Seminari nazionali SISSCO. “Il fascismo nella storia d’Italia”

 

 

 

Seminari nazionali SISSCO

Il fascismo nella storia d’Italia. Tradizione e modernità del regime

Fondazione di Ricerca Istituto storico “Giuseppe Siotto”
Palazzo Siotto


Via dei Genovesi, Cagliari
Cagliari, 20-21 ottobre 2011

Il gruppo di ricerca che ha realizzato il ciclo di seminari intitolati “Ripensare il fascismo” ha organizzato, per il 20 e 21 ottobre 2011, un convegno nazionale. Le giornate saranno parte del progetto “Seminari nazionali Sissco”, e si svolgeranno a Cagliari, grazie alla disponibilità della Fondazione Giuseppe Siotto.

Il primo obiettivo di queste giornate di studio sarà mettere in discussione gli steccati esistenti tra scuole storiografiche e tra approcci disciplinari diversi – ancora largamente rilevanti nel determinare gli spazi della ricerca sul fascismo e sul suo ruolo nella storia di questo paese –, promuovendo lo scambio di idee tra studiosi di generazioni diverse e provenienti da percorsi di ricerca eterogenei.

L’incontro sarà suddiviso in tre sessioni, ciascuna delle quali partirà sia dai temi più innovativi e rilevanti degli sviluppi recenti della storiografia sia dagli interrogativi rimasti aperti da ricerche di più lungo periodo.
Le relazioni della sessione “Religione tradizionale e modernità politica nel fascismo” esamineranno i rapporti tra cattolicesimo, Chiesa e fascismo e offriranno la base per avviare una discussione su religioni civili, religioni politiche e religioni in senso proprio durante il ventennio fascista. Nella sessione “Rappresentazione del fascismo” al centro della riflessione saranno poste le rappresentazioni e le autorappresentazioni del fascismo, e in particolare gli aspetti legati alla figura del duce e alle sue trasformazioni in prospettiva comparata; la dialettica fra rappresentazioni e autorappresentazioni degli italiani; infine l’uso del passato per la costruzione di un’immagine del regime fascista come ritorno e compimento degli antichi splendori dell’epoca romana. Sarà inoltre preso in esame il rapporto tra la costruzione ideologica del fascismo e la società, attraverso una delle analisi più sistematiche e innovative prodotta dalla cultura antifascista, quella di Antonio Gramsci. Nella sessione “Stato, nazione e impero” saranno esaminati i rapporti tra il fascismo, la nazione e l’impero e, più in generale, tra l’organizzazione politica, istituzionale, ideologica ed economica del centro e le sue periferie, a partire da quelle coloniali.

PROGRAMMA
(bozza)

Giovedì 20 ottobre, 15.00-19.00

15.00-16.00
Comitato organizzatore, Introduzione
Aldo Accardo, Presentazione

16.00-19.00 Prima sessione: Religione tradizionale e modernità politica nel fascismo

Organizzatori alla prima sessione, Introduzione

 

  • Lucia Ceci, Cattolicesimo e nazionalizzazione degli italiani nell’Italia fascista
  • Jose David Lebovitch Dahl, Cattolici italiani e fascismo in prospettiva comparata: la reazione dei gesuiti in Italia, Germania e Inghilterra all’avvento del fascismo italiano
  • Valerio De Cesaris, Chiesa e fascismo: convergenze e divergenze. Il nodo della questione razziale

 

 

Discussione

Venerdì 21 ottobre, 9.00-19.00

9.00-12.00 Seconda sessione: Rappresentazioni del fascismo
Organizzatori della seconda sessione, Introduzione

 

  • Maddalena Carli, Esibire il passato imperiale. Mostra augustea della romanità (Roma, settembre 1937
  • Camilla Poesio, “Mussolini als mythos”. Le immagini di Mussolini e di Hitler in una prospettiva comparata
  • Vanessa Roghi, Visti da vicino. Pubblico e privato negli audiovisivi del Ventennio
  • Gianni Fresu, Ideologia e classi sociali nel fascismo secondo Gramsci

Discussione

15.00-19.00 Terza sessione: Stato, nazione e impero

Organizzatori della terza sessione, Introduzione

 

  • Alberto De Bernardi, Nazione e impero nel tardo fascismo
  • Francesca Di Pasquale, Dialettica fra centro e periferie nella fascistizzazione dei musulmani di Libia
  • Gian Luca Podestà, L’impero come mito. Politica, economia e colonizzazione in Africa Orientale Italiana
  • Discussione

Sabato 22 ottobre 2011

9.30 – 11.30 Discussione conclusiva

Il comitato promotore del convegno è composto da: Giulia Albanese, Margherita Angelini, Tommaso Baris, Lorenzo Benadusi, Alessio Gagliardi, Valeria Galimi, Chiara Giorgi, Eric Gobetti, Metteo Pasetti, Roberta Pergher.

Segreteria organizzativa: Gianni Fresu

12 settembre 1923, Gramsci e la nascita de «l’Unità». Le origini del quotidiano nel pieno divampare della reazione fascista.

12 settembre 1923, Gramsci e la nascita de «l’Unità».

Le origini del quotidiano, nel pieno divampare della reazione fascista.

Gianni Fresu

Il quotidiano «l’Unità» nacque nel pieno divampare della reazione fascista e in una fase di profonda crisi del neo nato partito comunista, paralizzato da una concezione profondamente settaria tanto dell’organizzazione, quanto delle alleanze di classe da perseguire. Secondo Bordiga non solo non c’era affatto antitesi tra democrazia e militarismo, ma tra fascismo e democrazia vi era assenza di contraddizioni e distinzioni reali, anzi, il fascismo appariva come «una prospettiva di stampo socialdemocratico per quanto espressa con forme e cerimoniali nuovi»[1]. I comunisti dovevano pertanto disinteressarsi del problema democratico, non optare per l’una o l’altra forma di governo borghese, e chiudere risolutamente a qualsiasi ipotesi collaborazione con le altre forze democratiche ed anche socialdemocratiche in opposizione al fascismo. Una linea oramai incompatibile con quella assunta tra il 1921 e il ‘23 dal Comintern, rispetto alla quale il suo esecutivo si preparava a dare battaglia. Per contrastarla con maggior efficacia, la direzione dell’Internazionale approvò la proposta di creare un «quotidiano operaio» in grado di dare corpo all’obbiettivo strategico dell’unità delle masse operaie del Nord con quelle rurali salariate del Mezzogiorno. Proprio per questa ragione, in una lettera all’esecutivo del PCd’I del 12 settembre 1923 Gramsci propose il titolo «l’Unità»:

“Io propongo come titolo «l’Unità» puro e semplice, che sarà un significato per gli operai e avrà un significato più generale, perché credo che dopo la decisione dell’esecutivo allargato sul governo operaio e contadino, noi dobbiamo dare importanza specialmente alla questione meridionale, cioè alla questione in cui il problema dei rapporti tra operai e contadini si pone non solo come un problema di rapporto di classe, ma anche specialmente come un problema territoriale, cioè come uno degli aspetti della questione nazionale”[2].

In questa lettera Gramsci propose non solo il nome, ma anche funzione e linea editoriale del quotidiano. Dato il contesto, era necessario un giornale in grado di resistere legalmente il più a lungo possibile alla reazione. Nell’intento di Gramsci, non doveva trattarsi di un organo di partito, ma garantire all’organizzazione una «tribuna legale», consentirgli il raggiungimento, continuo e sistematico, delle più larghe masse:

“Non solo quindi il giornale non dovrà avere alcuna indicazione di partito, ma esso dovrà essere redatto in modo che la sua dipendenza di fatto dal nostro partito non appaia troppo chiaramente. Dovrà essere un giornale di sinistra, della sinistra operaia, rimasta fedele al programma e alla tattica della lotta di classe, che pubblicherà gli atti e le discussioni del nostro partito, come farà possibilmente anche per gli atti e le discussioni degli anarchici, dei repubblicani, dei sindacalisti e dirà il suo giudizio con un tono disinteressato, come se avesse una posizione superiore alla lotta e si ponesse da un punto di vista «scientifico»”[3].

