Il caso Grillo e la passione tutta italiana per l’eloquenza.



Il caso Grillo e la passione tutta italiana per l’eloquenza.


Gianni Fresu

Il “caso Grillo” è per molti versi l’ultimo esempio della grande passione degli italiani per l’eloquenza e la guida carismatica. Questa tradizione, lunga e consolidata, almeno da D’Anunnzio in poi, ci spiega forse più di ogni cosa perché oggi la gran parte dei partiti politici italiani (PDL, UDC, IdV, SEL, FLI, Lega) reca nei rispettivi simboli il nome del proprio leader. Senza voler entrare nel merito delle rispettive proposte politiche, né fare assurdi paralleli tra le diverse personalità, è un fatto che in Italia ci sia una tendenza del tutto peculiare ad affidarsi ciecamente a un capo politico, cui si attribuiscono capacità illimitate, delegandolo ben oltre il mero rapporto di rappresentanza. Del resto non è certo un caso se uno dei temi più ricorrenti nell’opera di Gramsci sia proprio un particolare tipo di relazione tra governanti e governati, in linea con un elemento permanente del carattere italiano: la sua propensione a farsi sedurre dalle doti oratorie del “tribuno intelligente”. Così si esprimeva in proposito nei Quaderni, «l’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale, per l’uomo intelligente come tale, corrisponde al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia. D’Annunzio si presentava come la sintesi popolare di tali sentimenti: apoliticità fondamentale, nel senso che da lui ci si poteva aspettare tutti i fini immaginabili dal più sinistro al più destro». La guida carismatica è corrispondente a una fase ancora primitiva nello sviluppo dei partiti, una fase nella quale la dottrina è un qualcosa di nebuloso per le masse e queste necessitano di un «papa infallibile», capace di interpretarla ed adattarla alle diverse circostanze. Una fase dominata da «ideologie incoerenti e arruffate» incentrate sul colpo di teatro, l’abilità oratoria e l’emotività delle classi sociali cui fanno riferimento. Se però, per una ragione o l’altra cade improvvisamente il grande leader, l’organizzazione è gettata nello scompiglio e nella crisi più assoluta, vive una condizione anarchica da “8 settembre”. La sola eccezione italiana a questa storia può essere rintracciata nella vitalità molecolare dei grandi partiti di massa tra la Resistenza e il primo dopoguerra, dove di certo non mancavano i leader, ma la loro funzione era mediata da una serie di rapporti organizzativi nei quali la verifica democratica e le forme di partecipazione non erano meramente passive. Il rapporto senza filtri tra leader e masse adoranti, che si può esprimere nelle adunate come nelle forme assembleari, non porta maggiore partecipazione, determina semmai l’emergere di una concezione sempre più mediatica dell’organizzazione politica. Essa contribuisce a edificare nuove oligarchie politiche difficili da controllare e, in quanto tali, indiscutibili, non è la liberazione di nuove energie democratiche. In questi anni ci si è interrogati spesso sulla cosiddetta «crisi della politica», senza però andare mai al fondo dei nodi che riguardano il funzionamento dei partiti, la selezione dei loro gruppi dirigenti e istituzionali basata, in generale, sulla cooptazione fiduciaria attorno a singole personalità. I vecchi partiti del secondo dopoguerra, non gli immensi carrozzoni clientelari degli anni Settanta e Ottanta, avevano pur tra tanti limiti la capacità di realizzare una partecipazione costante alla vita politica, favorendo una formazione di gruppi dirigenti non esclusivamente composti di “specialisti”. La vita dei partiti si articolava nelle strutture culturali, di associazione sportiva e sociale, di agregazione ludica, favorendo una maggiore organicità tra cittadini e politica. So di andare contro l’opinione prevalente, ma la risposta alla crisi del rapporto di rappresentanza non penso possa venire delle primarie, che confondono la personale capacità persuasiva del candidato con la costruzione di una comunità politica, affidandosi alle sue virtù taumaturgiche. Servirebbe semmai una reale autoriforma dei partiti politici, per renderli nuovamente lo strumento principe della partecipazione popolare, assegnando nuovamente ai congressi una funzione alta di luogo collettivo per l’elaborazione, direzione e selezione politica. Oggi assistiamo agli smottamenti inconsulti del sistema politico italiano, in risposta a ciò tutti descrivono spregiativamente Grillo come immondo “pifferaio magico”, ma mi chiedo, la tendenza alla personalizzazione della politica italiana degli ultimi venti anni, a destra come a sinistra, non ha oggettivamente preparato il terreno a questo risultato? E’ una massima storica infallibile, quando un movimento politico punta tutto sulle doti del suo “pifferaio magico”, prima o poi il flauto si rompe o compare sulla scena un suonatore più capace. Spesso le due cose vanno assieme.

 

 

Nell’archivio Podda la memoria di Cagliari. (“La Nuova Sardegna”)

Nell’archivio Podda la memoria di Cagliari.

