“I ladri di Pisa”.


“I ladri di Pisa”.

 

Ovvero:

come far finta di aprire una durissima vertenza con il governo nazionale per poi continuare a governare la regione sotto il suo rassicurante ombrello.

 

In merito al famigerato ordine del giorno (n. 79, approvato dal Consiglio Regionale il 21 marzo, primo firmatario Giacomo Sanna), la prima reazione spontanea, vista la credibilità dei soggetti proponenti, è stata una sonora risata. Tuttavia, al di là di fin troppo semplici battute, quest’ordine del giorno è in sé preoccupante per la faciloneria con cui si imbocca una strada vischiosissima solo per avere spazio sui giornali e smarcarsi giusto in tempo per il certificato di verginità pre-elettorale. Spararla così grossa serve solo a depotenziare il significato degli strappi istituzionali e ad assuefare i cittadini a una politica fatta di annunci sensazionali cui non seguono mai fatti concreti. Una tendenza tipica del vecchio massimalismo socialista: nel Congresso del PSI del 1919 (l’apoteosi storica del massimalismo parolaio) vennero proposti al voto degli ordini del giorno che predisponevano la rivoluzione per la domenica successiva all’assise. Ecco, quella mi sembra la strada intrapresa oggi dal Consiglio regionale sardo.

 

Le parole sono importanti, e temo ci sia o incoscienza sul significato di quelle adoperate o, peggio, una consapevole strumentalità per nulla corrispondente a quel che sino ad oggi questi signori hanno fatto e, soprattutto, a quel che realmente intendono fare ora. L’ordine del giorno (patacca) testualmente recita:  “Verifica dei rapporti di lealtà istituzionale sociale e civile con lo Stato che dovrebbero essere a fondamento della presenza e della permanenza della Regione nella Repubblica italiana”. Senza giri di parole ritengo che se la Lega avesse fatto approvare un dispositivo analogo in tanti avrebbero gridato allo scandalo. Fino a prova contraria, in un quadro costituzionale come il nostro, non è ipotizzabile alcuna verifica della “presenza e permanenza di una regione nella Repubblica italiana”. Anche il più somaro tra gli studenti di diritto costituzionale sa che l’Unità e indivisibilità della Repubblica, come del resto la forma repubblicana dell’ordinamento, sono principi non soggetti a sindacato, transazione o modifica.

 

L’unica strada sarebbe, assolutamente legittima per carità, quella della secessione (con annessi e connessi). Ma se così fosse, tendenzialmente, mi verrebbe naturale nutrire qualche diffidenza sulla buona fede dei primi firmatari di questo Odg. Detta più brutalmente, se proprio dovessi dar credito a una prospettiva di quel tipo mi volgerei ad altri soggetti politici da sempre e con coerenza impegnati in quella lotta, non certo a chi fino ad ora ha esercitato e continua a esercitare ben altro ruolo nella dialettica Stato-Regione. Dietro quest’operazione mi sembra ci sia una gran voglia di spostarsi dal palazzo alla viglia del suo crollo, dopo averlo edificato con tanto impegno e amore (mattone per mattone), dando ovviamente la responsabilità del collasso ad altri. E’ chiaro, i governi Berlusconi, Prodi e Monti hanno una buona fetta di colpevolezza, forse la gran parte, per la condizione in cui versa la Sardegna, ma questo non cancella due dati che a me sembrano dolosamente nascosti sotto il tappeto:

 

1)   I governi nazionali hanno potuto operare in un determinato modo perché sostenuti dalle classi dirigenti sarde, compresi i firmatari di questo Odg (patacca);

 

2) Le dolose responsabilità dei governi nazionali sono ampiamente compensate da quelle dei governi regionali, primo tra tutti, quello tutt’ora in sella che i principali proponenti dell’Ordine del giorno si guardano bene dal disarcionare.

