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Recensione a “Antonio Gramsci. L’uomo filosofo”. L’ultimo libro di Gianni Fresu

Pubblicato su “Marxismo Oggi” il 4 settembre 2019

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di Gabriele Repaci

Antonio Gramsci (1891 – 1937) è stato uno dei filosofi italiani più importanti del Novecento. La sua fama ha ormai superato i confini del nostro paese per estendersi non solo all’Europa, ma anche all’Asia, all’America Latina, al Nordamerica e persino al mondo arabo e all’Africa. E questo non solo perchè egli è stato uno dei più originali pensatori marxisti di tutti i tempi, nonché una delle più eccellenti vittime della repressione del regime fascista, ma perchè Gramsci è stato un genio del pensiero politico al pari di Thomas Hobbes, Niccolò Machiavelli e Carl von Clausewitz.

Egli comprese, più di ogni altro, che il potere si conquista e si mantiene solo attraverso una forte e radicata egemonia all’interno della società civile. Tuttavia, all’interno della vasta letteratura gramsciana, anche in quella di impronta marxista, vi è una tendenza a contrapporre il pensiero di Gramsci a quello di Lenin. Secondo tale interpretazione il rivoluzionario russo viene presentato quale massimo esponente di quella «guerra manovrata» volta alla presa diretta del potere da parte dei “rivoluzionari di professione”, a cui Gramsci avrebbe contrapposto la «guerra di posizione», diretta alla conquista delle «casematte», ossia l’insieme delle istituzioni della società civile. Il merito del libro di Gianni Fresu, professore di Filosofia politica alla Universidade de Uberlândiandia (MG Brasil), nonché dottore di ricerca in Filosofia all’Università degli studi “Carlo Bo” di Urbino, Antonio Gramsci. L’uomo filosofo, Aipsa Edizioni, Cagliari, 2019, p. 402, con un importante prefazione di Stefano G. Azzarà, è quello di mettere in luce la sostanziale continuità tra il pensiero gramsciano e la tradizione marxista e leninista. L’autore infatti mette giustamente in evidenza come nelle note relative al passaggio dalla «guerra manovrata» alla «guerra di posizione» del Quaderno 7, l’intellettuale sardo attribuisca proprio a Lenin il merito di aver compreso la complessità degli aspetti di dominio delle società occidentali capitalisticamente avanzate, indicando per primo alle classi subalterne il compito della conquista egemonica. Nel Quaderno 11, Gramsci inoltre ricorda come nel 1921, fu proprio il leader bolscevico ad aver sottolineato l’incapacità di tradurre nelle lingue europee la lingua russa, ossia di dare contenuto nazionale ai valori universali, scaturiti dalle condizioni eminentemente nazionali, della Rivoluzione d’Ottobre. Attraverso lo sviluppo delle forze produttive e l’evoluzione della società in senso democratico e burocratico, anche per Lenin, si ampliavano e divenivano sempre più sofisticati i sistemi dell’apparato egemonico e di dominio. Secondo Gramsci – spiega Fresu – uno dei temi più caratteristici della teoria della rivoluzione in Lenin è l’esigenza di “tradurre” nazionalmente i principi del materialismo storico, ossia rigettare le affermazioni superficiali sul capitalismo e la rivoluzione in generale, per costruire una nuova teoria della trasformazione a partire dalle concrete condizioni di ciascuna formazione economico sociale. Per Gramsci Lenin era stato capace di intuire questo fatto, ma non ebbe tempo di elaborarlo più accuratamente, anche perchè secondo il filosofo sardo avrebbe potuto farlo solo sul piano teorico, mentre «il compito era essenzialmente nazionale», vale a dire che spettava ai partiti comunisti dei paesi occidentali operare una profonda ricognizione del terreno e una fissazione degli elementi di trincea e di fortezza: «In Oriente – scrive Gramsci in un celebre passo dei Quaderni – lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale». È bene precisare come fa giustamente notare l’autore del volume, che in Gramsci i termini Oriente ed Occidente non riguardano semplicemente realtà geografiche differenti. «Nella definizione di Gramsci – scrive Fresu a pagina 256 del volume – il concetto di Occidente riguarda essenzialmente le realtà caratterizzate da un elevato sviluppo delle forze produttive e degli apparati egemonici, mentre quello di Oriente si riferisce a realtà caratterizzate da società civili ancora “primordiali” e “gelatinose” nelle quali il potere si regge essenzialmente per mezzo di rapporti di dominio propri della società politica». L’incomprensione della natura dello Stato in Occidente, secondo Gramsci, portava ad errori madornali perchè lo si riconduceva semplicemente all’apparato coercitivo mentre per Stato non dovrebbe intendersi solo l’apparato governativo ma anche l’apparato privato di egemonia e società civile che costituisce il luogo di formazione e radicamento dell’«egemonia politica e culturale di un gruppo sociale sull’intera società». Più concretamente, l’idea concerne la «struttura ideologica di una classe dominante: cioè l’organizzazione materiale» dell’egemonia «intellettuale e morale»: case editrici, giornali e riviste, scuole e biblioteche, circoli e «clubs di vario genere» e ancora «tutto ciò che influisce o può influire sull’opinione pubblica direttamente e indirettamente» comprese l’architettura, l’urbanistica e la toponomastica stradale. Per questo Gramsci definiva la «società civile» anche «contenuto etico dello stato». Per Gramsci, lo studio della società civile diventava essenziale nell’ottica di realizzare un’egemonia che avrebbe reso possibile il superamento del capitalismo. La «guerra manovrata», adatta a società come quella russa contraddistinta da un limitato sviluppo delle forze produttive e quindi anche degli apparati egemonici delle classi dominanti, non poteva che essere causa di disfatta, e doveva essere quindi sostituita da una lunga «guerra di posizione», diretta alla conquista dell’insieme delle istituzioni della società civile.

