La solitudine della classe operaia sarda.

La cronaca socio economica della nostra regione è quotidianamente segnata dalle vertenze del mondo del lavoro, nelle quali ha modo di manifestarsi l’agonia apparentemente irreversibile del suo superstite apparato produttivo industriale. Dalle miniere al tessile, dal siderurgico al pretrolchimico, praticamente non esiste comparto esente dallo stillicidio delle chiusure, con relative procedure di mobilità, ammortizzatori sociali e licenziamenti. Tuttavia, non intendo addentrarmi sul fenomeno della desertificazione industriale dell’isola, in sé noto e studiato da anni, bensì soffermarmi sulla condizione di solitudine vissuta dai soggetti che in primo luogo subiscono gli effetti di questo sgretolamento economico produttivo, costretti a forme di lotta sempre più disperate per attirare l’attenzione. Nella realtà sarda di oggi quanto resta della vecchia classe operaia si trova nella peggior condizione oggettiva e soggettiva di sempre dal suo sorgere, perché non solo subisce da decenni un processo di ridimensionamento strutturale, ma vive un drammatico isolamento politico. Per un verso, gli apostoli delle leggi di mercato (oggi prevalenti) la definiscono un residuo storico del Novecento, sopravvissuto solo grazie all’assistenzialismo statale e dunque ne affermano l’inutilità, sollecitando un rapido lavoro di inumazione al becchino. Per un altro, quel che resta della sinistra, insieme a una visione del mondo organica e coerente incentrata sul conflitto capitale lavoro, sembra aver smarrito anche una precisa idea dei suoi referenti sociali, pertanto, di fronte alla crisi in corso si limita a portare una solidarietà inane ai lavoratori, molto prossima a quella delle autorità ecclesiastiche, la visita del vescovo o del parroco al distretto in crisi e l’immancabile invocazione al signore. Infine, gli orientamenti impegnati nel rivendicare l’universo ideale della cosiddetta “sardità”, sovente prigionieri di una visione romantica “dei bei tempi andati” (intendendosi per essi la retorica dei rapporti sociali comunitari, propri del mondo agro-pastorale). Buona parte di loro, non tutti per carità, guarda con indifferenza se non proprio con malcelato disprezzo questo mondo, quasi che, nel suo storico farsi “classe in sé”, gli operai abbiano incarnato il tradimento di civiltà degli “originali” rapporti produttivi sardi. Qualcosa di molto simile all’approccio dei populisti (portatori anch’essi di una ideologia imperniata sulla mistica della piccola proprietà contadina) verso la nascente classe operaia russa di fine Ottocento. L’attuale solitudine della classe operaia sarda è drammatica, in sé persino più grave del suo disarmo strutturale, determinato dall’insieme combinato di due fattori dal pesante carico distruttivo: la tendenza storica alla delocalizzazione nella produzione industriale; la crisi  organica del capitalismo mondiale, dunque le ristrutturazioni da essa generate. Insomma, non solo la classe operaia sarda sembra destinata a non avere più una progenie, non ha nemmeno padri. Ciò accade non solo nel mondo politico, ma anche negli ambienti incensati dell’Accademia, un tempo guida dei cambiamenti storici e ora rimorchio della più spicciola cronaca politica. Non è un caso se gli studi di uno storico di grande levatura come Girolamo Sotgiu, sulla nascita del movimento operaio sardo, siano praticamente dimenticati e anche i suoi allievi e discepoli si guardano bene dal continuarne l’opera. Eppure il comparire del movimento operaio nella nostra regione, a partire dalla costruzione delle strade ferrate nell’Ottocento, ha rappresentato un indubbio progresso in termini di soggettività sociale e politica, ha favorito l’uscita da una storica condizione di subalternità per fasce significative di masse popolari sarde, superando la illusoria rappresentazione del fantomatico “popolo sardo unito” (senza distinzione tra sfruttatori e sfruttati, dirigenti e diretti) oggi invece tornata prepotentemente di moda. Forse proprio in ciò bisogna rintracciare la convinzione secondo cui i mali del cosiddetto popolo sardo (povertà, arretratezza e sfruttamento) sarebbero una conseguenza della sua misconosciuta dimensione nazionale, anziché il frutto delle contraddizioni nei rapporti sociali di produzione in cui esso si situa. Anche questa confusione, a mio parere, è un segnale della vittoria egemonica di una parte di quel popolo e della sconfitta dell’altra.

