provata) di carteggi necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive non suffragate da alcun dato documentale; su letture banali e parziali degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di documenti d’archivio.
Tutti ricordiamo la famosa lettera di Torgliatti sugli alpini prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro da uno storico imbroglione (nel senso che è entrato nella storia degli imbroglioni) come Franco Andreucci. Vi ricordate «il divino Hegel» e Achille Occhetto dichiaratosi da subito «agghiacciato» per le sconcertanti rivelazioni, senza neanche attendere la verifica della loro veridicità? Su questa colossale patacca, degna della banda dei “soliti ignoti”, furono riempite le pagine dei giornali (si propose persino di modificare tutta la toponomastica nazionale per cancellare il nome di Togliatti da vie e piazze), i dibattiti politici, i palinsesti televisivi. Ovviamente, una volta appurata la grossolana falsificazione, alla rettifica non fu dato altrettanto spazio. Bene, a questo filone possiamo ascrivere le ultime due fatiche del revisionismo nostrano, ovviamente già celebrate dai maggiori quotidiani nazionali e dai loro “intellettuali” di punta, pubblicate recetemente: I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, 2012) di Franco Lo Piparo e Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino, 2012) di Alessandro Orsini che tanto ha entusiasmato il re delle anime belle Saviano da spingerlo a scrivere un Elogio dei riformisti per «La Repubblica». Nel primo caso abbiamo l’ennesimo tentativo, sempre debolissimo sul piano delle fonti, di presentare Gramsci come un recluso nelle carceri del PCI e del PCUS, non in quelle del regime fascista, costretto in una cella le cui chiavi erano in mano a Togliatti e non a Mussolini. Oltre a questo, nel saggio di Lo Piparo si cerca nuovamente (senza alcuna novità rispetto al passato) di usare strumentalmente alcune pagine dei Quaderni, omettendone volutamente altre, per dimostrare con queste l’abbandono del leninismo e la svolta liberale di Antonio Gramsci. Sul primo tentativo non vale neanche la pena di perder troppo tempo, si tratta della solita costruzione priva di basi, condita però da una fervida e interessatissima fantasia (non molto più attendibile sul piano scientifico del Codice da Vinci di Dan Brown), per quanto riguarda il secondo, invece, ci troviamo di fronte ad un nuovo saggio scritto dopo una lettura creativa dei Quaderni con la consolidata tecnica “una pagina sì e una pagina no”. All’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica di Antonio Gramsci, nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive al 1926, così come quella impegnata a distinguere il politico dal «pensatore disinteressato». Tale tendenza, mossa più da esigenze politiche che da una reale necessità scientifica, si è rivelata sempre, e anche in questo caso, priva di qualsiasi rigore filologico. Eugenio Garin ha scritto che «Gramsci non intendeva fare opera di ricercatore erudito: la sua concezione del pensatore e dello storico lo impegnava in una situazione concreta, a scelte reali» . Gramsci era un politico e non un filosofo – e con ciò intendeva dire che era un filosofo e uno storico serio e non un professore – dunque «non si preoccupò di raccogliere in candidi mazzolini temi incontaminati perché a tutti estranei, ma combattè sul terreno reale, nella situazione reale»[1]. In Gramsci la lettura analitica si intreccia strettamente alla battaglia politica e la distinzione sulle due fasi può essere riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della prima e nella maggiore libertà analitica, appunto «für ewig», delle riflessioni carcerarie, tuttavia, tra le due la continuità concettuale è evidente e documentabile. Negli ultimi trent’anni, invece, lo sport più diffuso tra molti gramsciologi di professione è stato epurare l’opera di Gramsci dai legami con l’esperienza del leninismo e della III Internazionale. Tra le pagine dei Quaderni del carcere e negli abusatissimi concetti di «egemonia» e «guerra di posizione», sono state ricercate le prove di questa frattura per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità assoluta, con il «demone del novecento». A tal fine, queste riletture evitano accuratamente di fare i conti con le pagine nelle quali Gramsci studia e valorizza al massimo Ilici come un teorico dell’egemonia[2]. Lenin non è un rivoluzionario idealista scontratosi con l’immodificabilità dell’ordine naturale delle cose, dunque sconfitto, ma colui che Gramsci ha definito nei Quaderni il protagonista di una «egemonia realizzata», ovverosia, «la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica», e questo è forse il boccone più amaro da digerire per tutti gli intellettuali arruolati nella battaglia per la difesa dello stato di cose esistenti.
Lo Piparo fa di tutto per non leggere le pagine dei Quaderni dedicate a Lenin, ma si dimostra ancora più spregiudicato nel definire i Quaderni «un opera di profilo crociano», una sorta di «ripensamento filosofico» di Gramsci nella sua transizione dal comunismo al liberalismo. Così, la tendenza a leggere una pagina sì e una no, lo porta a mille acrobazie per non fare i conti con le note dove Gramsci riconosce sicuramente a Croce una grandissima statura intellettuale, e degli indubbi meriti filosofici, ma al contempo ne contesta radicalmente il profilo sociale e politico, mettendo persino in dubbio la buona fede del filosofo liberale. Se Lenin è per Gramsci il protagonista di una «egemonia realizzata», a sua volta Benedetto Croce è il massimo studioso dell’egemonia nella filosofia italiana. L’opera di Croce ha cioè il merito di aver indirizzato l’interesse scientifico verso lo studio degli elementi culturali e filosofici come parte integrante degli assetti di dominio di una società, da ciò consegue la comprensione della funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati nella costruzione dell’egemonia e del consenso, vale a dire del «blocco storico concreto». Nella concezione di «storia etico-politica», Benedetto Croce costruisce la storia del momento dell’egemonia. Nella storiografia crociana la giustapposizione dei termini etica e politica sta indicare due termini essenziali della direzione e del dominio politico: nel primo caso (etica) il riferimento è all’egemonia, all’attività della società civile; nel secondo caso (politica) il riferimento è all’iniziativa statale-governativa, alla dimensione istituzionale e coercitiva. «Quando c’è contrasto tra etica e politica, tra esigenze della libertà ed esigenze della forza, tra società civile e Stato-governo c’è crisi e il Croce giunge ad affermare che il vero Stato, cioè la forza direttiva dell’impulso storico, occorre cercarlo non là dove si crederebbe»[3] , al punto che, per quanto possa apparire paradossale, in determinati frangenti la direzione politica e morale del paese può essere esercitata anche da un partito rivoluzionario e non dal governo legale.
