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Presentazione del libro “Il mondo che ho vissuto” di Umberto Cardia

Gianni Fresu, recensione a:

Il mondo che ho vissuto, di Umberto Cardia, a cura di Giuseppe Marci, prefazione di Joseph Buttigieg, Cuec, Cagliari, 2010.


La prima considerazione generale che mi viene da fare dopo la lettura di questo libro è sulla sua assoluta godibilità. Umberto Cardia – uno dei più importanti dirigenti sardi del PCI nel dopoguerra, giornalista, colto studioso dell’opera di Antonio Gramsci e di storia della Sardegna – è una figura di tale rilievo politico e intellettuale da suscitare in chi scrive un fin troppo ovvio interesse di ricerca, tuttavia, credo che questa autobiografia possa risultare una bella lettura anche per chi non necessariamente si occupa di storia e di politica. Non sono un esperto di letteratura, ma ho apprezzato particolarmente il ritmo attraverso cui Cardia ha narrato la sua esistenza e il mondo che ha vissuto, dalla nascita sino alla chiamata alle armi nel ’41. Tra le righe di questo manoscritto ci sono delle bellissime pagine su una Sardegna che ovviamente non c’è più, c’è la nostalgia per quei luoghi indissolubilmente associati ai ricordi familiari, in una progressione dolce dall’infanzia, all’adolescenza fino al primo ingresso nel mondo degli adulti. Pagine vivide, come quelle nelle quali descrive il peregrinare da Tortolì a Bosa, fino a Cagliari, nella casa di via Leopardi, sita allora «al limite estremo della città, nel rione di San Benedetto, oltre il quale limite si estendevano i campi e gli orti e si intravvedevano, tra le palme ed il luccicare degli stagni, i profili incerti degli abitanti delle nuove frazioni, annesse dal regime alla città e, nello sfondo, le creste dei monti dei Sette fratelli»1. Descrizioni mai didascaliche, semmai intrise di storia e di consapevolezza sulla importanza di tante, grandi e piccole, manifestazioni del quotidiano che ad un occhio distratto possono apparire trascurabili e addirittura insignificanti, ma che invece assumono un senso generale proprio in rapporto alla storia del mondo, «grande complicato e terribile», che contemporaneamente alla nostra vita scorre con le sue scadenze inesorabili. La seconda considerazione riguarda invece i due ambiti nei quali si compone e si sviluppa la vita di Cardia, che inevitabilmente occupano anche le riflessioni principali di queste pagine.

 


Il primo è ovviamente l’amore per la politica, intesa non come promozione di sé e strumento funzionale alla propria scalata sociale, ma profondo impegno civile teso al riscatto di una realtà che a pronunciarla oggi, con il clima politico culturale che si è venuto a creare, sembra quasi una bestemmia: quella delle classi subalterne; di coloro che non hanno altra ricchezza al di fuori della propria forza lavoro, che subiscono, attraverso lo sfruttamento e l’assoggettamento, tutti gli effetti più negativi delle svolte storiche, siano esse di crescita o di «crisi organica», come quella che viviamo oggi. L’impegno civile che ha contraddistinto l’esistenza di Cardia e con lui di intere generazioni che vissero il baratro del fascismo, l’impegno per la liberazione del Paese, l’entusiasmo per la sua ricostruzione su basi completamente diverse, appare purtroppo merce rara e lontana nel tempo, dunque inattuale per i comportameti prevalenti dell’oggi eppure attualissimo per le esigenze reali che la società necessiterebbe. Penso a Cardia e con lui a tanti suoi maestri e compagni di avventura, con tutte le asprezze caratteriali che ogni personalità si portava dietro, in quel laboratorio di teoria e prassi che fu il PCI sardo nel dopoguerra. Penso, solo per citarne alcune, a figure come Velio Spano, Renzo Laconi, Giovanni Lai, Ignazio Pirastu, Girolamo Sotgiu, Enrico Berlinguer. Penso ovviamente a un grande giornalista e uomo di impegno politico-culturale a tutto tondo come Giuseppe Podda, a quanto interesse avrebbe avuto per questa pubblicazione, a quanti aneddoti avrebbe potuto raccontarci, lui, che con Cardia ebbe modo di condividere lavoro, riflessioni, battaglie, grandi vittorie e altrettanto grandi delusioni.