Gianni Fresu

 

Il nostro 11 settembre. Tra strategia della tensione e album di famiglia ritoccati.

Il nostro 11 settembre.  

Tra strategia della tensione e album di famiglia ritoccati. 

L’11 di settembre è una data marchiata col sangue sul calendario, oggi tutti la associamo all’attacco alle torri gemelle, ma fino al 2001 era l’esempio più lampante di cosa fosse capace una politica folle come quella messa in atto dal Governo degli Stati Uniti d’America nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale. L’11 settembre del 1973 non è un unicum di questa storia, prima c’era stato il 31 marzo 1964 in Brasile, dopo il 24 marzo del 1976 in Argentina. Ma la “guerra sucia” non fu confinata agli esotici paesaggi dell’America Latina. Negli stessi anni e con la medesima regia, essa fu combattuta con uguale intensità anche in Italia e solo per un puro caso non celebriamo un nostro 11 settembre, in compenso nessuno di noi può dimenticare la data del 12 dicembre 1969.

La storia italiana del dopoguerra – con le limitazioni alla propria sovranità e l’interdizione ad una normale dialettica politica – è stata spesso incasellata nella definizione di «democrazia bloccata». Tale quadro, in gran parte dei casi, è stato ricondotto esclusivamente ai condizionamenti imposti dal fronteggiarsi sul piano internazionale dei due blocchi contrapposti e alla conseguente articolazione interna di tale scontro, veicolata dai due grandi partiti di massa italiani: la DC e il PCI. Se tutto questo non può che trovare puntuale conferma sul piano storico, esso costituisce solo una parte, seppur quella predominante, delle cause di ingessatura democratica del paese. Sicuramente le pagine più oscure della «guerra a bassa intensità» combattute in Italia nell’epoca della guerra fredda avevano un concorso di cause solo in parte riconducibili a Roma, tuttavia, anche se si accettasse integralmente questa ipotesi, ciò chiamerebbe comunque in causa una debolezza congenita delle classi dirigenti italiane incapaci di resistere a sollecitazioni esterne di tale gravità. L’utilizzo da parte di apparati non secondari dello Stato di strumenti coercitivi legali e illegali e la pianificazione della strategia della tensione, per la difesa dello stato di cose esistenti, sono il segno evidente di un deficit di egemonia.

Il formarsi degli intrecci da cui si dipanano i rapporti tra violenza politica e potere nel secondo dopoguerra d’Italia si ha nello scenario definito nel 1947 dalla Dottrina Truman. Una prima data emblematica in tal senso è il 31 maggio 1947, essa segna l’estromissione di PCI e PSI dal governo ed è successiva di sei mesi alla visita di De Gasperi a Washington. «Si archiviava definitivamente, quel 31 maggio 1947, la realtà politica uscita dalla Resistenza; cominciava una dura stagione della Repubblica». Più precisamente la “guerra politica segreta” – espressione che compare nei memorandum del National security Council (la struttura americana di “contenimento del comunismo”) – inizierebbe nell’autunno 1947.

Una guerra – sociale, economica, culturale, morale – non dichiarata; a “bassa intensità” militare ma ad alta valenza politica che fu combattuta nel nostro paese a partire dalla fine degli anni ’40 e, con graduazioni e modificazioni anche sostanziali, almeno fino agli anni ’70, quando l’evoluzione del quadro internazionale gli fece perdere gran parte del retroterra e degli obblighi internazionali che le motivavano e, con ampie strumentalizzazioni personali e politiche ai fini interni, la giustificavano[1]