Questo compito storico richiedeva l’impegno degli intellettuali, che dovevano dedicarsi a promuovere il cambiamento sociale e la rivoluzione, creando «un blocco di forze sociali per condurre uno scontro contro l’egemonia della borghesia, in modo da stabilire l’egemonia del proletariato».

Il concetto di «blocco storico» ha dunque un’importanza centrale in Gramsci. Gli intellettuali, «organizzatori dell’egemonia» avevano infatti il compito storico di realizzare l’alleanza necessaria al rovesciamento dello Stato borghese e di educare il proletariato, in modo da renderlo consapevole della sua missione storica.

Si può perciò dire che Gramsci giunge a negare, insieme ad una strategia universalmente valida, anche un modello universale di rivoluzione. Si può dire che egli apra la strada ad affermare la originalità dei processi rivoluzionari nazionali.

Nel dopoguerra Palmiro Togliatti, subentrato a Gramsci come segretario del Partito Comunista, fu il primo a tentare di tradurre in azione concreta le indicazioni gramsciane elaborando la sua concezione della «democrazia progressiva» come forma di transizione al socialismo. Si trattava dell’ipotesi di un regime democratico repubblicano che, grazie all’articolazione dialettica tra gli organismi tradizionali di rappresentanza (parlamenti ecc.) e i nuovi istituti di democrazia diretta (consigli di fabbrica, di quartiere, ecc.), permetteva un avanzamento progressivo nel senso di profonde riforme di struttura, con la conquista permanente di posizioni in una battaglia di lungo respiro verso il socialismo. Nella formulazione del Migliore, pertanto, la democrazia politica perdeva il suo carattere di tappa da raggiungere per poi essere abbandonata al momento dell’”assalto al potere”, nell’atteso “grande giorno”, per divenire un insieme di conquiste da conservare ed elevare a livello superiore – ossia per essere dialetticamente superate – nella democrazia socialista. Questo processo non cessò con Togliatti; basti pensare, ad esempio, alle riflessioni di Pietro Ingrao, svolte soprattutto negli anni settanta, sulla “democrazia di massa”, come integrazione di democrazia di base e di democrazia rappresentativa, e sulla necessità di articolare egemonia e pluralismo nella lotta per il socialismo e nella costruzione della società socialista.

 

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.