Il quotidiano doveva servire a imprimere un profondo cambiamento nell’agire politico dei comunisti in Italia. Quella svolta, di cui lo stesso Gramsci fu indiscusso protagonista nella lotta con il vecchio gruppo dirigente legato a Bordiga fino al famoso Congresso di Lione, costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza quanto nella fase successiva alla liberazione. Gramsci, sia nell’idea ispiratrice del quotidiano, sia nelle successve Tesi di Lione colse appieno il valore strategico attribuito da Lenin alla questione contadina e alla politica delle alleanze[4]. Preparare a fondo la rivoluzione, «conquistare le grandi masse», «avere la simpatia delle masse», era per Lenin necessario se si aveva l’aspirazione non solo di iniziare una rivoluzione ma soprattutto vincerla e conservare il potere: «attrarre a noi non solo la maggioranza della classe operaia, ma anche la maggioranza della popolazione lavoratrice e sfruttata della campagna»[5]. Un tema centrale, in un paese come l’Italia dove il proletariato era una minoranza senza carattere nazionale.  Più precisamente, Gramsci cercò di contestualizzare all’Italia il grande tema dibattuto tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista[6]. In essi, preso atto delle difficoltà internazionali, e della complessità dei processi rivoluzionari in Occidente, Lenin e l’Esecutivo del Comintern lanciarono la parola d’ordine della conquista della maggioranza delle classi subalterne e dell’unità della classe operaia tramite la tattica del «fronte unico», essenziale per la definizione della categoria dell’«egemonia» in Gramsci[7].

Il periodo tra il 1923 e la Conferenza di Como del maggio 1924, fino all’assunzione da parte di Gramsci della Segreteria Generale del Partito, è efficacemente definito da Spriano una fase di «interregno», un periodo di riposizionamento complessivo del partito in Italia, di dinamiche contrastanti e incerte all’interno della vecchia maggioranza, per via del forte ascendente ancora esercitato da Bordiga. L’oramai ex capo del partito, era sempre più deciso ad aprire uno scontro frontale con il Comintern, anche al costo di separarsi definitivamente da esso. L’effettivo cambio di linea e gruppo dirigente che portò Gramsci alla guida del Partito avvenne con due passaggi: una prima riunione del Comitato Centrale il 18 aprile del 1924, quindi in maggio, con la Conferenza nazionale di Como – in sostanza un Comitato centrale allargato ai segretari di federazione e al rappresentante della federazione giovanile con carattere consultivo sulla linea politica del partito – in vista del Congresso nazionale programmato dopo lo svolgimento del V Congresso dell’IC.

La fase successiva, fino al Congresso di Lione, è caratterizzata dal consolidarsi della nuova maggioranza attorno a Gramsci. All’interno di questo processo possiamo individuare nella nascita del quotidiano «l’Unità» un punto di svolta essenziale.

Gramsci ha esercitato la sua attività di capo del Partito comunista e rappresentante in Parlamento proprio nel momento più drammatico di trapasso dal sistema liberale al regime fascista, segnato dal caso Matteotti e concluso con il varo delle «leggi fascistissime», prologo al suo arresto. Il periodo tra la primavera del 1925 e l’autunno 1926 è cruciale per l’evoluzione del pensiero di Gramsci, in relazione al partito, al suo rapporto con le masse, alla funzione svolta in esso dagli intellettuali. Un periodo nel quale giungono a completa maturazione le esperienze di direzione e orientamento politico compiute a partire dal 1923. Una fase nella quale la sua analisi si sviluppa fino a indagare in profondità il ruolo svolto nella società italiana dagli intellettuali, quale tessuto connettivo degli assetti sociali dominanti. Già in queste analisi è presente quella ridefinizione del concetto di Stato e di dominio anticipatrice della categoria egemonica. La riflessione di Gramsci in questa fase è la base essenziale della teoria sugli intellettuali sviluppata poi all’interno della Questione meridionale e delle riflessioni del carcere,  al contempo, è il punto d’arrivo di quella precedente e, nel complesso, affonda potentemente le sue radici nell’esperienza «ordinovista».

 

 

 


[1] A. Gramsci, lettera a Julca Schuct, 21 luglio 1924.

[1] A. Bordiga I rapporti delle forze sociali e politiche in Italia, «Rassegna comunista», n. settembre/ottobre 1923.

[2] A. Gramsci, lettera all’Esecutivo del PCd’I, 12 settembre 1923.

[3] Ibid.

[4] V. I. Lenin, Opere Complete, Editori Riuniti, Roma, 1967, vol. XXXII

[5] V. I. Lenin, Sul movimento operaio italiano, Editori Riuniti, Roma, 1970, pag. 233.

[6] Le Tesi sulla tattica del III Congresso, contestate duramente dall’ala sinistra dei tedeschi e da Bordiga, prendevano atto del riflusso generale dell’ondata rivoluzionaria. La presa del potere nei paesi occidentali si allontanava e ciò imponeva la predisposizione di una nuova, più adatta alle mutate condizioni. Il capitalismo era riuscito a riconquistare posizioni perdute ottenendo una tregua, in quella fase, il Comintern doveva puntare non tanto a preparare la guerra civile quanto a un lavoro di organizzazione, radicamento e agitazione. Il diverso grado di acutezza delle contraddizioni capitalistiche, la diversa articolazione sociale e capacità organizzativa della borghesia nei vari paesi, unitamente ai limiti ancora forti nelle organizzazioni proletarie, non aveva portato, con la fine della guerra, alla vittoria immediata della rivoluzione mondiale. Il processo rivoluzionario nel resto d’Europa si rivelava in sostanza ben più lungo di quanto era stato preventivato nel passato. Si apriva dunque una fase difficile nella bisognava fare i conti anche con le probabilità sconfitte per il movimento comunista europeo. Radek e tutto l’Esecutivo dell’Internazionale, lanciò dunque la parola d’ordine della conquista delle grandi masse lavoratrici, per fare dei partiti comunisti europei, non più soltanto piccoli gruppi di avanguardia, ma «grandi eserciti del proletariato mondiale».

 

[7] G. Fresu, Lenin lettore di Marx. Determinismo e dialettica nella storia del movimento operaio, La Città del Sole, Napoli, 2008.


Uscire dal Guado!

Uscire dal guado!

Comitato Politico Nazionale del PRC,

Roma, 9-10 luglio 2011.

Intervento di Gianni Fresu

 