“La guerra psicologica” contro il comunismo era ovviamente rivolta su due fronti: quello esterno riguardava essenzialmente l’URSS; quello interno mirava depotenziare la presenza dei comunisti in Occidente con una attenzione particolare rivolta a Italia e Francia. A tal fine Harry Truman da vita nel 1948 all’Nsc e quindi al «Piano Demagnetize». Dall’analisi dei documenti emergerebbe non solo il ruolo protagonistico degli USA, ma anche l’assoluto coinvolgimento dello stesso governo italiano, il quale sarebbe perfino giunto a sollecitare un intervento armato dell’esercito americano, come risulterebbe da una risposta (negativa) della Casa Bianca al governo italiano del 20 aprile 1948. Tra le documentazioni, in gran parte rinvenute da Nico Perrone (De Gasperi e l’America. Un dominio pieno e incontrollato, Sellerio, Palermo, 1995) si fa riferimento anche agli “unvochered founds”, vale a dire i finanziamenti in nero. La nascita della rete Gladio/Stay behind, è il frutto di un’azione combinata di USA, Gran Bretagna e Italia all’interno della quale il ruolo del Governo De Gasperi è tutt’altro che secondario o subordinato, come documentato  dall’incontro avvenuto a Roma il 29 dicembre del 1947, tra De Gasperi e Antony Eden nel quale il primo dichiarava di aver «incaricato uno dei nuovi vicepresidenti del Consiglio e leader del Partito repubblicano [Randolfo Pacciardi] di agire in qualità di presidente di una sorta di comitato per la difesa civile». Nel contesto di «guerra a bassa intensità» che la contrapposizione per blocchi determinava, rientrava anche un disegno di legge presentato nell’ottobre 1950 dal Ministro dell’Interno Scelba inerente «disposizioni per la difesa della popolazione civile in caso di guerra o di calamità». Si trattava dell’attuazione dell’articolo 3 del Patto Atlantico , esso «impegnava i contraenti ad adottare, con uniformità criteri organizzativi, predisposizioni e misure atte a migliorare la resistenza interna». La legge Scelba attribuiva al Ministero dell’Interno un ruolo di eccezionale preminenza nello stesso Consiglio dei Ministri e più in generale nel funzionamento degli apparati statali, dando vita ad una zona grigia  di sovranità parallela senza garanzie di verifica democratica. Attraverso il Disegno di Legge il Parlamento avrebbe dovuto concedere una ampia delega di poteri per una materia tanto delicata, come le garanzie della libertà dei cittadini e dei diritti civili più in generale, assegnando un ruolo debordante al Ministro dell’Interno sia per la sua centralità nel Governo sia la prerogativa riconosciutagli di scegliere personalmente, organizzare e dirigere, non solo la Polizia e Carabinieri ma anche una non ben identificata «milizia per la difesa civile».  In questo modo il Ministro sarebbe diventato titolare di prerogative e discrezionalità capaci di mettere in ombra lo stesso Presidente del Consiglio e sicuramente il Parlamento.

Nel 1951 a Washington De Gasperi sollecitò un’azione psicologica efficace per far comprendere che l’alleanza atlantica non era solo di tipo militare. Tra le azioni da condurre sul piano interno rientravano i licenziamenti dei lavoratori comunisti nel porto di Livorno, alla Fiat, negli arsenali di Taranto e La Spezia. Il segretario di Stato americano Dean Acheson a sua volta invitò il Ministro della difesa Pacciardi, sempre attivissimo su questo versante, a servirsi dell’aiuto dei due nuovi sindacati, CISL e UIL, nati nel 1950, per individuare e colpire i lavoratori comunisti che lavoravano per le imprese con commesse americane. Nel dicembre 1951-52 lo Psycological Strategy Board predispose il Piano Demagnetize, poi approvato dal segretario alla difesa nell’aprile. Esso prevedeva la creazione di una struttura di consultazione presso gli ambasciatori USA a Roma e Parigi, ed una serie di iniziative alcune delle quali erano qualificate come “operazioni paramilitari”.

La strategia della tensione ha rappresentato qualcosa di più del semplice succedersi delle stragi e dei connessi tentativi di colpo di Stato. Essa è stata, insieme, la più evidente manifestazione dei condizionamenti imposti alla sovranità del nostro Stato e il reagente che ha fuso in un’unica micidiale miscela le principali espressioni di devianza del potere (servizi deviati, poteri occulti, finanza corsara). Come scrive il giudice Guido Salvino: “tutti questi eventi non avrebbero potuto ripetersi se non fossero stati inquadrati in un disegno politico strategico comune, con tutta probabilità, il mantenimento del nostro paese nel campo dell’Alleanza Atlantica” [2].