 

Per quanto riguarda il dibattito a sinistra, il vero punto politico è aver dato sponda proprio alle forze politiche maggiormente responsabili del disastro sardo che, incuranti del proprio fallimento, cercano ora di scaricare le loro responsabilità sul governo nazionale e su rapporti di forza (Stato-Regione) fino a oggi sostenuti. Il discorso sarebbe stato diverso se i proponenti della maggioranza avessero legato all’ordine del giorno alcuni atti politici in grado di aprire realmente una vertenza durissima Stato-Regione: 1) staccare la spina al Governo Cappellacci; 2) dimettersi dai ruoli in Giunta e nelle Commissioni; 3) proporre le dimissioni dell’intero Consiglio regionale (e magari anche delle amministrazioni locali). Si è invece preferita la strada più semplice (quella che non fa perdere i “benefici” del ruolo istituzionale ricoperto) lasciando credere che (da questo momento!) la Regione Autonoma della Sardegna era pronta a intraprendere un percorso tanto grave da ridiscutere la propia appartenenza allo Stato italiano (nientepopodimenoche!). Detta brutalmente, mi sembra l’ennesima operazione politicista con cui si prendono per i fondelli i sardi, fare come “i ladri di Pisa” del famoso adagio popolare toscano, quelli che di giorno litigano e la notte vanno insieme a rubare

 

 

 

 

Sulle ceneri di Gramsci il ridicolo balletto dei soliti revisionisti (“La Nuova Sardegna”, 11-3-2012)

Sulle ceneri di Gramsci il ridicolo balletto dei soliti revisionisti,
“La Nuova Sardegna”, 11-3-2012