Il secondo ambito riguarda invece l’amore per la Sardegna, la sua storia, le sue tradizioni, una passione «senza complicazioni psicologiche», non provinciale, non protesa alla lamentazione vittimista che, spesso, in tante narrazioni, riconduce ogni male della nostra Isola alla sua misconosciuta dimensione nazionale, al colonialismo, al dominio straniero, dunque a cause sempre esterne da sé. Una storia con i suoi limiti e i suoi tesori, né da mitizzare né da misconoscere, a cui andava restituita la sua importanza con una prospettiva di apertura verso il resto dell’Italia, dell’Europa e del mondo.

Entrambi questi ambiti, nel loro emergere, svilupparsi e consolidarsi, sono indissolubilmente intrecciati all’influenza, alla centralità, di un’altra figura intellettuale che più di ogni altra ha segnato l’esistenza di Cardia, quella di Antonio Gramsci. Il grande intellettuale sardo, per Cardia, non era semplice oggetto di venerazione liturgica e iconografica, ma un potentissimo stimolo, una ricca cassetta degli attrezzi che gli forniva strumenti sempre nuovi per indagare il passato, comprendere il presente e possibilmente costruire un futuro che fosse migliore di entrambi. Le pagine di questo manoscritto, così come tutte le altre pubblicazioni di Cardia, sono intrise di pensiero gramsciano: nel lessico, nelle categorie adoperate, nel rigore ed insieme nel disincanto con cui si affrontano, senza indulgenze, limiti e responsabilità soggettive non solo del proprio avversario ma anche del campo politico e ideologico in cui si milita. Cio vale per l’impegno politico, per l’amore verso la Sardegna e la sua storia, nell’intreccio indissolubile con cui questi due ambiti non risultano separati ma tra loro organicamente connessi. In tal senso l’approccio alla storia della Sardegna di Cardia si nutre delle tante intuizioni presenti nell’opera e nelle esperienze politico esistenziali di Gramsci, ne La questione meridionale, nelle lettere, nelle note dei Quaderni del Carcere. A partire dalla sua ribellione verso una tendenza, consolidatasi persino nel movimento operaio socialista, a ricondurre ogni male del Mezzogiorno e delle Isole non a problemi di sviluppo diseguale prima, durante e dopo l’Unità d’Italia, dunque a ragioni economiche e politiche che andavano ricercate con serietà nell’indagine storica, ma all’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita, delle sue popolazioni, congenitamente infette dal «lazzaronismo napoletano». L’Italia si divideva in «nordici e sudici» e anche gli alti indici della criminalità in Sardegna, marchiata nelle farneticazioni dell’antropologia criminale di Niceforo come «zona delinquente», erano dunque riconducibili alla prevalenza nel suo sangue della stirpe euroafricana, ad un arresto nel processo evolutivo di quella specie per la cui dimostrazione si andava a caccia di crani da misurare.

L’esortazione di Gramsci a concentrarsi sullo studio delle specifiche peculiarità del contesto in cui si operava, le concrete «formazioni economico-sociali», piuttosto che discutere in generale di capitalismo o rivoluzione, l’indicazione a «compiere una ricognizione nazionale degli elementi di trincea», se si voleva comprendere con l’egemonia la conformazione degli assetti di dominio di una società, sono alla base delle riflessioni storiche di Cardia sulla Sardegna. In tal senso, anche il ribellismo endemico, seppur disorganico, primordiale e privo di prospettiva politica, della storia dei subalterni in Sardegna, è alla base delle riflessioni su una questione sarda nella quale anche il fenomeno del banditismo e delle improvvisate forme di moto popolare è degna di attenzione sia scientifica che politica. Cardia quando se ne occupa utilizza espressamente uno dei concetti più pregnanti dei quaderni che valgono come preliminare chiave di accesso per comprendere il suo approccio alla questione sarda: «la storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica, nella loro attività c’è la tendenza sia pure su piani provvisori all’unificazione, ma tale tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti»2. Da ciò l’esortazione allo «storico integrale» a «cogliere il valore inestimabile di ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni», che proprio perché episodica e disgregata risulta molto più difficile da rinvenire rispetto alla storia delle classi dirigenti. In questo senso Cardia concepiva il riscatto del popolo sardo non entro la mera rivendicazione della propria indipendenza nazionale, ma attraverso la piena acquisizione della sua «autonomia integrale», storica e culturale. Il concetto di autonomia integrale in Gramsci è strettamente legato a quello di «spirito di scissione» da parte dei subalterni nei confronti delle classi dirigenti e di quel che esse rappresentavano non solo sul piano dei rapporti sociali di produzione ma anche sul versante culturale e civile. Tradotto, per Cardia senza riscatto delle masse popolari nessuna indipenenza nazionale avrebbe potuto realizzare la soluzione della questione sarda e il superamento dei suoi mali storici. È un tema di incredibile attualità, ancora oggi al centro del dibattito politico culturale sardo, che Cardia affronta con una chiarezza espositiva e una lucidità analitica a cui mi affido per concludere nel modo migliore questa recensione con un brano che contiene in sé, forse, il suo più fecondo lascito politico:

Io non voglio, qui, riassumerne i termini politici, riproporre le ragioni e i connotati di quella che ho chiamato, atrove, “autonomia integrale”, traendo l’espressione da Gramsci, laddove parla dei problemi della subalternità e del suo superamento. Solo una autonomia più forte, nel senso giuridico-istituzionale e politico della espressione, può consentirci di signoreggiare i processi della triplice integrazione: italiana, europea, mondiale. Il separatismo e l’indipendentismo, che covano, e sia pure in un angolo, sotto la cenere dell’antico sovversvismo antistatale (e anti-continentale) dei sardi, e che oggi sembrano costituire oggetti di attenta riflessione (…), non costituiscono alcuna soluzione dei nostri problemi. La permanenza della Sardegna nel sistema istituzionale italiano ed europeo (a qualunque cosa approdi il processo della unificazione europea) mi sembra, oggi come nel passato, fuori discussione3.

1 Umberto Cardia, Il mondo che ho vissuto, Cuec, Cagliari, 2010, pag. 82.

2 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 2283.

3U. Cardia, Il mondo che Ho vissuto. Cit. pp. 47, 28.

Gianni Fresu, recensione a: Il mondo che ho vissuto, di Umberto Cardia, a cura di Giuseppe Marci, prefazione di Joseph Buttigieg, Cuec, Cagliari, 2010.

La prima considerazione generale che mi viene da fare dopo la lettura di questo libro è sulla sua assoluta godibilità. Umberto Cardia – uno dei più importanti dirigenti sardi del PCI nel dopoguerra, giornalista, colto studioso dell’opera di Antonio Gramsci e di storia della Sardegna – è una figura di tale rilievo politico e intellettuale da suscitare in chi scrive un fin troppo ovvio interesse di ricerca, tuttavia, credo che questa autobiografia possa risultare una bella lettura anche per chi non necessariamente si occupa di storia e di politica. Non sono un esperto di letteratura, ma ho apprezzato particolarmente il ritmo attraverso cui Cardia ha narrato la sua esistenza e il mondo che ha vissuto, dalla nascita sino alla chiamata alle armi nel ’41. Tra le righe di questo manoscritto ci sono delle bellissime pagine su una Sardegna che ovviamente non c’è più, c’è la nostalgia per quei luoghi indissolubilmente associati ai ricordi familiari, in una progressione dolce dall’infanzia, all’adolescenza fino al primo ingresso nel mondo degli adulti. Pagine vivide, come quelle nelle quali descrive il peregrinare da Tortolì a Bosa, fino a Cagliari, nella casa di via Leopardi, sita allora «al limite estremo della città, nel rione di San Benedetto, oltre il quale limite si estendevano i campi e gli orti e si intravvedevano, tra le palme ed il luccicare degli stagni, i profili incerti degli abitanti delle nuove frazioni, annesse dal regime alla città e, nello sfondo, le creste dei monti dei Sette fratelli»1. Descrizioni mai didascaliche, semmai intrise di storia e di consapevolezza sulla importanza di tante, grandi e piccole, manifestazioni del quotidiano che ad un occhio distratto possono apparire trascurabili e addirittura insignificanti, ma che invece assumono un senso generale proprio in rapporto alla storia del mondo, «grande complicato e terribile», che contemporaneamente alla nostra vita scorre con le sue scadenze inesorabili. La seconda considerazione riguarda invece i due ambiti nei quali si compone e si sviluppa la vita di Cardia, che inevitabilmente occupano anche le riflessioni principali di queste pagine.