Per iniziare a distinguere e riconoscere gli elementi di questa «micidiale miscela» la perizia della Commissione parlamentare stragi costituisce una pietra angolare. Soffermarsi in dettaglio sui risultati di tale perizia è fondamentale per poter poi affrontare il tema in termini più ampi, partendo però da un quadro storico e documentale solido ed attendibile. La documentazione attestante le modalità di contrasto del comunismo italiano è stata in gran parte pubblicata nella raccolta Foreign Relation of the United States, o sono comunque rintracciabili nei fondi del National Security Council. Il primo documento preso in esame è il rapporto del Nsc n.1/2  del 10 febbraio 1948. Tale direttiva prevedeva, nell’ipotesi in cui la penisola italiana fosse caduta in mano ai comunisti, un’azione articolata in sette punti e predisponeva un piano per il concentramento di forze in Sardegna o in Sicilia (o in entrambe le isole), con il consenso del governo italiano e a seguito di consultazioni con l’Inghilterra. La Sardegna sarebbe dovuta essere la “Taiwan del Mediterraneo”. Anche una vittoria legale, e non solo l’insurrezione da parte del Blocco popolare, avrebbe messo a rischio gli interessi e la sicurezza degli USA e anche per questa ipotesi dunque era predisposto un piano di interventi basato sulla pianificazione militare congiunta con altre nazioni e la fornitura ai gruppi anticomunisti di piena assistenza finanziaria e militare. Analoghi interventi erano presenti nelle direttive emanate dal Nsc del gennaio 1951, rispetto alle quali però è rimasto segreto il punto delle misure da adottare in caso di conquista legale del governo da parte del Pci, per alcuni omissis. Seguì poi il documento dell’Nsc 5411/2 in gran parte censurato.  Lo studio di tali documenti andava però integrata con altre disposizioni del Nsc definite «covert operations» del 18 giugno 1948. Si trattava di una serie di misure legali ed illegali rispetto alle quali non si sarebbe potuto e dovuto risalire alle responsabilità ultime del governo americano. Più precisamente la direttiva 10/2 parla di:

azioni preventive dirette, compresi sabotaggio, antisabotaggio, misure di demolizione ed evacuazione; sovversione contro Stati ostili, compresa assistenza a gruppi clandestini, gruppi di guerriglia e di liberazione di rifugiati, e appoggio ad elementi anticomunisti indigeni nei paesi minacciati del mondo libero[3].

Tali operazioni non includevano conflitti armati con forze militari riconosciute o riconoscibili, ma non escludevano certo l’impiego di metodi militari di contrasto. Il Nsc delegava per tali operazioni un settore della CIA denominato Office of Special Projects. La direttiva successiva del marzo 1954 prevedeva palesemente interventi di tale natura. In essa compare, sembra per la prima volta, l’espresione «Stay Behind» per indicare la struttura di contrasto anticomunista:

sviluppare la resistenza clandestina e facilitare operazioni coperte di guerriglia e di assicurare la reperibilità di quelle forze in caso di guerre, comprendendo, ovunque possibile, previsioni di una base in cui i militari possano espandere queste forze in tempo di guerra […] come a previsione di reti Stay Behind  e strutture per la fuga e l’esfiltrazione[4]

Nella stessa direzione operava il piano predisposto dalla commissione «C» del Psycological Strategy Board  per il governo italiano contro i cittadini di “orientamento sovversivo”. Esso prevedeva la rimozione dei comunisti dalle cariche amministrative, da scuole e università, degli enti assistenziali; la discriminazione delle ditte che impiegavano mano d’opera comunista; agire legislativamente e amministrativamente per prosciugare le fonti di reddito del PCI (interventi ad esempio finalizzati al fallimento delle cooperative e delle società import-export ad esso legate). Esso tuttavia prevedeva anche una serie di interventi del governo americano finalizzati a screditare il PCI e le organizzazioni ad essa legate; la distruzione delle figure di spicco e della rispettabilità del PCI; la compromissione dei comunisti che ricoprivano cariche pubbliche e la costruzione in laboratorio di scandali riguardanti i leader del PCI. Non è superfluo sottolineare, soprattutto se si tiene conto del dibattito storiografico-politico sulla Resistenza negli ultimi sessanta anni, che tale intervento espressamente si poneva l’obiettivo di screditare e sminuire il ruolo svolto dai comunisti nella liberazione dal nazi-fascismo durante la seconda guerra mondiale. Ma il documento che con maggior chiarezza delinea gli aspetti illegali dell’intervento – in caso di vittoria elettorale delle sinistre – è sicuramente il «supplemento B» al Field Manual 30-31, firmato il 18 marzo 1970 dal generale Westmoreland e sequestrato in una borsa della signora Maria Grazia Gelli nell’aeroporto di Fiumicino il 4 luglio 1981[5].