A queste considerazioni, tuttavia, Gramsci ne aggiunge altre, che Lo Piparo accuratamente evita di analizzare. Il limite maggiore di Croce consiste nel ritenere che il marxismo non riconosca il momento dell’egemonia e non dia importanza alla direzione culturale. Nella sua giustificata reazione al meccanicismo positivista e al determinismo economico Croce confonderebbe il materialismo storico con la sua forma volgarizzata. Al contrario, per la filosofia della praxis le ideologie non hanno nulla di arbitrario, ma sono strumenti di direzione politica. Per la massa dei governati esse sono strumenti di dominio attraverso la mistificazione e l’illusione, per le classi dirigenti un «inganno voluto e consapevole». Nel rapporto tra i due livelli emerge la funzione essenziale della lotta egemonica nella società civile e la natura non arbitraria delle ideologie:
esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti , per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. (…) Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà oggettiva ed operante [4] .
Del resto è nel terreno delle ideologie, della cosiddetta superstruttura, che gli uomini prendono coscienza del loro essere sociale ed avviene il cosiddetto passaggio dalla «classe in sé» alla «classe per sé», dunque per il materialismo storico tra struttura e superstruttura (tra economia e ideologie) esiste un nesso necessario e vitale, in ragione del quale si può parlare di movimento tendenziale del primo verso il secondo, la qual cosa non esclude un rapporto di reciprocità tra i due termini e comunque la funzione tutt’altro che secondaria delle superstrutture. Ma Gramsci non limita questa consapevolezza del materialismo storico all’opera dei due suoi fondatori, al contrario, gli sviluppi recenti della filosofia della praxis, il riferimento è a Lenin, pongono il momento dell’egemonia come essenziale della propria concezione statale e dell’opera di trasformazione dei rapporti sociali di produzione, valorizzano l’importanza dei fattori di direzione culturale, della creazione di un «fronte culturale», a fianco di quelli meramente economici e politici.
La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno delle ideologie deve essere considerata un’affermazione di carattere gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’approccio teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto filosofico[5].
Tra i paradigmi di storia etico-politica presenti nella Storia dell’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce, Gramsci individua un uso politico delle categorie come «strumento di governo», specchio fedele di quell’autorappresentazione della ideologia borghese che Marx definiva «falsa coscienza». Il limite maggiore della rappresentazione compiuta da Croce dell’età liberale, risiederebbe nel mantenere due livelli nettamente distinti (uno per gli intellettuali e uno per le grandi masse popolari) di ciò che s’intende per religione, filosofia, libertà. «La libertà come identità di storia e di spirito e la libertà come religione superstizione, come ideologia circostanziata, come strumento pratico di governo». La presupposta eticità dello Stato liberale si scontra cioè con la sua poca propensione espansiva-inclusiva.
[Croce] crede di trattare di una filosofia e tratta di una ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece descrive con grande acutezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e a far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio. (…) Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia o la religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile. E il gruppo dirigente non si propone forse di perpetuare questo stato di cose? Il Croce dovrebbe spiegare come mai la concezione del mondo della libertà non possa diventare elemento pedagogico nell’insegnamento delle scuole elementari e come egli stesso da ministro abbia introdotto nelle scuole elementari l’insegnamento della religione confessionale. Questa assenza di «espansività» nelle grandi masse è la testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente, della filosofia della libertà[6] .
Altro che Gramsci liberale, le note dei Quaderni analizzano la formidabile articolazione fortificata della società liberale, i suoi assetti di egemonia e dominio, rispetto alla cui complessità e resistenza invoca lo spirito di scissione delle classi subalterne:
Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana[7] .
Ma di tutto questo Lo Piparo, chissà perché, non tiene conto. Per quanto riguarda invece il saggio di Orsini, oggetto dell’entusiastica recensione di Roberto Saviano, ci troviamo di fronte a un’operazione ancora più banale: la comparazione tra alcune pagine degli articoli giovanili più polemici e immediatamente legati alla quotidiana lotta politica di Gramsci e quelli più «aulici» e riflessivi di Filippo Turati. Un capolavoro che non merita neppure troppa attenzione, mentre qualche parola è giusto spenderla per le «disinteressate» riflessioni di Saviano, capace di sintetizzare l’obiettivo politico del lavoro di Orsini senza neanche un tantino di pudore:
Alessandro Orsini ci presenta due anime della sinistra storica italiana (esemplificate in Gramsci e Turati) e ci mostra come, nel tempo, una abbia avuto il sopravvento sull’altra. L’idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: “La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato”. Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all’insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute: “Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio”. Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato [8].
Saviano forse dimentica, non sa, o magari non vuol ricordare, che a esaltare e salutare positivamente non un cazzotto, ma la «pioggia di pugni» riservati dal nascente movimento fascista verso il sovversivismo di operai e contadini riottosi fu il campione del liberalismo italiano per eccellenza, Benedetto Croce. Come sempre di Croce, come di Turati, non si ricordano affermazioni e posizioni di questo tipo ma solo le grandi petizioni di principio su libertà, democrazia, rispetto della diversità. Ovviamente, passano in cavalleria tante cose, compreso il sostegno del mondo liberale al partito fascista nella fase precedente e successiva all’ascesa al potere di Mussolini. Non sarebbe male ricordare che un manipolo di deputati fascisti potè entrare nel 1921 in Parlamento grazie alla cortese ospitalità delle liste elettorali di Giolitti. Tuttavia, è bene riconoscerlo, Saviano si è impegnato tantissimo per scrivere questa recensione, purtroppo il risultato non è all’altezza delle aspettative dei committenti:
Il politicamente corretto non era stato ancora inventato. Eppure, in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo: “Tutte le opinioni meritano di essere rispettate. La violenza, l’insulto e l’intolleranza rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto all’eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste la libertà”. Orsini raccoglie e analizza brani, scritti, testimonianze, che mostrano come quel vizio d’origine abbia influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come l’eredità peggiore della pedagogia dell’intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista sopravviva ancora[9].
Saviano si serve di questo libro, pazienza se passeggia sull’opera e la biografia di Gramsci senza aver mai letto la prima e conosciuto minimamente la seconda, per giungere alle sue conclusioni: la peggiore tradizione della «pedagogia dell’intolleranza» sta fuori dal Parlamento, nell’«estremismo massimalista» di quei movimenti che sono pronti a difendere i crimini delle peggiori dittature di qualsiasi regime antiamericano. Saviano accusa i comunisti di amare Cuba senza rispondere dei «crimini» del regime castrista e la cosa fa veramente sorridere perché a fare queste affermazioni è lo stesso individuo che esalta Israele, lo Stato protagonista del più alto numero di violazioni delle risoluzioni ONU nella storia, in barba ai più elementari diritti del popolo palestinese da esso violentemente calpestati (altro che «l’elogio del cazzotto»!). Saviano accusa gli «extraparlamentari» di avere la «verità unica» tra le mani, di essere «seguaci dell’unica idea possibile di libertà», al contrario per noi è lui a «vivere di dogmi», a essere ostaggio del «fondamentalismo democratico», «uno dei retaggi più disgustosi della propaganda profusa al tempo della guerra fredda». Esso «indica l’arrogante uso di una parola (democrazia) che nel suo attuale esito racchiude e copre il contrario di ciò che esprime; e, insieme, l’intolleranza verso ogni altra forma di organizzazione politica che non sia il parlamentarismo, la compravendita del voto, il mercato politico»[10] . È sconcertante la serie di luoghi comuni e rappresentazioni manichee della realtà in cui si lancia Fra-Saviano, senza supportare storicamente nessuna delle sue affermazioni. Cito testualmente, senza alcuna interpretazione soggettiva: «i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori» mentre «nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è un bene perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria, è il famigerato tanto peggio tanto meglio». Per Saviano i riformisti sono «realisti e tolleranti», mentre i comunisti sono per la «società perfetta», dunque utopistici e intolleranti. Messaggio finale del sermone: riformismo buono, comunismo cattivo; liberalismo bello, anticapitalismo brutto! “Pensierini”, talmente elementari e semplificanti da essere degni della miglior produzione del Comitato per le attività anti-americane del senatore Joseph McCarthy. Come dicevo sopra, è sconcertante il ragionamento di Saviano e lo è in misura tanto maggiore quanto più si tiene conto del contesto presente, segnato drammaticamente dalla crisi strutturale non dell’anticapitalismo, ma di un sistema contraddistinto da scompensi economico-sociali sempre più macroscopici, da prevaricazioni senza limiti sia nel rapporto tra capitale e lavoro (all’interno delle potenze capitalistiche), sia nelle violente forme di dominio delle nazioni ricche su quelle povere. Come ha scritto in passato Losurdo, buona parte della pubblicistica anticomunista basa le sue supposizioni sul sofisma di Talmon, «i fatti e i misfatti del comunismo vengono messi a confronto non con i comportamenti reali del mondo che esso vuole mettere in discussione, ma con le dichiarazioni di principio del liberalismo, rispetto alle quali la vicenda iniziata con la rivoluzione bolscevica appare in tutta la sua abiezione»[11] . Da una parte si parla dei Gulag, della dittatura e delle violazioni della libertà, identificando tutto questo con il marxismo, dall’altra si usano le parole più infiocchettate di Tocqueville, John Locke, Adamo Smith per descrivere il liberalismo tacendo guerre, colonialismo, miseria e sfruttamento da esso generate. Nella lettura apocalittica sul Novecento e nella sua completa trasfigurazione, il revisionismo storico ha costantemente tentato di demolire l’empia progenie del socialismo, imputando a Marx e discepoli tutto il carico di lutti e orrori propri di un secolo insanguinato, fascismi compresi, che non sarebbero figli legittimi dell’ideologia borghese, con tutto il suo carico di tradizione coloniale prima e imperialistica poi, ma un prodotto (autocefalo e tutto sommato salutare) della reazione al bolscevismo. Il fascismo, nei suoi riferimenti ideali, nel suo affermarsi, nelle sue pratiche, fa parte a pieno titolo dell’album di famiglia della borghesia, è espressione organica dei suoi rapporti sociali di produzione, ciò nonostante il revisionismo storico tende a presentare l’orrore del Ventesimo secolo come un qualcosa che irrompe improvvisamente su un mondo di pacifica convivenza. Orrore estraneo alla tradizione della civiltà liberale e alla società borghese. Questa tendenza alla rimozione, mascherare ogni atrocità con i grandi principi della civiltà liberale [12] rientra appieno nell’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti di cui parlava Gramsci. Nella sua banale brutalità, l’articolo di Saviano è a suo modo emblematico dello schieramento di forze mobilitato in difesa del capitalismo agonizzante e di quanto sia però, al contempo, decadente questo estremo tentativo di autodifesa. Se un tempo il liberalismo in crisi poteva avvalersi della difesa d’ufficio di figure come Benedetto Croce oggi si fa scudo con le frasi fatte e ampollose di intellettuali come Roberto Saviano, cos’altro possiamo aggiungere a questo? Antonio Gramsci ha subito da vivo e da morto un’infinità di processi, forse, a differenza di Berlusconi, i reati a lui attribuiti dal bel mondo liberale non cadono mai in prescrizione. Se nel primo processo l’auspicio era «impedire a questa testa di funzionare», nell’ultimo della serie l’imperativo punitivo potrebbe essere “impedire l’utilizzo delle sue idee”, delegittimarle, renderle contraddittorie, anticaglia inservibile. Non ci riuscirono la prima volta, ne siamo sicuri, non ci riusciranno nemmeno adesso.