Alla vigilia del nostro VIII Congresso, per quanto possa apparire poco logico, più che un problema di linea politica, su cui tutto sommato (tra tante sfumature) ci si può intendere, intravvedo una questione più stringente e preliminare, quella del soggetto deputato a incarnare e perseguire in maniera coerente e credibile quella linea. Da oramai tre anni continuiamo a dimenarci in mezzo al guado di un processo di transizione che pare infinito. Tra rallentamenti, fughe in avanti e ripiegamenti repentini, nei fatti, non siamo stati capaci di trasformare il Progetto della Federazione della Sinistra in un soggetto organico con organismi dirigenti e proposta politica sottoposta a verifica democratica. Abbiamo preferito una costante mediazione su tutto, alla ricerca dell’unanimismo, con il risultato di minarne la credibilità, la capacità attrattiva e, in ultima analisi, la tenuta elettorale. A partire dalla presentazione della lista comunista e anticapitalista alle ultime elezioni europee, il progetto della Federazione della Sinistra ha suscitato diverse speranze e molteplici aspettative. La crisi organica del capitalismo mondiale, il susseguirsi di una serie infinita di guerre imperialistiche legate alla lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche, l’intensificarsi nel nostro Paese dell’offensiva padronale contro il mondo del lavoro, hanno fornito più di una conferma oggettiva all’esigenza di un Partito non solo genericamente di sinistra, bensì di un’organizzazione che fondasse la sua ragion d’essere su una inequivocabile scelta di campo all’interno del conflitto capitale lavoro.  Alle conferme oggettive si sono sommate quelle soggettive, nel senso che a dispetto di chi per trent’anni ha preconizzato la fine del conflitto sociale e l’inutilità di un’organizzazione autonoma delle classi subalterne, in questi due anni è salita quasi spontaneamente, dal mondo del lavoro e dalle realtà del disagio sociale, la richiesta di una salda rappresentanza sociale e politica, seria e credibile, capace di andare oltre la classica oscillazione schizofrenica tra settarismo e opportunismo. Nonostante la presenza simultanea di questi fattori e le enormi potenzialità della fase, la Federazione stenta però a decollare e, a mio avviso, se non si imprime una severa sterzata, rischia di esaurirsi per autoconsunzione o implodere per deflagrazione interna. Il congresso della Federazione, in realtà poco più di un attivo nazionale dei quadri, è stata un’occasione mancata, perché la scelta di determinare organismi dirigenti pletorici, sulla base di quote predeterminate, senza vagliare il loro peso a tutti i livelli con congressi veri, ha impedito di risolvere il problema prioritario che la Federazione vive a livello nazionale e locale: la sovranità e l’effettiva capacità decisionale degli organismi federativi rispetto a quelli dei soggetti fondatori; la capacità di operare delle scelte politiche andando oltre la drammatica alternativa tra unanimismo e separazione che sistematicamente si presenta nei territori quando si tratta di far parte di un’alleanza o di una giunta, presentare liste, stabilire le modalità comuni di iniziativa politica e lotta sociale. Se vogliamo essere sinceri fino in fondo, allo stato attuale, la Federazione è poco più di un cartello elettorale, perennemente impastoiato in micro conflitti interni, nel quale tra i soggetti fondatori, in particolare i due partiti che dovrebbero costituire il fulcro dell’organizzazione, piuttosto che la reciproca lealtà e la solidarietà attiva e permanente prevalgono deteriori mire egemoniche e controegemoniche. Occorre una svolta urgente, e a mio avviso questo dovrebbe essere anzitutto il compito dell’VIII Congresso del PRC, per dar corso ad un effettivo processo di amalgama delle realtà che danno vita alla Federazione. In assenza di questa svolta, ma sarebbe una sciagura, meglio investire tutte le nostre energie sul rilancio della rifondazione comunista. Di certo non è più ammissibile che il criterio ispiratore della Federazione sia una sorta di pilatesca “mano invisibile”, in ragione della quale, dato che non possiamo fare di meglio, ci limitiamo a lasciare campo alle libere fluttuazioni tra i soggetti fondatori nell’assurda speranza che la competizione internatra PRC e PdCI  possa essere tutto sommato positiva. Non credo che se ognuno persegue il suo utile soggettivo fa, inconsapevolmente o meno, il bene dell’insieme e anche qualora fosse fortunosamente così il bluff si sgonfierebbe immediatamente dopo, quando al momento elettorale subentrano le ordinarie e straordinarie incombenze dell’agire politico.  Personalmente riterrei un grave errore un arretramento del processo federativo, dell’unità organica tra le forze che ne sono protagoniste, perché darebbe un’ulteriore conferma dei limiti della sinistra di classe nel nostro Paese, avviando un nuovo processo di scissione e frammentazione che nella drammaticità della situazione e nei risicati numeri che ci riguardano avrebbe connotati farseschi. Bisogna uscire dal guado, dare testa, corpo e gambe alla Federazione per consentirgli di vivere e misurarsi sul terreno della lotta politica nel cofronto con le altre forze democratiche e di sinistra. Ciò che non è più accettabile è il mantenimento di questo stato di cose dominato dall’inerzia e dalle ambiguità, oltre il quale intravvedo solo il progressivo svuotamento e l’impotenza sia della Federazione, sia dei suoi soggetti costitutivi. La Federazione nasce all’interno di un lungo processo dialettico nella sinistra, con l’ambizione di porre fine alle lacerazioni e al processo infinito di scissioni, più o meno significative. A questo processo dialettico manca il salto decisivo, il mutamento dalla mera quantità, puramente sommatoria, alla qualità nella natura dei rapporti federativi. Occorre il coraggio politico e la necessaria determinazione nella volontà per far compiere questo salto al nostro progetto politico.

 

Presentazione del libro “Il mondo che ho vissuto” di Umberto Cardia

Gianni Fresu, recensione a:

Il mondo che ho vissuto, di Umberto Cardia, a cura di Giuseppe Marci, prefazione di Joseph Buttigieg, Cuec, Cagliari, 2010.


La prima considerazione generale che mi viene da fare dopo la lettura di questo libro è sulla sua assoluta godibilità. Umberto Cardia – uno dei più importanti dirigenti sardi del PCI nel dopoguerra, giornalista, colto studioso dell’opera di Antonio Gramsci e di storia della Sardegna – è una figura di tale rilievo politico e intellettuale da suscitare in chi scrive un fin troppo ovvio interesse di ricerca, tuttavia, credo che questa autobiografia possa risultare una bella lettura anche per chi non necessariamente si occupa di storia e di politica. Non sono un esperto di letteratura, ma ho apprezzato particolarmente il ritmo attraverso cui Cardia ha narrato la sua esistenza e il mondo che ha vissuto, dalla nascita sino alla chiamata alle armi nel ’41. Tra le righe di questo manoscritto ci sono delle bellissime pagine su una Sardegna che ovviamente non c’è più, c’è la nostalgia per quei luoghi indissolubilmente associati ai ricordi familiari, in una progressione dolce dall’infanzia, all’adolescenza fino al primo ingresso nel mondo degli adulti. Pagine vivide, come quelle nelle quali descrive il peregrinare da Tortolì a Bosa, fino a Cagliari, nella casa di via Leopardi, sita allora «al limite estremo della città, nel rione di San Benedetto, oltre il quale limite si estendevano i campi e gli orti e si intravvedevano, tra le palme ed il luccicare degli stagni, i profili incerti degli abitanti delle nuove frazioni, annesse dal regime alla città e, nello sfondo, le creste dei monti dei Sette fratelli»1. Descrizioni mai didascaliche, semmai intrise di storia e di consapevolezza sulla importanza di tante, grandi e piccole, manifestazioni del quotidiano che ad un occhio distratto possono apparire trascurabili e addirittura insignificanti, ma che invece assumono un senso generale proprio in rapporto alla storia del mondo, «grande complicato e terribile», che contemporaneamente alla nostra vita scorre con le sue scadenze inesorabili. La seconda considerazione riguarda invece i due ambiti nei quali si compone e si sviluppa la vita di Cardia, che inevitabilmente occupano anche le riflessioni principali di queste pagine.

 

ACTUEL MARX – Demistificare le autorappresentazioni del reale.

ACTUEL MARX

Demistificare le autorappresentazioni del reale.


Marx ed Engels ci hanno fornito degli indispensabili e quanto mai attuali strumenti per analizzare la società borghese dal punto di vista storico, dei meccanismi di funzionamento economico, degli apparati di dominio ideologico. La critica dell’economia politica, in rapporto all’attuale crisi mondiale, penso sia stata ampiamente e autorevolmente trattata nella prima sessione di questo ciclo di conferenze, con questo mio intervento vorrei provare ad affrontare un altro tema centrale dell’opera di Marx, quello della «falsa coscienza» o, detto in altri termini, della funzione dell’ideologia nella conservazione dello stato di cose esistenti.  Oggi, più di quanto non lo fosse cento anni fa, le masse popolari accettano passivamente la loro condizione di subalternità, non tanto (o non solo) per l’uso monopolistico della forza da parte dello Stato, quanto perchè  esse si trovano ad aderire al sistema di civiltà e cultura dalle classi dominanti. Come ha scritto Gramsci ciò che distingueva maggiormente la borghesia nella sua fase rivoluzionaria era la sua capacità di includere altre classi sociali e dirigerle attraverso lo Stato, l’egemonia politica e sociale. Mentre nel feudalesimo l’aristocrazia, organizzata come «casta chiusa», non si poneva il problema di inglobare le altre classi, la borghesia si rivela ben più dinamica e mobile puntando all’assimilazione del resto della società al suo livello economico e culturale. Questo muta profondamente la funzione dello Stato rendendolo «educatore», anche attraverso la funzione egemonica del diritto nella società.  La borghesia storicamente opera a rendere omogenee (per costumi, morale, senso comune) le classi dirigenti e creare un conformismo sociale capace di consolidarne il potere, attraverso una combinazione di forza e consenso. In questo modo riesce a irreggimentare e dirigere con schemi culturali propri anche le classi dominate. Ogni Stato è etico nella misura in cui opera per elevare l’insieme della popolazione a un livello culturale e morale confacente allo sviluppo delle forze produttive e agli interessi delle classi dominanti. Tale importantissima funzione trova nella scuola e nei tribunali le attività statali fondamentali, anche se in realtà esse non sono le sole. Devono essere comprese nel concetto di Stato etico anche l’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti. Gramsci ha indagato in profondità il funzionamento di questi apparati di egemonia, Marx ha il grandissimo merito di aver per primo squarciato il velo su come la borghesia si serve di tutti gli strumenti ideologici (economia, filosofia, politica ecc. ecc) per trasfigurare la realtà concreta, presentando i propri interessi particolari come generali.