Mentre il Field Manual A si limitava a delineare le operazioni congiunte del governo USA e di quello ospite per garantirne la stabilità contro l’insorgenza, nel supplemento B, invece, si consideravano gli stessi enti del paese ospite come bersagli dei servizi dell’esercito USA. In questo supplemento era precisato che gli USA si sarebbero concessi una ampia gamma di flessibilità in materia di rapporti con il governo ospite, e a tal fine predisponeva operazioni di controinsorgenza «condotte in nome della libertà e della democrazia», nell’ipotesi di elezione di un governo ritenuto ostile. Nella definizione dei regimi da appoggiare si precisava la preferenza, di fronte all’opinione pubblica mondiale, verso il mantenimento di una «facciata democratica», anche non era certo una condizione imprescindibile per avere il sostegno del governo americano. Più in dettaglio, per soddisfare i criteri di sostegno USA, l’articolazione democratica doveva avere un prerequisito irrinunciabile, la posizione anticomunista sul piano interno e internazionale. Per predisporre una relazione coerente con gli intendimenti del governo americano il «supplemento B» indicava come obiettivo il reclutamento di membri di spicco delle agenzie di sicurezza del paese ospite, in qualità di agenti dei servizi USA, sollecitando questa azione verso gli ufficiali dell’esercito. In questa sottolineatura si può chiaramente delineare l’origine del fenomeno a lungo manifestatosi dei cosiddetti «servizi deviati». La tipologia di intervento prevista era strettamente clandestina e segnata da una dichiarata spregiudicatezza operativa: veniva prevista l’opera di infiltrazione tra le fila dell’estrema sinistra da parte di agenti dei servizi per rendere tali organizzazioni protagoniste di azioni violente, atte a superare le timidezze o le passività del governo ospite verso le organizzazioni di ispirazione comunista. Dunque l’infiltrazione e l’utilizzo spregiudicato dei gruppi di estrema sinistra era finalizzato a suscitare un clima politico favorevole alle azioni di contrasto e repressione. Una modalità di intervento riemersa nel documento Notre action politique, sequestrato nel 1974 a Lisbona presso la Aginter Press, organismo che, dietro la copertura di agenzia giornalistica, nascondeva in realtà una struttura di spionaggio e di «cover actions»,  programmando l’instaurazione del caos in tutte le articolazioni dello Stato sotto la copertura di organizzazioni radicali comuniste.

Sempre su questo piano, nel 1975, la Commissione Rockefeller preparò per il presidente Ford un documento, desecretato nel 1977, denominato «Chaos» che aveva il preciso scopo di infiltrare gruppi, partiti e associazioni della sinistra extraparlamentare in Italia, Francia, Spagna e Germania Ovest. Si trattava di un’operazione nata nell’agosto del 1967 il cui termine era previsto nel 1973. In più di un approfondimento è stata rilevata una strana  coincidenza temporale tra queste operazioni e l’inizio della strategia della tensione in Italia, prima con gli attentati alla Fiera e alla Stazione di Milano, quindi con  la strage di piazza Fontana.

L’approfondimento di questo quadro è essenziale per fornire una panoramica articolata del tema violenza e politica nel secondo dopoguerra, sia perché serve a delineare il piano di azione in difesa dello stato di cose esistenti, sia perché esso ha imposto una serie di implicazioni che oggettivamente sono riuscite ad inquinare lo stesso sviluppo delle organizzazioni della sinistra in rapporto a questo tema. Il punto nodale consiste nel comprendere (ma questo spetta a una ricerca più approfondita per la cui realizzazione occorrono anni) quanto l’infiltrazione e la pressione interessata verso le organizzazioni di sinistra, in modo da favorire l’acuirsi dello scontro in termini militari, abbia influito sul piano teorico e pratico nella vita di queste organizzazioni.