A cinque anni dalla scomparsa apre in municipio un’esposizione dedicata al giornalista e studioso di cinema

Di Gianni Fresu (“La Nuova Sardegna”, 30 aprile 2012)

 

 

A cinque anni dalla scomparsa di Giuseppe Podda, questa mostra costituisce la prima esposizione pubblica di parte del suo ricchissimo patrimonio fotografico riguardante aspetti di vita sociale, politica e culturale dell’isola e che, a partire dall’immediato dopoguerra, copre un arco temporale di mezzo secolo.

Il fondo “Giuseppe Podda” si compone di foto, documenti, manoscritti, lettere, giornali e riviste, materiali audio-visivi che spaziano dai grandi temi della politica  al teatro, dalle grandi vertenze sociali legate alla storia del movimento dei lavoratori alla musica e al cinema. Uno spaccato di società sarda di grande interesse storico e iconografico per il quale sarà avviato un lavoro di catalogazione e valorizzazione in grado di salvaguardarlo e favorirne la fruizione pubblica. La gran parte delle foto raccolte sono da lui realizzate, tuttavia, non essendosi ancora provveduto a una catalogazione scientifica, non è stato possibile distinguere con certezza le “sue” dalle altre foto da lui raccolte e archiviate. Questa mostra risente ovviamente di tale limite e di ciò ci scusiamo preventivamente con i visitatori, rinviando a un prossimo futuro un più accurato lavoro di presentazione, accompagnato da note e didascalie appropriate.

Giuseppe Podda, nella professione giornalistica come nell’impegno politico, amava integrare riflessioni e testimonianze scritte con corredi d’immagini da lui catturate. Quanti l’hanno conosciuto negli anni della sua attività lo ricordano ancora con l’immancabile macchina fotografica, intento a immortalare con medesimo interesse personalità di spicco, lotte sociali grandi manifestazioni, eventi, strade, mestieri e volti della città che tanto ha amato. Negli ultimi anni della sua vita nel vastissimo e dettagliatissimo archivio dei suoi ricordi, c’era posto non solo per i grandi nomi, quelli su cui si scrive la storia, ma anche e soprattutto per le persone più semplici (dal pescatore, all’operaia della Manifattura tabacchi, dal portuale al minatore, dal muratore al ferroviere), quelli che la storia la fanno quotidianamente, senza aspettarsi commenti e biografie. Un posto speciale era riservato ai militanti, ai compagni di lotte, uomini e donne capaci di impegnare le ferie per fare la festa e diffondere l’Unità, lavoratori tanto appassionati da utilizzare parte della sudatissima liquidazione per contribuire a costruire la Sezione o acquistare il ciclostile. Quando, nell’anonimato, uno di loro veniva a mancare Podda scovava subito dalle sue cartelle foto e aneddoti a testimonianza del loro impegno. Ne parlava con passione, con la stessa dignità che in genere si tributa a un alto dirigente o intellettuale e il più delle volte si stupiva, fino ad arrabbiarsi e chiudere bruscamente una discussione, quando scorgeva nell’interlocutore di turno atteggiamenti di sufficienza o disinteresse. Questa mostra, realizzata attraverso una selezione inevitabilmente arbitraria, intende essere un piccolo spaccato del mondo da lui vissuto, commentato e ricordato.

Antonio Gramsci, figura centrale nella formazione umana e intellettuale di Giuseppe Podda, nelle note dei Quaderni del carcere esortava a cogliere il valore inestimabile di ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni: «la storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica, nella loro attività c’è la tendenza sia pure su piani provvisori all’unificazione, ma tale tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti». Proprio perché episodica e disgregata, questa storia lascia poche tracce di sé ed è molto più difficile da rinvenire rispetto a quella delle classi dirigenti. L’errore dell’intellettuale tradizionale per Gramsci consiste nella convinzione che si possa «sapere» senza sentire ed essere «appassionato», cioè credere che l’intellettuale possa essere tale rimanendo distinto e staccato dal «popolo-nazione», cioè senza sentire e comprendere le sue passioni elementari. L’«intellettuale puro», scriveva Gramsci, si accosta al popolo per «teorizzare» i suoi sentimenti non per comprenderli o porsi all’unisono con essi, l’intellettuale puro si china verso il popolo solo per costruire schemi scientifici, si rapporta al popolo come l’entomologo osserva un modo di insetti.

Ecco, Giuseppe Podda non è stato un intellettuale puro, ha sempre preferito «sapere» e «sentire», porsi all’unisono, in rapporto simpatetico, con un universo popolare dolosamente marginalizzato nella vita cittadina. Spostati come un pacco postale da un quartiere all’altro, per assecondare le “scelte strategiche di sviluppo urbanistico”, «i personaggi dolenti della Cagliari “marginale” palpitano di un’umanità straordinaria». Essi portano in dote, di generazione in generazione, un patrimonio storico e culturale di cui raramente hanno consapevolezza, e di cui pertanto evitano di fare sfoggio, ma in definitiva restano l’elemento permanente di una città che non muore:

“La Cagliari di un tempo, con le sue donne energicamente protese a tirar su unu carrasciu de fillusu, oggi ci appare molto lontana, ma se volgiamo lo sguardo verso le desolate periferie, sotto sotto sembra, per certi versi, continuare ancora” (Piccola città)

(Gianni Fresu)