Nell’affrontare in termini generali il pensiero di Karl Marx e Friedrich Engels, ritengo si possa partire da due definizioni che nella loro sinteticità ne rappresentano bene i caratteri essenziali, mi riferisco alle definizioni di socialismo scientifico e filosofia della prassi. La prima tende a distinguere fondamentalmente il pensiero dei due autori tedeschi dalle diverse e precedenti forme del pensiero socialista, (cioè il socialismo utopistico e il comunismo rurale). La differenza essenziale è data dal fatto che il marxismo basa i suoi postulati, non su valutazioni morali o sull’assunzione paternalistica del problema riguardante la parte più debole e povera della società, ma su un’analisi scientifica e sulla conseguente critica delle modalità di sviluppo del modo di produzione capitalistico e dei relativi rapporti economico-sociali.Per quanto riguarda il concetto di filosofia della prassi nelle undici Tesi su Feurbach si trova una frase che come poche ne esemplifica il senso:

Il punto di vista del vecchio mondo borghese è la società borghese, il punto di vista del materialismo nuovo è la società umana o l’umanità sociale. I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta ora di trasformarlo.

In questo senso il marxismo è definito filosofia della prassi, vale a dire, non semplice speculazione filosofica tesa ad una lettura oziosa della realtà, ma interpretazione di questa per la sua trasformazione. Il punto dunque sta nella necessità di unire la teoria alla prassi, il pensiero all’azione, la filosofia alla politica. In questo modo il materialismo storico supera sia l’idealismo sia il mero materialismo filosofico. Nella prefazione a “Per la critica dell’economia politica” del 1859, Marx scrive:

Tanto i rapporti giuridici che le forme dello Stato non possono essere comprese né  per se stessi né per la cosiddetta evoluzione dello spirito umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell’esistenza[1].

Già nel lavoro teso a invertire i due termini della dialettica di Hegel, con cui il soggetto diventa il reale e il predicato diventa il pensiero, è rintracciabile un primo tassello essenziale per comprendere e dunque disarticolare le forme di autorappresentazione della società borghese. Il materialismo storico individua quale autentico protagonista della storia l’uomo nel suo concreto operare, attraverso un rapporto dialettico tra il soggetto (l’uomo nella società) e l’oggetto (il mondo materiale) nella quale  gli uomini determinano una progressiva trasformazione del mondo materiale attraverso il perseguimento dei propri fini e la costante creazione di nuovi bisogni. Nel succedersi delle diverse epoche storiche, dei diversi modi di produzione, il vero motore dei mutamenti è dato dall’insanabile contrasto che si determina tra una classe dominante ed una dominata. La classe dominata che si pone come antitesi rispetto a quella dominante è da quest’ultima creata. Ogni modo di produzione è storicamente determinato è cioè il frutto dell’incessante lotta tra le classi. Lo Stato nella concezione del materialismo storico, altro non sarebbe che un riflesso dei rapporti di produzione, una sovrastruttura al servizio degli interessi dei detentori dei mezzi di produzione, per usare le celebri parole del Manifesto, «il potere politico moderno non è altro che un comitato, il quale amministra gli affari comuni della classe borghese nel suo complesso»[2]. Ma come già accennato nella sovrastruttura rientrano appieno i sistemi delle idee, cioè la religione, la filosofia, l’ideologia e il rapporto tra realtà materiale e sistema delle idee non è unilaterale e meccanico bensì reciproco. Proprio il fraintendimento su tale rapporto e l’interpretazione deterministica del materialismo storico sarebbe alla base delle più volgari semplificazioni del marxismo dopo Marx. Contro tale svilimento del marxismo Engels ha condotto negli ultimi anni della sua vita una battaglia filosofico-politica serratissima sulla quale non mi posso addentrare per ragioni di tempo, mi limito a citare alcuni passi illuminanti di una sua lettera scritta a Bloch il 20 settembre del 1890.

Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base ma i diversi momenti della soprastruttura (…) esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca in tutti questi fattori, ed attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali (…) se non fosse così l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la semplice equazione di primo grado[3].

Ma non furono solo i modesti epigoni di Marx a volgarizzarne il pensiero, un ruolo determinante venne giocato anche dai suoi detrattori. In tal senso per Croce il marxismo non riconoscerebbe il momento dell’egemonia e non attibuirebbe importanza alla direzione culturale. Al contrario, come ha scritto Gramsci, per la filosofia della praxis le ideologie non hanno nulla di arbitrario, ma sono strumenti di direzione politica. Per la massa dei governati esse sono strumenti di dominio attraverso la mistificazione e l’illusione, per le classi dirigenti un «inganno voluto e consapevole». Nel rapporto tra i due livelli emerge la funzione essenziale della lotta egemonica nella società civile e la natura non arbitraria delle ideologie:

esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti , per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. (…) Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà oggettiva ed operante  [4].

Del resto è nel terreno delle ideologie, della cosiddetta superstruttura, che gli uomini prendono coscienza del loro essere sociale ed avviene il cosiddetto passaggio dalla «classe in sé» alla «classe per sé». Per il materialismo storico tra struttura e superstruttura (tra economia e ideologie) esiste un nesso  necessario e vitale, in ragione del quale si può parlare di movimento tendenziale del primo verso il secondo, la qual cosa non esclude un rapporto di reciprocità tra i due termini e comunque la funzione tutt’altro che secondaria delle superstrutture.

Nell’Ideologia tedesca tale rapporto è indagato con una prospettiva filosofica estremamente efficace che chiarisce meglio di ogni giro di parole in cosa consista la «falsa coscienza»

Ogni classe che prenda il potere di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide[5].

Per Marx nella filosofia classica tedesca la relazione tra i fatti materiali e le idee è rappresentata capovolta, come all’interno di una camera oscura, appunto come un uomo che cammina sulla testa. Dunque bisogna invertire i termini, «salendo dalla terra al cielo» e non viceversa, superando una visione dell’uomo come autorappresentazione per arrivare alle donne e agli uomini in carne e ossa, realmente operanti sulla base del processo reale della loro vita. Tutto il sistema delle idee – delle  rappresentazioni e della coscienza – è strettamente intrecciato all’attività materiale degli uomini. «Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere sociale, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza».