Il primo è ovviamente l’amore per la politica, intesa non come promozione di sé e strumento funzionale alla propria scalata sociale, ma profondo impegno civile teso al riscatto di una realtà che a pronunciarla oggi, con il clima politico culturale che si è venuto a creare, sembra quasi una bestemmia: quella delle classi subalterne; di coloro che non hanno altra ricchezza al di fuori della propria forza lavoro, che subiscono, attraverso lo sfruttamento e l’assoggettamento, tutti gli effetti più negativi delle svolte storiche, siano esse di crescita o di «crisi organica», come quella che viviamo oggi. L’impegno civile che ha contraddistinto l’esistenza di Cardia e con lui di intere generazioni che vissero il baratro del fascismo, l’impegno per la liberazione del Paese, l’entusiasmo per la sua ricostruzione su basi completamente diverse, appare purtroppo merce rara e lontana nel tempo, dunque inattuale per i comportameti prevalenti dell’oggi eppure attualissimo per le esigenze reali che la società necessiterebbe. Penso a Cardia e con lui a tanti suoi maestri e compagni di avventura, con tutte le asprezze caratteriali che ogni personalità si portava dietro, in quel laboratorio di teoria e prassi che fu il PCI sardo nel dopoguerra. Penso, solo per citarne alcune, a figure come Velio Spano, Renzo Laconi, Giovanni Lai, Ignazio Pirastu, Girolamo Sotgiu, Enrico Berlinguer. Penso ovviamente a un grande giornalista e uomo di impegno politico-culturale a tutto tondo come Giuseppe Podda, a quanto interesse avrebbe avuto per questa pubblicazione, a quanti aneddoti avrebbe potuto raccontarci, lui, che con Cardia ebbe modo di condividere lavoro, riflessioni, battaglie, grandi vittorie e altrettanto grandi delusioni.

Il secondo ambito riguarda invece l’amore per la Sardegna, la sua storia, le sue tradizioni, una passione «senza complicazioni psicologiche», non provinciale, non protesa alla lamentazione vittimista che, spesso, in tante narrazioni, riconduce ogni male della nostra Isola alla sua misconosciuta dimensione nazionale, al colonialismo, al dominio straniero, dunque a cause sempre esterne da sé. Una storia con i suoi limiti e i suoi tesori, né da mitizzare né da misconoscere, a cui andava restituita la sua importanza con una prospettiva di apertura verso il resto dell’Italia, dell’Europa e del mondo.

Entrambi questi ambiti, nel loro emergere, svilupparsi e consolidarsi, sono indissolubilmente intrecciati all’influenza, alla centralità, di un’altra figura intellettuale che più di ogni altra ha segnato l’esistenza di Cardia, quella di Antonio Gramsci. Il grande intellettuale sardo, per Cardia, non era semplice oggetto di venerazione liturgica e iconografica, ma un potentissimo stimolo, una ricca cassetta degli attrezzi che gli forniva strumenti sempre nuovi per indagare il passato, comprendere il presente e possibilmente costruire un futuro che fosse migliore di entrambi. Le pagine di questo manoscritto, così come tutte le altre pubblicazioni di Cardia, sono intrise di pensiero gramsciano: nel lessico, nelle categorie adoperate, nel rigore ed insieme nel disincanto con cui si affrontano, senza indulgenze, limiti e responsabilità soggettive non solo del proprio avversario ma anche del campo politico e ideologico in cui si milita. Cio vale per l’impegno politico, per l’amore verso la Sardegna e la sua storia, nell’intreccio indissolubile con cui questi due ambiti non risultano separati ma tra loro organicamente connessi. In tal senso l’approccio alla storia della Sardegna di Cardia si nutre delle tante intuizioni presenti nell’opera e nelle esperienze politico esistenziali di Gramsci, ne La questione meridionale, nelle lettere, nelle note dei Quaderni del Carcere. A partire dalla sua ribellione verso una tendenza, consolidatasi persino nel movimento operaio socialista, a ricondurre ogni male del Mezzogiorno e delle Isole non a problemi di sviluppo diseguale prima, durante e dopo l’Unità d’Italia, dunque a ragioni economiche e politiche che andavano ricercate con serietà nell’indagine storica, ma all’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita, delle sue popolazioni, congenitamente infette dal «lazzaronismo napoletano». L’Italia si divideva in «nordici e sudici» e anche gli alti indici della criminalità in Sardegna, marchiata nelle farneticazioni dell’antropologia criminale di Niceforo come «zona delinquente», erano dunque riconducibili alla prevalenza nel suo sangue della stirpe euroafricana, ad un arresto nel processo evolutivo di quella specie per la cui dimostrazione si andava a caccia di crani da misurare.