29 febbraio 2012

 

note

[1] E. Garin, Con Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1997, pag. 48

[2] Per ragioni di spazio non mi posso dilungare oltre e rimando a quanto da me scritto altrove: G. Fresu, Lenin lettore di Marx. Determinismo e dialettica nel movimento operaio, La Città del Sole, Napoli, 2008.

[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 1302.

[4] Ivi, pag. 1319.

[5] Ivi, pp. 1249-1250.

[6] Ivi, pp. 1231, 1232.

[7] Ivi, pag. 333.

[8] R. Saviano, Elogio dei riformisti, «La Repubblica», 28 febbraio 2012.

[9] Ibid.

[10] L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Bari, 2002, pag. 17.

[11] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Bari, 1998, pag. 55.

[12] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005, Bari.

 

Gramsci, dal congresso di Lione ai Quaderni: il partito e l’analisi della società italiana.

Gianni Fresu
Gramsci, dal congresso di Lione ai Quaderni: il partito e l’analisi della società italiana.

Convegno di studi
(1921- 2011) Nodi strategici, continuità e svolte nella storia del PCI
Roma, “La Sapienza”, Facoltà di lettere, 18-19 febbraio 2011.
(Atti in corso di pubblicazione)

Le Tesi di Lione sono state definite l’asse fondamentale di svolta nella storia dei comunisti in Italia, sia in rapporto alla concezione del partito, sia per l’analisi della società. In entrambi i casi si giunge al superamento completo delle Tesi elaborate per il Congresso di Roma, dopo il profondo mutamento nella direzione politica del Partito sotto la guida di Antonio Gramsci.
Prima, durante e dopo il Congresso si confrontarono e scontrarono due idee radicalmente opposte del partito, sinteticamente così riassumibili: su un versante, la visione del parito inteso come parte della classe, vale a dire, un’organizzazione articolata in cellule di fabbrica e innervata dalla formazione permanente di tutti i suoi quadri, che punta a realizzare una direzione/elaborazione diffusa delle stesse classi subalterne; sull’altro versante, il partito inteso come organo esterno alla classe, ossia, un’organizzazione ristretta di dirigenti rivoluzionari, temprati e incorruttibili, in grado di leggere nel quadro economico e sociale le contraddizioni fondamentali da cui far scaturire, al momento opportuno, le cause della detonazione rivoluzionaria .
Nel primo caso abbiamo l’idea di un partito con l’ambizione di aderire organicamente alla struttura produttiva – alla cui base sta una concezione molecolare della rivoluzione, metodologicamente avversa all’idea di una non ben identificata “ora X” – e intende articolare plasticamente la sua attività nell’azione quotidiana dei lavoratori. Nel secondo, un’elaborazione che ritiene lotta economica, per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro, e quella politica per la conquista quotidiana di posizioni di forza nella società, veicoli di mentalità corporativa e di corruzione della purezza rivoluzionaria. Per tale impostazione la connessione tra partito e masse doveva avvenire solo nel momento topico del conflitto di classe.
Il periodo dall’estate del 1925 al Congresso del gennaio 1926 è cruciale per l’evoluzione del pensiero di Gramsci, in relazione al partito, al suo rapporto con le masse, alla funzione svolta in esso dagli intellettuali; un periodo nel quale giungono a completa maturazione le esperienze di direzione e orientamento politico compiute a partire dal 1923. Una fase nella quale la sua analisi si sviluppa fino a indagare in profondità il ruolo svolto nella società italiana dagli intellettuali, quale tessuto connettivo degli assetti sociali dominanti. Già in queste analisi è presente quella ridefinizione del concetto di Stato e di dominio anticipatrice della categoria egemonica. Le riflessioni di Gramsci in questa fase, sono la base essenziale della teoria sugli intellettuali sviluppata poi all’interno della Questione meridionale e delle riflessioni del carcere. Al contempo, essa è il punto d’arrivo di quella precedente e, nel complesso, affonda potentemente le sue radici nell’esperienza «ordinovista».
La piattaforma congressuale della sinistra fu pubblicata sull’«Unità» del 7 luglio del 1925, essa ribadiva su tre assi fondamentali le posizioni già più volte espresse dal suo leader Amadeo Bordiga : 1) il partito andava inteso come organo della classe che sintetizza ed unifica le spinte individuali, in modo da andare oltre il particolarismo di categoria e raccogliere gli elementi provenienti dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori delle classi borghesi; 2) veniva respinta la “bolscevizzazione” – avanzata al V Congresso e riproposta dal «gruppo di centro» guidato da Gramsci – vale a dire la ripartizione organizzativa del partito in cellule su base di fabbrica. 3) veniva stigmatizzata la lotta alle frazioni avviata dal Comintern.
Tale impostazione trovò espressione compiuta nel progetto di Tesi per il Congresso. Secondo Bordiga, era impossibile mutare la sostanza delle situazioni oggettive, riconducibili al quadro più generale dei rapporti sociali di produzione, attraverso una determinata forma organizzativa. Un’organizzazione «immediata di tutti i lavoratori in quanto economicamente tali» sarebbe risultata costantemente dominata dagli impulsi delle diverse categorie professionali a soddisfare i propri interessi economici particolari determinati dallo sfruttamento capitalistico. Da ciò la profonda diffidenza, manifestata già ai tempi della stagione consiliare , verso l’impegno del partito nelle vertenze dei lavoratori. Nello stesso numero del 7 luglio dell’«Unità», Gramsci s’incaricò di stendere una replica estremamente importante. In essa, già si può cogliere appieno la continuità con l’elaborazione degli anni dell’«Ordine Nuovo», sul tema dell’autonomia dei produttori, e trova un primo abbozzo l’idea dell’intellettuale come prodotto autonomo della classe, l’affermazione secondo cui ogni lavoratore entrando nel partito comunista ne diviene un dirigente e dunque un’intellettuale. Il «Comitato d’intesa» concepiva il partito come sintesi di elementi individuali e non come un movimento di massa e di classe, in ciò andava rintracciata la radice della teoria del partito di Bordiga:

In questa concezione c’é una tinta di forte pessimismo verso la capacità degli operai come tali, solo gli intellettuali possono essere uomini politici. Gli operai sono operai e non possono che rimanere tali fino a quando il capitalismo li opprime: sotto l’oppressione capitalistica l’operaio non può svilupparsi completamente, non può uscire dallo spirito angusto di categoria. Che cos’é allora il partito? È solo il ristretto gruppo dei suoi dirigenti che riflettono e sintetizzano gli interessi e le aspirazioni generiche della massa, anche nel partito. La dottrina leninista afferma e dimostra che questa concezione è falsa ed è estremamente pericolosa; essa ha, tra l’altro, portato al fenomeno del mandarinismo sindacale. (…) Gli operai entrano nel partito comunista non soltanto come operai (metallurgici, falegnami, edili, ecc.), ma entrano come operai comunisti, come uomini politici cioè, come teorici del socialismo, quindi, e non solo come ribelli in generale; e col partito, attraverso le discussioni, attraverso le letture e le scuole di partito, si sviluppano continuamente, diventano dirigenti. Solo nel sindacato l’operaio entra nella sua qualità di operaio e non di uomo politico che segue una determinata teoria .

Secondo Gramsci la concezione del partito di Bordiga era ferma alla prima fase dello sviluppo capitalistico, ancora nel 1848 si sarebbe potuto affermare che «il partito è l’organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppo provocati dalla lotta di classe», ma nella fase del maggior sviluppo capitalistico, l’imperialismo, il proletariato era profondamente rivoluzionario, assolveva già una funzione dirigente nella società. Sempre in questo periodo Gramsci scrisse un’Introduzione al primo corso della scuola interna di partito. In essa l’obbiettivo di rinforzare ideologicamente e politicamente i quadri e i militanti, era posto come obbiettivo primario di un partito che intendesse diventare di massa. La formazione era il modo per rendere l’operaio comunista un dirigente e non lasciare la lotta ideologica nelle mani esclusive degli intellettuali borghesi:

L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari”. Servì da prezzemolo a tutte le salse più indigeste che i più imprudenti avventurieri della penna abbiano voluto mettere in vendita. È stato marxista in tal modo Enrico Ferri, Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini… .

In questa introduzione Gramsci contestò esplicitamente, la concezione del partito così come esposta nelle Tesi sulla tattica del Congresso di Roma:

[in esse] La centralizzazione e l’unità erano concepite in modo troppo meccanico: il Comitato centrale, anzi il Comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il partito perderebbe i suoi caratteri politici e distintivi e diventerebbe, nel migliore dei casi, un esercito (e un esercito di tipo borghese), perderebbe cioè la sua forza d’attrazione, si staccherebbe dalle masse. Perché il partito viva e sia a contatto con le masse occorre che ogni membro del partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. (…) La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria .

Il compito di costituire le cellule di fabbrica era per Gramsci un’occasione di autoeducazione della classe operaia; le cellule, da semplice strumento organizzativo, si trasformano in organo principe nella formazione degli intellettuali «organici» della classe operaia, possono contribuire alla determinazione dell’autonomia della classe operaia dall’apporto esterno borghese: «La cellula trasforma ogni membro del partito in un militante attivo assegnando ad ognuno un lavoro pratico e sistematico. Attraverso questo lavoro si crea una nuova classe di dirigenti proletari, legati alla fabbrica, controllati dai compagni di lavoro, in modo cioè da non potersi trasformare in funzionari e mandarini, fenomeno che si verifica in larga parte in tutti i partiti che hanno conservato la vecchia struttura dei partiti socialisti» .
Nella sua relazione alla riunione della Commissione politica per il Congresso Gramsci provò a riassumere i punti di dissenso tra «la centrale del partito» e l’estrema sinistra» in tre livelli di rapporti: tra gruppo dirigente del partito e l’insieme degli iscritti; tra gruppo dirigente e classe operaia; tra classe operaia e resto delle classi subalterne:

La nostra posizione [scrive Gramsci] deriva da ciò che noi riteniamo si debba porre nel massimo rilievo il fatto che il partito è unito alla classe non solo da legami ideologici ma anche da legami di carattere fisico. (…) Secondo la estrema sinistra il processo di formazione del partito è un processo sintetico; per noi è un processo di carattere storico e politico, legato strettamente a tutto lo sviluppo della società capitalistica. La diversa concezione porta a determinare in un modo diverso la funzione e i compiti del partito. Tutto il lavoro che il partito deve compiere per elevare il livello politico delle masse, per convincerle e portarle sul terreno della lotta di classe rivoluzionaria viene, in conseguenza della errata concezione della estrema sinistra, svalutato e ostacolato, per via del distacco iniziale che si è creato tra il partito e la classe operaia .

La questione teorica dell’organizzazione per cellule, poneva in rilievo la necessità di «legami fisici» tra partito e classe nel suo complesso, mentre, nell’affermare la necessità di una «tutela» direttiva da parte del gruppo dirigente «specializzato», Bordiga poneva quale problema assoluto il rischio di corporativismo tra gli operai. Ciò, per Gramsci, lasciava trasparire una concezione paternalistica che svalutava fortemente la capacità di direzione della classe operaia, fino a ridurla a soggetto minorenne incapace di autodeterminazione politica.
Già nel corso del dibattito pre-congressuale, e in misura ancora maggiore al Congresso di Lione, Gramsci poneva la teoria sul partito della sinistra in continuità con tutta la storia degli intellettuali in Italia, con la filosofia crociana e le tradizioni elitarie ed oligarchiche della filosofia politica idealista e liberale. Un concetto poi ripreso nei Quaderni dove Gramsci mise sullo stesso piano l’atteggiamento intellettualistico, da «intellettuale puro», di Bordiga con quello di Croce.