Nei lavori di approfondimento su Marx ciclicamente riaffiora la tendenza a presentare Engels come un «metafisico del materialismo» che avrebbe tradito Marx attraverso pericolose contaminazioni positivistiche, o che, è il caso di Lucio Colletti, avrebbe stravolto il senso della critica di Marx allo hegelismo introducendo di soppiatto la dialettica e presentando il marxismo come un semplice sviluppo rovesciato della filosofia di Hegel. In realtà questa tesi si scontrerebbe con il fatto che Marx è sempre stato al corrente delle ricerche di Engels, che le ha condivise e che anzi tra loro c’è stata una sorta di divisione del lavoro, corrispondente alle diverse attitudini dei due, ed anche un capitolo del lavoro di Engels più soggetto a tali critiche, l’ Antidühring, è stato scritto dallo stesso Marx. Contrariamente a questa vulgata che vede in Engels un profanatore dell’opera di Marx, è bene dire che il rapporto tra i due è stato simbiotico. La loro amicizia risale ad un loro incontro a Parigi nel 1844, il loro sodalizio risale alla redazione delle prime due opere in comune, La sacra famiglia e soprattutto l’opera più importante sul piano della definizione del materialismo storico, cioè L’Ideologia tedesca, scritte entrambe a Bruxelles tra il 1845 e il 1847.   L’incontro con Engels (sul piano teorico prima ancora che su quello umano), fu fondamentale per Karl Marx, perché fu il primo ad infondere nel secondo l’interesse per l’economia politica e per la storia economica. Tra il 1842 e il 1844 infatti Engels, trasferitosi in Inghilterra per lavorare nella filiale inglese dell’impresa del padre, si trovò a stretto contatto con le dinamiche di sviluppo della società capitalistica, e quindi sintetizzò le sue riflessioni critiche sulle caratteristiche di quel modo di produzione in un saggio, Lineamenti di una critica dell’economia inglese, che impressionò molto favorevolmente Marx. La conferma di questo interesse verso le analisi storico economiche di Engels, è data dalle bozze di uno scritto di Marx dell’estate del 1844 (pubblicato solo nel 1932), i Manoscritti economico-filosofici, nel quale sono rintracciabili ampi stralci dello scritto di Engels. Fino a questo momento le riflessioni di Marx si erano limitate ad un ambito prevalentemente filosofico e politico, solo a questo punto Marx intraprende uno studio rigoroso dell’economia politica classica, attraverso la lettura critica del pensiero di  Adam Smith e  David Riccardo, e perviene tramite esso alla definizione essenziale del materialismo storico. Per tutte queste ragioni gli scritti di Marx che precedono questa svolta sono definiti da un grande analista del pensiero marxiano come David McLellan, come scritti pre-marxisti, nel senso che in essi non si trova alcuna interpretazione  della storia in termini di classi, di modi di produzione, di analisi del rapporto tra capitale e lavoro. Lo sviluppo di queste tematiche avviene negli scritti della maturità e cioè Il capitale preceduto da due introduzioni  a questo (scritte tra il 1857 e il 58), che verranno pubblicate postume, e cioè Per una critica dell’economia politica e Lineamenti fondamentali di economia politica (più nota con il nome di Grundrisse).

Il capitale è strutturato in tre volumi, dei quali solo il primo fu pubblicato con Marx ancora in vita nel 1866, gli altri due volumi verranno invece pubblicati postumi, tra il 1885 e il 1894. Ciò che contraddistingue in primo luogo la produzione capitalistica per Marx è «la produzione per la produzione», cioè il fatto che il fine ultimo della produzione capitalistica è la rigenerazione del capitale su sé stesso, lo scopo della produzione non è più soddisfare i bisogni di chi produce, in altre parole, scompare ogni legame fra ciò che si produce e il bisogno immediato del produttore. Il capitale dunque deve crescere su sé stesso per riversarsi sui tre fattori della produzione, capitale, lavoro e terra, sotto la forma del profitto, del salario, della rendita.  Questa spinta del capitale a valorizzarsi trova la sua personalizzazione nel capitalista, che non considera mai definitiva nessuna forma tecnica di produzione ma che è sempre pronto a rivoluzionare i processi di lavoro per aumentarne la produttività e diminuirne i costi. Altra caratteristica del capitalismo è infatti proprio la sua natura profondamente rivoluzionaria e dinamica.

L’analisi dettagliata sulla genesi e i processi di sviluppo del capitalismo ha in sé anche un contenuto profondamente filosofico che in primo luogo riafferma la centralità della dialettica hegeliana contro le tendenze degenerative proprie del marxismo determinista. Nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale del 1873, Karl Marx – pur richiamandosi alla critica condotta trent’anni prima al «lato mistificatore della dialettica hegeliana» – sente il bisogno di prendere le distanze dai «molesti, presuntuosi e mediocri epigoni» che al tempo si permettevano di trattare Hegel come «un cane morto». In questo poscritto, oltre ad ammettere di avere «civettato qua e là» col modo di esprimersi peculiare a Hegel, nella parte relativa alla teoria del valore, Marx si professa apertamente scolaro del «grande pensatore»[6]. Ma ciò che maggiormente ci interessa è che il metodo dialettico è utilizzato da Marx per mettere a nudo proprio la falsa coscienza insita in tutta la sterminata pubblicistica di economisti e filosofi di scuola liberale. Il processo di mistificazione della realtà, finalizzato alla sua conservazione, riguarda anzitutto le leggi dell’economia con le sue modalità di produzione, sfruttamento e appropriazione della ricchezza. Nel Capitale ciò si evidenzia su tre aspetti fondamentali dell’ideologia borghese:

1)      presentare l’economia politica come legge naturale inscritta nella stessa evoluzione della specie umana e dunque l’occultamento della natura storicamente determinata del capitalismo.

 

2)      Rappresentare l’origine del capitalismo, la famosa accumulazione originaria, come un processo evolutivo naturale nel quale regna l’idillio sociale.

 

3)      Nascondere le modalità di riproduzione del capitale e dunque l’appropriazione del plusvalore prodotto.

Presentare l’economia politica come legge naturale, sola universalmente valida, e nascondere la natura storicamente determinata del capitalismo significa considerare la realtà della società borghese come ineluttabile celandone il dominio di classe e i rapporti di sfruttamento. Nel Capitale, Marx analizza la genesi storica del capitalismo, individuandola nel processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. L’analisi del Capitale è ovviamente concentrata su quella che al tempo era la realtà più avanzata sul piano dello sviluppo capitalistico, cioè l’Inghilterra, e in questo contesto l’accumulazione originaria del capitale, veniva fatta risalire a quei processi di privatizzazione delle terre sulle quali sussistevano i tradizionali usi civici delle comunità contadine. Il fenomeno delle «enclosures», cioè della recinzione delle terre, portò a partire dal XVI secolo allo sfruttamento imprenditoriale  delle terre attraverso l’allevamento delle pecore da lana.

Nell’economia politica la cosiddetta accumulazione originaria del capitale svolge la stessa funzione del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccontandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorsa, da una parte una élite dirigente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano gli sciagurati oziosi che  sperperavano tutto il proprio e anche di più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che cresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare[7].

Il modo di produzione capitalistico, ha nella separazione fra il lavoratore e la proprietà delle proprie condizioni di lavoro una premessa indispensabile che una volta realizzata si riproduce su scala crescente. Dunque la accumulazione originaria è questo processo storico di separazione con la quale si creano da un lato il capitale e dall’altra i lavoratori salariati, un processo che segna il superamento del modo di produzione feudale, a partire dal regime fondiario, e di tutta la sua articolazione istituzionale. Il lavoratore dispone della sua persona cessando di essere un servitore della gleba infeudato ad un’altra persona e liberandosi dal dominio delle corporazioni feudali. I lavoratori però se da un lato divengono liberi venditori della propria forza lavoro, per un altro vengono spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e delle garanzie offerte loro dai rapprti sociali feudali. Per Marx si tratta di una storia di espropriazione violenta che non ha nulla di idilliaco, come invece narrato dai teorici dell’economia politica,  una storia «scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco». Tanto il capitalista, quanto l’operaio salariato sono generati dall’asservimento del lavoro, dalla sua trasformazione da asservimento feudale ad asservimento capitalistico. Questa storia che percorre l’Europa lungo quattro secoli – in Sardegna l’abbiamo conosciuta nell’Ottocento ed ha generato insieme alle punte più acute del banditismo i famosi moti popolari all’insegna di torrare a su connottu – è segnata dalle sterminate masse di diseredati, sradicate con la forza dai loro modi di sussistenza e gettati nel mercato di lavoro come proletariato eslege. Pur con tutte le sfumature che tale processo assume, l’espropriazone ed espulsione dei produttori rurali, con la distruzione delle rispettive comunità, è il dato costante. La realtà analizzata da Marx è l’Inghilterra dove ancora nel XV secolo la maggioranza della popolazione era costituita da contadini autonomi, come i fittavoli e gli operai salariati dell’agricoltura che oltre al lavoro nelle grandi proprietà fondiarie godevano assieme ai contadini veri e propri dell’usufrutto delle terre comunali, vale a dire i cosiddetti usi civici di pascolo, legnatico, raccolta, ecc., chiamati in  Sardegna diritti ademprivili. Da tutto questo derivava che nel sistema feudale vigeva una spartizione delle terre fra il maggior numero possibile di «contadini obbligati», anche perché il metro di lunghezza del potere di un feudatario non era tanto il registro delle sue rendite quanto il numero dei suoi sudditi, strettamente dipendente dal numero di produttori rurali autonomi. Un sistema che oltre a favorire la fioritura delle città inglesi nel XV secolo consentì una certa diffusione di ricchezza popolare che tuttavia escludeva una possibilità di accumulazione e dunque di sviluppo in senso capitalisico. La premessa dello sviluppo capitalistico si ha con lo scioglimento dei seguiti feudali nell’ultimo trentennio del XV secolo che si accompagna allo sviluppo della borghesia, e al conseguente rafforzamento della monarchia, quindi alla nascita di una industria manufatturiera laniera. Un processo a tappe lungo i secoli, che trova nella Riforma religiosa  e nel «furto dei beni ecclesiastici»  un momento di impulso fondamentale in ragione del quale gli immensi beni della Chiesa vennero acaparrati da speculatori senza scrupoli, riuniti in immense proprietà. La cacciata dei fittavoli, dei contadini salariati e degli artigiani che vi erano insediati determinò uno spaventoso aumento della povertà ben testimoniato nell’Utopia di Tommaso Moro, l’aumento dei prezzi per i beni di sussistenza, disoccupazione cescente e il ridimensionamento delle paghe per i salariati agricoli. I proprietari terrieri riuscirono poi a dare forma legale al loro possesso attraverso l’abolizione dei vecchi regimi feudali sul suolo, scaricando l’indennizzo sullo Stato tramite le tasse ai contadini e al resto della popolazione. In questo modo riuscirono a garantirsi una proprietà perfetta su fondi rispetto ai quali prima vantavano solo dei titoli feudali. Con la «gloriosa rivoluzione» e Guglielmo III di Orange i protagonisti di questa ascesa sociale trovarono anche la loro consacrazione politica:

i facitori di plusvalore, fondiari e capialistici, inaugurarono l’era nuova esercitando su scala colossale il furto ai danni dei beni demaniali che fino a quel momento era stato perpetrato solo su scala modesta. Le terre demaniali venivano regalate, vendute a prezzo irrisorio, oppure annesse a fondi privati per usurpazione diretta[8].

La soppressione delle proprietà comuni nel XV e XVI secolo si attuò come azione violenta individuale, il cambio di passo nel Settecento ebbe a manifestarsi con il fatto che «la legge stessa diventa veicolo di rapina delle terre del popolo». Marx descrive la celebre Bills for incluseres commons decreti di espropriazione a danni del popolo con i quali «i signori dei fondi regalano a se stessi, come proprietà privata, terra del popolo». Con l’accumulazione originaria si creano quindi le due forze produttive essenziali allo sviluppo della società borghese, il capitale e il proletariato, ma ciò doveva avvenire a un prezzo salatissimo e in un arco temporale non certo breve. Al di là dei tempi fisiologici, lo sconvolgimento per la privazione dei mezzi di sussistenza e dei modi tradizionali di vita non poteva certo favorire il rapido adattamento ai nuovi rapporti di produzione. La radicale brutalità di tale processo ebbe dunque l’effetto di moltiplicare a dismisura mendicanti, vagabondi e soprattutto briganti, perché ovviamente prima che il sistema manifatturiero riuscisse ad assorbire le sterminate plebi cacciate dalle campagne sarebbero occorsi tempi lunghi. Una conseguenza ulteriore fu pertanto la nascita di una legislazione sempre più sanguinaria contro il vagabondaggio e i fenomeni di delinquenza connessi allo stato d’indigenza che a partire dal XV e XVI secolo si duffusero gradatamente dall’Inghilterra all’Europa occidentale contestualmente al mutamento dei rapporti sociali e di produzione. Le grandi masse di coloro che hanno la propria forza lavoro quale unica ricchezza subiscono in sequenza l’espropriazione dei propri mezzi di produzione, uno stato di miseria coatta e la legislazione repressiva, una normativa salariale costruita in maniera tale da garantirgli il minimo possibile per poter sopravvivere e riprodursi come forza lavoro. Il moderno proletariato è dunque plasmato sulle esigenze della produzione nel corso di un processo violento nel quale la sottomissione e la disciplina necessaria al sistema del lavoro sono imposte «a forza di frusta, di marchio a fuoco, di tortura». Con l’affermarsi del nuovo modo di produzione e lo svilupparsi di una classe lavoratrice così forgiata, educazione, abitudine e tradizione concorrono a farle percepire quelle leggi imposte come naturali e in quanto tali immutabili, ecco la falsa coscienza! Il velo di ipocrisie degli economisti sulle modalità di produzione e ripartizione delle ricchezze prodotte, in funzione del capitale, dunque il mistero accuratamente celato circa le leggi del plusvalore appongono il sigillo su questo sistema di dominio e sfruttamento. La moderna produzione industriale e la specializzazione della divisione del lavoro, consentono infatti di parcellizzare il processo della produzione (cioè ogni operaio svolge una sola funzione specializzandosi in questa), in modo tale da ottimizzare lo sfruttamento delle energie psico-fisiche del lavoratore e con ciò di aumentare enormemente la produttività del lavoro e la ricchezza prodotta. Il saggio di profitto si basa sul fatto che il lavoratore non viene pagato in funzione della sua effettiva forza lavoro, della ricchezza prodotta, ma il minimo indispensabile per poter vivere e riprodursi come forza lavoro. Dunque la specializzazione del lavoro industriale fa si che i lavoratori producano in metà giornata lavorativa il valore che corrisponde al salario che gli viene pagato, l’altra metà di giornata lavorativa costituisce «pluslavoro» che crea un «plusvalore», che però non viene pagato all’operaio ma di cui si appropria il capitalista sotto forma di profitti che consentono al capitale di crescere su se stesso. Dunque il capitale non è altro che lavoro non retribuito.

Marx «svela l’arcano della fattura del plusvalore». Come egli stesso scrive, la sfera della circolazione, dello scambio delle merci, entro cui si determina la compravendita della forza lavoro, era rappresentata dai teorici dell’economia politica come un «eden dei diritti innati dell’uomo dove regnano soltanto Libertà, Uguaglianza, Proprietà e Bentham»: la liberta consisterebbe nel fatto che compratore e venditore della forza lavoro troverebbero il punto d’intesa solo nella «libera volontà», vale a dire stipulerebbero il loro contratto come persone libere, giuridicamente pari. Proprio il contratto con cui si manifesta la loro libera volontà sarebbe l’espressione giuridica dell’eguaglianza. In questo eden dei rapporti sociali entrambe le parti sono messe sullo stesso piano e si compongono armonicamente sulla base del proprio utile, del vantaggio particolare della soddisfazione dei reciproci interessi privati.

E appunto perché così ognuno si muove solo per sé e nessuno si muove per l’altro, tutti portano a compimento, per un’armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici d’una provvidenza onniscaltra, solo l’opera del loro reciproco vantaggio, dell’utile comune, dell’interesse generale.(…) L’antico possessore del danaro va avanti come capitalista,il possessore della forza lavoro lo segue come suo lavoratore; l’uno sorridente con aria d’importanza e tutto affacendato, l’atro timido, restio, come qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia ormai da aspettarsi altro che la … conciatura[9].

Oggi gli economisti affermano che il capitale ha altre forme di remunerazione non più basate, in prevalenza, da lavoro non pagato, non ci spiegano però, per quale ragione allora continuano a delocalizzare la produzione nei paesi in via di sviluppo, alla ricerca del costo del lavoro più basso, mentre nei paesi a capitalismo avanzato, tutti i discorsi sulla “competitivià” ruotano attorno alla compressione salariale. È del tutto evidente l’attualità di una categoria come la falsa coscienza nella moderna società mediatica dove la sostanza delle cose è costantemente stravolta, dove la  povertà, la miseria, lo sfruttamento sono nascoste sotto il tappeto e della realtà ci viene fornita una immagine patinata e seducente. In tempo di crisi la parola d’ordine è “siamo tutti sulla stessa barca”, padroni e lavoratori, nessuno si incarica spiegare perché nei decenni passati, quando l’economia era in crescita, solo una parte si è arricchita sfacciatamente e senza limiti, mentre il potere d’acquisto di salari e pensioni si riduceva di anno in anno. Non si spiega perché l’incontestabile aumento di produttività, fatturati e profitti non si è tradotto nei millantati investimenti produttivi, miglioramento delle condizioni di vita e lavoro, nuova occupazione, ma solo in rendita finanziaria, speculazione e privilegio sociale per pochi. Un compito straordinariamente rivoluzionario oggi è andare, come ha fatto Marx a suo tempo, alla radice delle contraddizioni della modernità con tutto il suo carico di mistificazioni, in modo da comprendere per quale ragione oggi un lavoratore in nero può immaginarsi imprenditore di sé stesso o un precario ritenere lo smantellamento del contratto collettivo nazionale una liberazione che ne rafforza l’autonomia di fronte al datore di lavoro. Se c’è chi sostiene che non esistono più le classi e il conflitto tra loro, proprio mentre una classe esercita senza mediazioni il suo dominio sulle altre, e questa tesi fa ampi proseliti persino tra le masse popolari, significa che in ciò va ricercato il valore operativo della falsa coscienza e la vittoria egemonica delle classi possidenti.

Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana[10].

Una visione del mondo criticamente coerente necessità della piena coscienza della storicità di essa, vale a dire del fatto che la concezione critica risponde a determinati problemi posti dalla realtà, è storicamente determinata, scaturisce da un peculiare sviluppo delle forze produttive, è una visione del mondo che si pone in contraddizione con altre visioni del mondo, a loro volta espressione di altri interessi storicamente determinati. Ma la creazione di una visione del mondo criticamente coerente, deve necessariamente assumere carattere unitario, deve cioè avere uno sbocco nella socializzazione e nella partecipazione collettiva agli assunti di questa filosofia. Creare una nuova cultura che si ponga criticamente rispetto al passato, significa anche socializzare le scoperte già fatte e farle divenire base di azioni concrete, rendere questa cultura «elemento di coordinamento e di ordine intellettuale e morale» delle masse. Appunto, «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta ora di trasformarl.



[1] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori riuniti, Roma, 1974, pag. 4

[2] K. Marx, F. Engels, Il manifesto del partito comunista, Laterza, Bari, 1999.

[3]  F. Engels, Sul materialismo storico, Edizioni Riuniti , Roma 1949, p.75

[4] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 1319.

[5] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 2000, pag. 37.

[6] «La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente le forme generali del movimento della dialettica stessa. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico. Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca perché sembrava trasfigurare lo stato di cose esistente. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso […]», Karl Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma, 1994.

[7] K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica. Editori riuniti, Roma, 1997, pag. 777.

[8] Ivi, pag. 787

[9] Ivi, pag. 209.

[10] Quaderni de carcere, cit. pag. 333.

Globalizzazione, liberalismo e falsa coscienza

Globalizzazione, liberalismo e falsa coscienza. 

Congresso internazionale

Filosofia e globalizzazione

Internationale Gesellschaft Hegel-Marx für dialektisches Denken

Napoli (27, 28, 29 Aprile 2006)

  

A cavallo tra XX e XXI secolo il pensiero liberale ha autocelebrato il suo «definitivo» trionfo planetario, attraverso la definizione di quel nuovo paradigma delle relazioni interne ed internazionali che tutti abbiamo imparato a conoscere come globalizzazione. Ciò ha dato luogo, nel breve volgere di pochi anni, ad una mole imponente di studi, ricerche e pubblicazioni tramite le quali si era preconizzata una nuova fase per la storia dell’umanità nella quale, a seguito della liquidazione delle residue strutture pre-moderne, tutto era destinato fatalmente a mutare per l’effetto dirompente delle leggi di mercato, indomabili a qualsiasi tentativo ideologico di regolazione politica.

Nelle loro previsioni teleologiche sulle sorti progressive del liberalismo, gli iperglobalisti hanno descritto spesso la globalizzazione come una marcia inevitabile dell’umanità verso un’unica società, o civiltà, mondiale capitalistica. L’esempio più lampante in merito, come è noto, è quello di Francis Fukuyama, che già in un articolo del 1989 avanzava l’ipotesi che la democrazia liberale, oramai trionfante nei confronti delle ideologie rivali, si ponesse come «il punto d’arrivo dell’evoluzione dell’umanità», la «definitiva forma di governo tra gli uomini», «la fine della «storia». Questo perché la democrazia liberale – a differenza delle altre forme di governo, tutte affette da difetti e irrazionalità – si era dimostrata in ultima analisi priva di contraddizioni interne profonde.

Le tesi sulla «fine dello Stato nazione» e sulla natura transnazionale del capitalismo globale parevano dare una spiegazione plausibile alle novità più superficiali ed emergenti che venivano fuori dallo scenario internazionale con la fine della guerra fredda. In proposito potrei fare riferimento alla sterminata bibliografia esistente, ma per restare in Italia uno degli esempi più emblematici della vulgata liberale sulla globalizzazione, anche per il periodo in cui è stato scritto, è il numero monografico Global o no Global di Ideazione1, uscito nel settembre 2001, che contiene alcune chicche di questa stagione. Nel solco tracciato da Fukuyama, seppur con un’attenuazione delle sue aspirazioni finalistiche, Vittorio Strada introduceva in questo numero il tema del rapporto tra liberalismo e globalizzazione a partire da un’affermazione che di per sé è già una conclusione. La vittoria del liberalismo sul totalitarismo novecentesco, deve avere coscienza anzitutto della forma triplice che esso ha assunto storicamente: comunismo-fascismo-nazionalsocialismo. Tre varianti che hanno per Strada momenti di «profonda comunanza strutturale (…) concreti rapporti di reciproca influenza» dunque elementi di solida affinità, seppur nell’ostilità rivale, riscontrabili negli elementi costitutivi di tipo istituzionale (partito unico, ideologia statale, mobilitazione di massa), ma soprattutto nel fatto che tutti e tre avrebbero avuto quali nemici principali la democrazia liberale, il socialismo democratico, e la religione cristiana, cui ogni totalitarismo avrebbe contrapposto la propria religione politica.

 

Stato, società civile e subalterni in Antonio Gramsci

Convegno Internazionale di studi

GRAMSCI IN ASIA E AFRICA

Cagliari 12-13 febbraio 2009

Dipartimento di Studi storico politico internazionali dell’Università di Cagliari

 

Stato, società civile e subalterni in Antonio Gramsci.

Di Gianni Fresu

 

Nell’ambito dei cosiddetti studi post-coloniali e subaltern studies, sebbene tra i due orientamenti sia giusto fare le opportune distinzioni, l’attenzione verso alcune fondamentali categorie gramsciane, Stato, società civile e gruppi subalterni, è di primaria importanza. Iain Chambers1 parla del grande salto compiuto nel pensiero critico occidentale da Gramsci e ri-elaborato da Said, in ragione del quale la lotta politica e culturale non si fonderebbe sul rapporto tra tradizione e modernità ma attraverso la dialettica tra «parte subalterna e parte egemonica del mondo». In essa risiede la convinzione che la cultura giochi un ruolo determinante nella definizione degli assetti di dominio e nella costruzione dei blocchi storico-sociali2. A partire da questa consapevolezza e dalla definizione del concetto di subalterno, Gramsci è presente costantemente negli studi post-coloniali, a volte anche in modo approssimativo e incoerente, attraverso la traslazione delle sue categorie, dalla dimensione storica e territoriale italiana a quella planetaria nel rapporto tra Nord e Sud del mondo o più precisamente nella condizione di subalternità imposta ad esso dall’Occidente.