L’esortazione di Gramsci a concentrarsi sullo studio delle specifiche peculiarità del contesto in cui si operava, le concrete «formazioni economico-sociali», piuttosto che discutere in generale di capitalismo o rivoluzione, l’indicazione a «compiere una ricognizione nazionale degli elementi di trincea», se si voleva comprendere con l’egemonia la conformazione degli assetti di dominio di una società, sono alla base delle riflessioni storiche di Cardia sulla Sardegna. In tal senso, anche il ribellismo endemico, seppur disorganico, primordiale e privo di prospettiva politica, della storia dei subalterni in Sardegna, è alla base delle riflessioni su una questione sarda nella quale anche il fenomeno del banditismo e delle improvvisate forme di moto popolare è degna di attenzione sia scientifica che politica. Cardia quando se ne occupa utilizza espressamente uno dei concetti più pregnanti dei quaderni che valgono come preliminare chiave di accesso per comprendere il suo approccio alla questione sarda: «la storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica, nella loro attività c’è la tendenza sia pure su piani provvisori all’unificazione, ma tale tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti»2. Da ciò l’esortazione allo «storico integrale» a «cogliere il valore inestimabile di ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni», che proprio perché episodica e disgregata risulta molto più difficile da rinvenire rispetto alla storia delle classi dirigenti. In questo senso Cardia concepiva il riscatto del popolo sardo non entro la mera rivendicazione della propria indipendenza nazionale, ma attraverso la piena acquisizione della sua «autonomia integrale», storica e culturale. Il concetto di autonomia integrale in Gramsci è strettamente legato a quello di «spirito di scissione» da parte dei subalterni nei confronti delle classi dirigenti e di quel che esse rappresentavano non solo sul piano dei rapporti sociali di produzione ma anche sul versante culturale e civile. Tradotto, per Cardia senza riscatto delle masse popolari nessuna indipenenza nazionale avrebbe potuto realizzare la soluzione della questione sarda e il superamento dei suoi mali storici. È un tema di incredibile attualità, ancora oggi al centro del dibattito politico culturale sardo, che Cardia affronta con una chiarezza espositiva e una lucidità analitica a cui mi affido per concludere nel modo migliore questa recensione con un brano che contiene in sé, forse, il suo più fecondo lascito politico:

Io non voglio, qui, riassumerne i termini politici, riproporre le ragioni e i connotati di quella che ho chiamato, atrove, “autonomia integrale”, traendo l’espressione da Gramsci, laddove parla dei problemi della subalternità e del suo superamento. Solo una autonomia più forte, nel senso giuridico-istituzionale e politico della espressione, può consentirci di signoreggiare i processi della triplice integrazione: italiana, europea, mondiale. Il separatismo e l’indipendentismo, che covano, e sia pure in un angolo, sotto la cenere dell’antico sovversvismo antistatale (e anti-continentale) dei sardi, e che oggi sembrano costituire oggetti di attenta riflessione (…), non costituiscono alcuna soluzione dei nostri problemi. La permanenza della Sardegna nel sistema istituzionale italiano ed europeo (a qualunque cosa approdi il processo della unificazione europea) mi sembra, oggi come nel passato, fuori discussione3.

1 Umberto Cardia, Il mondo che ho vissuto, Cuec, Cagliari, 2010, pag. 82.

2 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 2283.

3U. Cardia, Il mondo che Ho vissuto. Cit. pp. 47, 28.

 

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.