Ciò che importa al Croce è che gli intellettuali non si abbassino al livello della massa, ma capiscano che altro è l’ideologia, strumento pratico per governare, e altro la filosofia e la religione che non deve essere prostituita nella coscienza degli stessi sacerdoti. Gli intellettuali devono essere governanti e non governati, costruttori di ideologie per governare gli altri e non ciarlatani che si lasciano avvelenare e mordere dalle proprie vipere. (…) La posizione di «puro intellettuale» diventa un vero e proprio «giacobinismo» deteriore e in tal senso, mutate le stature intellettuali, Amedeo può essere avvicinato al Croce .

Trattando il tema del rapporto tra la classe operaia e il resto degli sfruttati, e rendendolo pilastro delle tesi congressuali, Gramsci colse appieno il valore strategico attribuito da Lenin alla questione contadina e alla politica delle alleanze . Preparare a fondo la rivoluzione, «conquistare le grandi masse», «avere la simpatia delle masse», era per Lenin necessario se si aveva l’aspirazione non solo di iniziare una rivoluzione ma soprattutto vincerla e conservare il potere: «attrarre a noi non solo la maggioranza della classe operaia, ma anche la maggioranza della popolazione lavoratrice e sfruttata della campagna» . Un tema centrale, in un paese come l’Italia dove il proletariato era una minoranza senza carattere nazionale.
Più precisamente, Gramsci cercò di contestualizzare all’Italia il grande tema dibattuto tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista. In essi, preso atto delle difficoltà internazionali, e della complessità dei processi rivoluzionari in Occidente, Lenin e l’Esecutivo del Comintern lanciarono la parola d’ordine della conquista della maggioranza delle classi subalterne e dell’unità della classe operaia tramite la tattica del «fronte unico», essenziale per la definizione della categoria dell’«egemonia» in Gramsci .
Già nel Congresso di Lione si pongono tre ordini di problemi che finiranno per costituire la spina dorsale dello scritto su La questione meridionale: la questione meridionale intesa come questione contadina; il tema del partito politico della classe contadina; La funzione reazionaria svolta dal Vaticano.
L’atteggiamento verso il fascismo delle Tesi di Roma, e più in generale l’impostazione teorica di Bordiga, la sua tendenza a svalutare le differenze tra quadro democratico e reazionario, erano Gramsci esempi lampanti di un modo errato di concepire la tattica. Come già accennato in apertura, le Tesi di Lione segnano una completa svolta anche sul piano dell’analisi relativa alla società italiana, anticipando molteplici aspetti dell’elaborazione carceraria di Gramsci. Nel periodo di crisi successivo al delitto Matteotti non sarebbe stato sufficiente condurre una campagna di critica ideologica al regime e alle opposizioni, limitarsi a una propaganda capace solo di trattare allo stesso modo i due soggetti, era necessario incalzare le opposizioni ponendole sul terreno del rovesciamento del fascismo, come premessa preliminare a qualsiasi altra azione di comunisti.

È assurdo affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e una situazione reazionaria, e che, in una situazione democratica sia più disagevole il lavoro per la conquista delle masse. La verità è che oggi in una situazione reazionaria si lotta per organizzare il partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe per organizzare la insurrezione .

Quando il fascismo stava sorgendo e sviluppandosi il PCd’I si era limitato a considerarlo un organo di combattimento della borghesia e non anche un movimento sociale, questo non mise il partito nelle condizioni di arginarne l’avanzata e di opporsi alla sua ascesa al potere con un’azione politica appropriata; anzi lo spinse a lavorare contro gli «arditi del popolo», un movimento di massa dal basso che il partito avrebbe dovuto contribuire a sviluppare e dirigere.
Anche l’obiettivo della sconfitta del fascismo andava posto in relazione al problema dell’egemonia della classe operaia verso le masse contadine:

La situazione italiana è caratterizzata dal fatto che la borghesia è organicamente più debole che in altri paesi e si mantiene al potere solo in quanto riesce a controllare e dominare i contadini. Il proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza della borghesia e porli sotto la sua guida politica. Questo è il punto centrale dei problemi politici che il partito dovrà risolvere nel prossimo avvenire .