A partire dalle profonde trasformazioni globali dei rapporti di sfruttamento, secondo alcuni tra i più celebrati autori di tali filoni di ricerca, il concetto di subalternità avrebbe subito un’evoluzione che sancisce una fuoriuscita dai canoni concettuali del cosiddetto «marxismo ortodosso»3. In questo modo, la questione sarebbe passata da un contesto segnato dal conflitto capitale/lavoro, a una dimensione di razza, etnia e territorio, oltre che di genere4. L’importanza della dimensione spaziale dei rapporti di dominio ed egemonia, la caratterizzazione geografica o territoriale del concetto di subalternità sarebbe stata presente già in Gramsci nella definizione del terreno comune tra masse contadine del Mezzogiorno e proletariato del Nord, così come sarebbe presente nel rapporto Oriente/Occidente. Non spetta alla mia relazione sviscerare gli assunti concettuali di tali orientamenti scientifici né mostrarne gli eventuali elementi contraddittori, bensì esporre, per quanto possibile, in via sintetica e chiara il rapporto organico che sussiste nell’opera di Gramsci tra quelle categorie fondamentali. In via preliminare si può però dire che alcuni degli utilizzi incoerenti delle categorie gramsciane, che talvolta ho riscontrato nei subaltern studies, e il fraintendimento della loro valenza politica, poggiano non solo sul fatto che spesso si sia arrivati a Gramsci attraverso letture di seconda mano, ma anche al loro utilizzo parziale, decontestualizzato dall’opera e dalla più complessiva attività politica dell’intellettuale sardo. In secondo luogo, tali letture omettono di trattare, o spesso non conoscono, tutto un dibattito teorico di estrema importanza nell’elaborazione concettuale di Gramsci: il contrasto tra materialismo dialettico e materialismo determinista, tra la concezione del marxismo come sintesi organica dell’economia politica inglese, del socialismo utopistico francese e della filosofia tedesca e il marxismo inteso nella sua sola dimensione storica e veicolato attraverso il positivismo e i canoni delle scienze naturali applicati meccanicisticamente alla storia dell’umanità. Infine, esse non tengono in alcun modo in conto dell’importanza dell’opera di Lenin per l’intellettuale sardo. Come cercherò di spiegare, se non si tiene conto del rapporto Lenin-Gramsci le categorie di egemonia, blocco storico, classi subalterne risultano solo parzialmente comprensibili. Stato, società civile e subalterni in Gramsci sono categorie strettamente e organicamente intrecciate tra loro, una trattazione per parti sarebbe praticamente impossibile. Oltre a questo, è un errore ritenere che esse si ritrovino in via esclusiva nella sola “produzione matura” dei Quaderni, al contrario, c’è una continuità tra l’elaborazione pre e post 1926 filologicamente rintracciabile sia negli scritti “giovanili” sia nei continui richiami espliciti dei Quaderni all’esperienza precedente5.

 

 

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Il terrorismo di sinistra in Italia, una storia tra “affinità e divergenze”

 

Il terrorismo di sinistra in Italia, una storia tra “affinità e divergenze”.

Di Gianni Fresu

 

L’eversione armata di matrice marxista, comparsa nel nostro paese negli anni Settanta, ha un retroterra politico e culturale che non può certo essere ritenuto totalmente estraneo alla tradizione della sinistra ed in particolare del suo più importante partito. Si è parlato spesso di “album di famiglia”, ciò che è certo è che la militarizzazione della sinistra rivoluzionaria si muove e sviluppa entro un canone piuttosto tradizionale. Questo nonostante una storia, quella dei comunisti, postasi in conflitto con la concezione stessa del terrorismo e malgrado il fatto che Lenin, nella sua elaborazione e battaglia politica, abbia a più riprese combattuto la tendenza a confondere lotta rivoluzionaria e terrorismo, mostrandone differenze e incompatibilità. Un dibattito assai concreto quello tra le forze rivoluzionarie russe a cavallo tra Ottocento e Novecento, proprio per le implicazioni politiche nel rapporto tra azione e rapporti sociali. Per Lenin la lotta di classe rivoluzionaria non aveva nulla da spartire con il modo di concepire il rapporto tra politica e violenza proprio del terrorismo, frutto di una concezione individualistica che si esprimeva nella mistica del “gesto”. Così, nei fatidici anni tra 1904-1905, Lenin era netto nel contrapporre lotta di classe e rivoluzione proletaria al metodo terroristico, da egli definito il «metodo specifico di lotta degli intellettuali» che non hanno alcuna fiducia nella vitalità e nella forza delle masse popolari e dunque pretendono di sostituirsi ad esse attraverso l’atto individualistico:

 

Quanto più pieno fu il successo dell’impresa terroristica, tanto più essa confermò l’esperienza fornitaci da tutta la storia del movimento rivoluzionario russo, un’esperienza che ci mette in guardia dai metodi di lotta quali il terrorismo. Il terrorismo è stato e rimane un metodo di lotta specifico degli intellettuali. E, comunque si valuti l’importanza del terrorismo, in quanto integrazione e sostituzione del movimento popolare, i fatti attestano in modo inconfutabile che gli attentati politici individuali non hanno da noi nulla in comune con gli atti di violenza della rivoluzione popolare. Ogni movimento di massa è possibile nella società capitalistica solo come movimento operaio classista. (…) Non fa meraviglia se tanto spesso, da noi, si trova tra i rappresentanti radicali (o radicaleggianti) dell’opposizione borghese gente che simpatizza per il terrorismo. Né fa meraviglia che tra gli intellettuali rivoluzionari siano particolarmente attratti dal terrorismo proprio quelli che non credono nella vitalità e nella forza del proletariato e della sua lotta di classe2.

Americanismo e fordismo: l’«uomo filosofo» e il «gorilla ammaestrato»

Americanismo e fordismo: l’«uomo filosofo» e il «gorilla ammaestrato»1.

di Gianni Fresu

 

Nell’indagare le trasformazioni che riguardano i modi di produzione e i sistemi di relazione sociale c’è sempre un rischio in agguato: cercare una scorciatoia nella semplificazione concettuale, evitare la fatica che uno studio serio e rigoroso necessariamente comporta. Nel campo del materialismo storico questa inclinazione ha portato anche serissimi studiosi a trovare un rifugio sicuro nel determinismo e nella teleologia proprio sulla base della tendenza a sopravvalutare elementi puramente particolari e contingenti della realtà. Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere più volte si è trovato a fare i conti con la tendenza all’approssimazione analitica, indotta dalla fretta e dalla volontà dilettantesca di giungere a facili conclusioni attraverso scorciatoie che, come ogni improvvisazione teorica, finiscono inevitabilmente per avere le gambe corte e riescono al massimo ad «indovinare all’ingrosso».

Nelle sue note più volte Gramsci metteva in guardia dalla tendenza a sottovalutare la complessità della realtà. Identificare, di volta in volta, staticamente e con precisione la struttura non è infatti un compito semplice, e in ogni caso nell’analizzare un «periodo strutturale» bisogna sempre tenere conto che esso può venire studiato in termini scientifici solo dopo che il periodo in questione ha superato tutto il suo processo di sviluppo, prima di allora si possono fare solo ipotesi. La poca attenzione nel distinguere ciò che è organico e relativamente permanente da ciò che è occasionale e contingente, ha generato le due tendenze del «dottrinarismo ideologico e pedantensco», che esalta l’elemento volontaristico individuale, e quella opposta dell’economismo volgare, che a sua volta sopravvaluta le cause meccaniche «strutturali». Occorre stabilire il nesso dialettico tra «movimenti e fatti organici» da una parte e «movimenti e fatti di congiuntura» dall’altra, non solo sul piano della ricostruzione storiografica – quando si tratta di ricostruire il passato – ma anche e soprattutto nell’arte politica – quando si tratta di costruire il presente e il futuro – e bisogna accuratamente evitare di farlo in base ai propri pii desideri e alle proprie passioni deteriori, piuttosto che ai dati reali.

Nel rilevare l’assenza di questo nesso dialettico tra movimenti e fatti organici emerge la mancanza di un elemento cruciale per la lettura e la comprensione della realtà, la dialettica. La complessità e contraddittorietà dialettica della realtà – sottovalutata da grandi intellettuali della Seconda Internazionale come Bebel e Kautsky – è un tema che angustia profondamente gli ultimi anni di vita di Friedrich Engels. In una lettera del 27 ottobre 1890 Engels con forza prende le distanze dalla volgarizzazione determinista del marxismo sottolineando la necessità di superarne il meccanicismo: «quel che manca a tutti questi signori [scrive Engels] è la dialettica. Essi vedono sempre e solamente qui la causa, là l’effetto. Non arrivano a vedere che questa è una vuota astrazione, che nel mondo reale simili contrapposizioni metafisiche polari esistono soltanto nei momenti di crisi, ma che l’intero grande corso delle cose si svolge nella forma dell’azione e reazione reciproca, anche se di forze molto ineguali, tra cui il movimento economico è di gran lunga il più forte, il più originario, il più decisivo; essi non arrivano a capire che niente è assoluto e tutto è relativo. Per essi Hegel non è esistito»2.

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