di Gianni Fresu
Ci risiamo: sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo alla storia del Pci. La bibliografia su un Gramsci tormentato e proteso a un approdo liberale o socialdemocratico è ampia. A questa si aggiungono altre tesi, sempre di taglio scandalistico, mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile eppure ambite dalle «grandi» testate giornalistiche e dai programmi tv di divulgazione storica. Le richiamo per sommi capi: 1) Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di Gramsci) agenti del Kgb assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3) Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di morte dell’intellettuale sardo.  Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano sulla rilettura forzata di carteggi, necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive, mai suffragate sul piano documentale; su letture parziali degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di documenti. Tutti ricordiamo la famosa lettera di Togliatti sugli alpini prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro da Franco Andreucci.  È strano, mentre in America, Asia e Africa alle categorie gramsciane sono dedicate pubblicazioni monografiche e persino corsi di laurea specialistica, in Italia si preferisce puntare al sensazionale, mostrare l’intima debolezza o il ravvedimento pentito del suo pensiero. Non sfuggono a quest’esigenza neanche «I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista» (Donzelli) di Franco Lo Piparo e «Gramsci e Turati, le due sinistre» (Rubettino Editore) di Alessandro Orsini, che ha entusiasmato tanto Roberto Saviano da spingerlo a scrivere un «Elogio dei riformisti» per «La Repubblica» del 28 febbraio scorso.  Nel caso di Lo Piapro abbiamo l’ennesimo tentativo, di presentare Gramsci come un recluso nelle carceri del Pci e del Pcus, non in quelle del regime fascista, costretto in una cella le cui chiavi erano in mano a Togliatti e non a Mussolini. Oltre a questo, nel saggio di Lo Piparo si cerca nuovamente di usare alcune pagine dei «Quaderni», omettendone volutamente altre, per dimostrare la svolta liberale di Gramsci. All’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica dell’intellettuale sardo nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive all’arresto, così come quella impegnata a distinguere il politico dal «pensatore disinteressato». In realtà, in Gramsci, la lettura analitica s’intreccia strettamente alla battaglia politica e la distinzione delle due fasi può essere riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della prima e nella maggiore libertà analitica, appunto «für ewig», delle riflessioni carcerarie. Tuttavia, tra esse la continuità concettuale è evidente e documentabile. Tra le pagine dei «Quaderni del carcere» e negli abusatissimi concetti di «egemonia» e «guerra di posizione», sono state ricercate le prove della «frattura» per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità assoluta, con il «demone del Novecento». A tal fine, queste riletture evitano accuratamente di fare i conti con le pagine nelle quali Gramsci studia e valorizza al massimo proprio Lenin come un teorico dell’egemonia. Così, anche Lo Piparo fa di tutto per non leggere le note a Lenin dedicate, per poi definire i «Quaderni» «un’opera di profilo crociano», una sorta di «ripensamento filosofico» di Gramsci nella sua transizione dal comunismo al liberalismo. Nei «Quaderni» Gramsci riconosce sicuramente a Benedetto Croce una grandissima statura intellettuale, e degli indubbi meriti filosofici, ma al contempo ne contesta radicalmente il profilo sociale e politico, mettendo persino in dubbio la buona fede del filosofo liberale.  Per quanto riguarda invece il saggio di Orsini, oggetto dell’entusiastica recensione di Roberto Saviano, abbiamo la comparazione tra alcune pagine degli articoli giovanili più polemici e immediatamente legati alla quotidiana lotta politica di Gramsci e quelli più «aulici» e riflessivi di Filippo Turati. Così commenta Saviano: «L’idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli». Gramsci per Saviano condisce con la volgarità la sua insopprimibile tendenza all’intoleranza: «Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato». Saviano forse dimentica, non sa, o magari non vuol ricordare, che a esaltare e salutare positivamente non un cazzotto, ma la «pioggia di pugni» riservati dal nascente movimento fascista verso il sovversivismo di operai e contadini riottosi fu il campione del liberalismo italiano per eccellenza, Benedetto Croce. Di Croce non si ricordano affermazioni e posizioni di questo tipo (molte), ma solo le grandi petizioni di principio su libertà, democrazia, rispetto della diversità. Ovviamente, passano in cavalleria tante cose, compreso il sostegno del mondo liberale al Partito fascista nella fase precedente e successiva all’ascesa al potere di Mussolini. Non sarebbe male ricordare che un manipolo di deputati fascisti potè entrare nel 1921 in Parlamento grazie alla cortese ospitalità delle liste elettorali di Giolitti. Saviano si serve del libro di Orsini – pazienza se passeggia sull’opera e la biografia di Gramsci senza aver mai letto la prima e conosciuto minimamente la seconda – per giungere alle sue conclusioni: la peggiore tradizione della «pedagogia dell’intolleranza» sta fuori dal Parlamento, nell’«estremismo massimalista» dei movimenti. Cito ancora testualmente la sua recensione: «I riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori», mentre «nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è un bene, perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria, è il famigerato tanto peggio tanto meglio». Per Saviano i riformisti sono «realisti e tolleranti», mentre Gramsci e la sue progenie sono per la «società perfetta», dunque utopistici e intolleranti.  Come ha scritto Domenico Losurdo, uno dei più autorevoli studiosi di Gramsci, buona parte della pubblicistica anticomunista basa le sue supposizioni sul «sofisma di Talmon» (in omaggio allo storico Jacob Talmon, tra i più assidui frequentatori di questo pregevole metodo): «I fatti e i misfatti del comunismo vengono messi a confronto non con i comportamenti reali del mondo che esso vuole mettere in discussione, ma con le dichiarazioni di principio del liberalismo, rispetto alle quali la vicenda iniziata con la rivoluzione bolscevica appare in tutta la sua abiezione». Da una parte si parla dei Gulag, della dittatura e delle violazioni della libertà, identificando tutto questo con il marxismo, dall’altra si usano le parole più infiocchettate di Tocqueville, John Locke, Adamo Smith per descrivere il liberalismo tacendo guerre, colonialismo, miseria e sfruttamento da esso generate. Gramsci ha subito, da vivo e da morto, una infinità di processi. Se nel primo processo l’auspicio era quello di «impedire a questo cervello di funzionare», nell’ultimo della serie l’imperativo punitivo – solo italiano, perché nel resto del mondo Gramsci viene letto e tradotto – potrebbe essere quello di «impedire l’utilizzo delle sue idee», delegittimarle, renderle contraddittorie, anticaglia inservibile». Non ci riuscirono la prima volta; non ci riusciranno, ne siamo certi, nemmeno adesso.