L’elemento predominante della società italiana era una particolare forma di capitalismo nel quale convivevano un industrialismo ancora debole e incapace di assorbire la maggioranza della popolazione e un’agricoltura, ancora base economica del paese, segnata dalla netta prevalenza di ceti poveri (bracciantato agricolo) molto prossimi alle condizioni del proletariato e perciò potenzialmente sensibili alla sua influenza.
Tra le due classi dominanti – industriali e agrari – si poneva quale elemento di raccordo una media e piccola borghesia urbana abbastanza estesa. La debolezza del modo di produzione in Italia – privo di materie prime – spingeva gli industriali a varie forme di compromesso economico con i grandi latifondisti agrari, basate su «una solidarietà d’interessi» tra ceti di privilegiati a detrimento delle esigenze produttive generali. Anche il processo risorgimentale fu espressione di questa debolezza, perché la costruzione dello Stato nazionale si realizzò grazie allo sfruttamento di particolari fattori di politica internazionale e il suo consolidamento rese necessario quel compromesso sociale che ha reso inoperante in Italia la lotta economica tra industriali e agrari, la rotazione di gruppi dirigenti, tipici di altri paesi capitalistici. Questo compromesso a tutela di uno sfruttamento parassitario delle classi dominanti ha determinato una polarizzazione tra l’accumulo di immense ricchezze in ristretti gruppi sociali e la povertà estrema del resto della popolazione, ha comportato il deficit del bilancio, l’arresto dello sviluppo economico in intere aree del Paese, ha ostacolato una modernizzazione del sistema economico nazionale armonica e calibrata con le caratteristiche della nazione.
Anche i rovesci nella prima parte della guerra mondiale e lo stesso avvento del fascismo sono analizzati nelle Tesi alla luce di questa debolezza originaria dell’Italia, anticipando un canone interpretativo centrale nelle riflessioni sul Risorgimento dei Quaderni. Il compromesso tra industriali e agrari attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord industrializzato era come la metropoli capitalistica per la colonia; le classi dirigenti del Sud (grandi proprietari e media borghesia) svolgevano la stesa funzione delle categorie sociali delle colonie alleate con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al proprio sfruttamento. Tuttavia, nella prospettiva storica, questo sistema di compromesso si rivelò inefficace perché si risolveva in un ostacolo allo sviluppo dell’economia industriale e di quell’agraria. Ciò ha determinato in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse.
Il periodo di maggior debolezza dello Stato italiano si era determinato per Gramsci nel decennio 1870-1890, soprattutto per l’azione svolta dal Vaticano di catalizzatore del blocco reazionario antistatale costituito dai residui di aristocrazia, dagli agrari, dalle popolazioni rurali dirette dai proprietari terrieri e dalle parrocchie. Il Vaticano aveva manifestato di voler operare su due fronti: da un lato esplicitamente contro lo Stato borghese unitario e liberale; dall’altra, nel tentativo di costituire, attraverso i contadini, una sorta di esercito di riserva per sbarrare la strada all’avanzamento del movimento operaio socialista.
L’equilibrio instabile del nuovo Stato, la distanza tra istituzioni e popolo, è uno dei temi fondamentali di indagine dei Quaderni del carcere. Basti pensare, ad esempio, alle note in cui Gramsci si sofferma sulla formula retorica (escogitata dai clericali) che tendeva a contrapporre un’Italia reale, composta dalla maggioranza cattolica avversa al nuovo Stato unitario, a un’Italia legale costituita da una minoranza di esaltati patrioti votati alla causa nazionale e all’idea liberale. Per quanto la formula fosse comparsa in un contesto politico editoriale da «insulso libello da sacrestia», essa era per Gramsci assai efficace dal punto di vista polemico perché indicava bene la separazione esistente tra il nuovo Stato e la società civile. Ovviamente, la società civile non poteva certo essere tutta compresa nel fronte clericale, poiché appariva largamente disomogenea e informe. E proprio per la sua natura disgregata, lo Stato non ebbe difficoltà a dominarla superando le contraddizioni e i conflitti che esplodevano in maniera episodica e localistica, al di fuori di ogni coordinamento sul piano nazionale e tendente a un fine determinato.
Dunque, al di là di una situazione oggettiva di separatezza tra Stato e società, lo stesso clericalismo non poteva considerarsi espressione reale della società civile, sulla quale mostrava difficoltà a esercitare una reale direzione efficace. La Chiesa, in realtà, temeva quelle stesse masse popolari, che pure controllava, perché intravvedeva la possibilità di una loro sollevazione. Anche la formula del «non expedit» era per Gramsci il segno di questa paura e incapacità politica: l’atteggiamento di boicottaggio del nuovo Stato che esso prefigurava risultava alla fine oggettivamente sovversivo. Questo spiega perché, con la crisi di fine secolo e i fatti del 1898, la reazione dello Stato si fosse abbattuta sia verso i primi vagiti di organizzazione socialista, sia verso quella clericale. L’abbandono della politica espressa dalla formula «né elettori, né eletti» da parte del Vaticano, che avrebbe portato prima al Patto Gentiloni e poi alla nascita del Partito popolare ebbe origine dalla constatazione di quel fallimento.
Una vera scissione tra paese reale e paese legale si ha per Gramsci nei fatti che lacerano il paese dall’inizio della crisi Matteotti fino al varo delle leggi fascistissime, quando la scissione tra paese reale e paese legale viene superata attraverso la soppressione dei partiti politici, delle libertà individuali e collettive, e l’inquadramento militare della società civile in un’unica organizzazione politica che faceva coincidere Stato e partito.
Il periodo che va dal 1890 al 1900 è il primo nel quale la borghesia si pone concretamente il problema di organizzare la propria dittatura. È un periodo contrassegnato da una serie di interventi politici e legislativi della svolta protezionista – a favore della grande produzione industriale (in particolare l’industria meccanica) e dell’agricoltura latifondista (grano, riso, mais) – che porta alla denuncia dei trattati commerciali con la Francia, all’ingresso dell’Italia nell’orbita della triplice alleanza a guida tedesca. In questa fase si salda ulteriormente l’asse tra industriali e proprietari terrieri strappando i ceti rurali al controllo del Vaticano in chiave antiunitaria.
Al saldarsi del blocco industriali-agrari corrispondono però i progressi delle organizzazioni operaie e la ribellione delle masse contadine. Nella definizione del fascismo le Tesi raggiungono il loro livello più elevato di analisi e concettualizzazione, introducendo un nuovo modello interpretativo del fenomeno destinato a fare scuola in sede storiografica e non solo all’interno del campo marxista.
Il fascismo rientrava appieno nel quadro tradizionale delle classi dirigenti italiane, esso assumeva la forma della reazione armata con il preciso scopo di scompaginare le fila nelle organizzazioni delle classi subalterne e per questa via garantire la supremazia dei ceti dominanti. Per questa ragione esso al suo comparire è favorito e protetto indistintamente da tutti i vecchi gruppi dirigenti, anche tra di essi sono soprattutto gli agrari a finanziare e lanciare le squadre fasciste contro il movimento dei contadini. La base sociale del fascismo però è composta dalla piccola borghesia urbana e dalla nuova borghesia agraria.
Il fascismo trova una unità ideologica e organizzativa nelle formazioni paramilitari che ereditano la tradizione dell’arditismo e la applicano alla guerriglia contro le organizzazioni dei lavoratori. Per le Tesi, il fascismo attua il suo piano di conquista dello Stato con una «mentalità di capitalismo nascente» in grado di fornire alla piccola borghesia un’omogeneità ideologica in contrapposizione con i vecchi gruppi dirigenti.

Nella sostanza il fascismo modifica il programma della conservazione e di reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte più decisamente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari .

Tuttavia, il metodo fascista di difesa dell’ordine, della proprietà e dello Stato non riesce a realizzare, immediatamente e totalmente, questo livello di centralizzazione della borghesia con la presa del potere. Anzi la traduzione politica ed economica dei suoi propositi produce varie forme di resistenza all’interno delle stesse classi dirigenti. I due tradizionali orientamenti della borghesia liberale italiana, quello riconducibile al giolittismo e quello riconducibile al «Corriere della Sera», non vengono subito assorbiti o piegati dalla presa del potere di Mussolini. In tal senso si spiega la lotta contro i gruppi superstiti della borghesia liberale e contro la massoneria, vale a dire contro il suo principale centro di attrazione e organizzazione in sostegno dello Stato.
Sul piano economico il fascismo agisce a totale vantaggio delle grandi oligarchie industriali ed agrarie disattendendo le aspirazioni della sua stessa base sociale, la piccola borghesia, che dall’avvento del fascismo sperava di trarre un avanzamento nelle condizioni sociali ed economiche. Ciò avviene sul piano delle politiche commerciali, con l’inasprimento del protezionismo doganale, su quello finanziario, con la centralizzazione del sistema del credito a beneficio della grande industria, così come sul versante della produzione, con un aumento delle ore di lavoro e la diminuzione delle retribuzioni. Ma il vero punto di approdo del fascismo si ha nella politica estera e nelle aspirazioni imperialistiche, rispetto alle quali le Tesi avanzano un’idea che si concretizzerà quattordici anni appresso.

Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell’azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all’imperialismo. Questa tendenza è l’espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l’espansione italiana ma nella quale in realtà l’Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialistici che si contendono il dominio de mondo .

Le Tesi di Lione rappresentano la consacrazione del «nuovo corso» nel PCI e in esso del gruppo dirigente guidato da Gramsci, nato attorno all’«Ordine Nuovo» nei tumultuosi anni del dopoguerra; in esse si ha la saldatura della nuova prospettiva politica con il percorso politico intellettuale del vecchio gruppo torinese. La svolta di Lione costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza quanto nella fase successiva alla liberazione.
L’indicazione lanciata dai Congressi dell’Internazionale, costruire dei partiti di massa radicati nei luoghi di lavoro attraverso le cellule di fabbrica (la cosiddetta bolscevizzazione), è raccolta e sviluppata dal vecchio gruppo «ordinovista» attraverso la rielaborazione dei temi forti emersi nel «biennio rosso» dall’esperienza del movimento consiliare, alla quale del resto le Tesi fanno esplicito riferimento:

La pratica del movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e inferiori della massa lavoratrice e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di aristocrazia operaia. La organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno strato assai vasto di elementi organizzativi (segretari di cellula, membri dei comitati di cellula, ecc.), i quali sono parte della massa e rimangono in essa pure esercitando funzioni direttive, a differenza dei segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità elementi staccati dalla massa lavoratrice .

In questa definizione trovava piena e compiuta collocazione il tema del rapporto tra dirigenti e diretti, tra intellettuali e masse, secondo i termini classici dell’elaborazione gramsciana. Per Gramsci, nello scontro interno al partito, la distinzione tra i due diversi modi di intendere la rivoluzione era netta: da una parte le masse sono considerate massa di manovra, strumenti della rivoluzione; dall’altra le si intende soggetto protagonista e cosciente di essa. Nei Quaderni questo argomento è ampiamente svolto proprio a partire dalle considerazioni sul partito politico, lo strumento attraverso il quale il rapporto di rappresentanza dovrebbe superare la sua condizione di delega passiva caratteristica della società borghese. In realtà esso ha finito per convertirsi in luogo di occupazione e gestione oligarchica dei centri di potere e di perpetuazione esclusiva delle sue funzioni dirigenti. Per Gramsci il rapporto governanti governati è conseguente alla divisione del lavoro, alla distinzione tra funzioni intellettuali e manuali: «ogni uomo è un filosofo», è l’organizzazione tecnica a farne un diretto e non un dirigente, pertanto se lo scopo principale di un partito consiste nel formare dirigenti il suo dato di partenza deve risiedere nel non ritenere naturale e immodificabile quella distinzione. Il problema dell’assenza di un rapporto organico di rappresentanza in politica non riguardava dunque solo i partiti di élite della tradizione liberale, dove la funzione di direzione era esercitata unilateralmente da uomini di cultura, ma anche i cosiddetti partiti di massa del movimento operaio. Se le masse in un partito non hanno altra funzione al di là della fedeltà militare verso i gruppi dirigenti il rapporto dualistico è esattamente lo stesso: la massa è semplicemente di manovra e viene occupata con prediche morali, con pungoli messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate». Il supermento del «cadornismo» doveva pertanto avvenire attraverso il sostituirsi nella funzione direttiva di organismi politici collettivi e diffusi ai singoli individui, ai «capi carismatici», fino a sconvolgere i vecchi schemi «naturalistici» dell’arte politica. L’antidoto al «capo carismatico», tema questo di grandissima attualità, doveva essere l’intellettuale collettivo, il ruolo protagonistico e non delegato delle classi subalterne. Un partito serio, non l’espressione arbitraria di individualismi, deve essere portatore di qualcosa di simile allo spirito statale, un sentimento di appartenenza che lega il presente e il futuro con la tradizione e rende i suoi cittadini solidali con l’azione storica delle forze spirituali e materiali nazionali. Allo stesso modo deve esistere uno spirito di partito, un senso di responsabilità generale, da non confondere con la «boria di partito». Rispetto a tutti questi temi le Tesi di Lione rappresentanto uno spartiacque essenziale, sicuramente il punto più alto nel quale l’elaborazione teorica e la direzione politica di Gramsci trovano un punto d’intesa elevatissimo. Nella biografia di Gramsci sono un punto di continuità tra le battaglie pre 1926 e le riflessioni carcerarie, la testimonianza più vivida di quanto sia impossibile separare il Gramsci politico e militante dal “disinteressato” «uomo di cultura» tanto caro alle recenti vulgate di molti studiosi, forse eccessivamente disinvolti nel servirsi della sua biografia per perseguire fini ben diversi dalle sbandierate esigenze di ricerca scientifica.