La documentazione sequestrata nell’archivio della VII divisione del Sismi, darebbe una prima risposta alla domanda fondamentale che emerge dalla vicenda di Gladio: la struttura non era esclusivamente finalizzata a proteggere il territorio italiano  da una possibile invasione di eserciti nemici, ma aveva una proiezione interna tutta orientata al contrasto di una possibile vittoria elettorale, e al conseguente ingresso nell’area di governo, della sinistra. A questo compito se ne affiancava un altro legato alla necessità di bloccare agitazioni e movimenti potenzialmente in grado di influire sulla collocazione internazionale del paese e sui suoi assetti socio-politici. Questo smentirebbe le affermazioni di dirigenti della struttura e dei servizi segreti, così come dei politici  avvicendatisi alla direzione del Ministero dell’Interno, secondo i quali Gladio aveva solo una funzione di difesa da possibili aggressioni esterne. Al di là di quella documentazione, questa versione sarebbe smentita dalla stessa storia dei gruppi che hanno preceduto Gladio, a partire dalla Osoppo, e della stessa rete Stay Behind. Così i dirigenti di Gladio periodicamente prendevano parte a stage negli Usa o in Gran Bretagna nei quali l’oggetto di studio era l’ideologia comunista e i diversi modi per contrastarne l’avanzata, sovversiva o democratica che fosse. La perizia curata da Giuseppe De Lutiis[6] riporta diversi appuntamenti di questo tipo. Anzitutto il corso tenutosi negli Usa tra l’ottobre e il novembre del 1957, al quale presero parte quattro ufficiali della rete, il cui tema di approfondimento era stato così sintetizzato dagli agenti italiani: «teoria e prassi del comunismo con particolare riguardo alle sue modalità di infiltrazione nei vari settori del paese, per la conquista democratica del potere. Le varie fasi per il consolidamento del potere in un territorio conquistato democraticamente e quelle per il consolidamento del potere in un territorio occupato militarmente». Ma oltre a questi corsi ci sono i verbali delle riunioni tra i capi di Gladio e i relativi documenti che attestano come l’obiettivo della difesa da aggressioni esterne diviene presto secondaria rispetto alla guerra psicologica interna. A questa finalità rispondevano i corsi di «counter-insurgency», dedicati agli aderenti della struttura Stay Behind, e alle relative esercitazioni come l’operazione «Delfino». Documenti del 1963, recuperati dalla Commissione parlamentare stragi, attestano chiaramente l’esistenza di corsi organizzati segretamente da apparati dello Stato per addestrare militari e civili a svolgere azioni di natura non precisata contro partiti regolarmente costituiti e presenti nelle istituzioni democratiche.

Essi erano finalizzati alla operatività degli agenti in funzione propagandistica, di contro-propaganda e di disturbo, ma anche alla predisposizione di altri corsi per militari e civili in modo da sviluppare presso gli ufficiali delle Forze Armate un’azione coordinata con le finalità dell’operazione Stay Behind. È da sottolineare la coincidenza temporale tra i corsi e l’intensa attività di arruolamento di personale civile per scopi non ben definiti da parte del colonnello Renzo Rocca, a capo dell’Ufficio Ricerche economiche ed industriali (Rei) del Sifar. Un’organizzazione nata per salvaguardare la  segretezza dei brevetti industriali di settori strategici, specie quelli di armi, ma nella realtà prodigatasi a rastrellare finanziamenti “antisovversivi” tra i grandi industriali, da ripartire poi a partiti, correnti, giornali, gruppi e singoli politici. Il rastrellamento di risorse era compensato poi con commesse militari, appalti e licenze per l’esportazione di armi[7]. Nella relazione della Commissione parlamentare sui fatti del giugno luglio 1964, era stato chiarito che nell’estate del 1963 il colonnello Rocca si era recato in Liguria e Piemonte a prendere contatti con ex militari, ex paracadutisti, ex militi della X Mas al fine di arruolarli nella struttura informativa, per conto del Sifar. Tutta questa intensa attività di arruolamento e addestramento di nuclei speciali era strettamente legata ai movimenti del Generale De Lorenzo. Si trattava di nuclei d’azione allestiti e subito operativi pronti ad intervenire in vista del colpo di Stato.

Sicuramente dietro al Piano Solo non c’era solo Gladio, ma esisteva una organicità tra la struttura e i piani di golpe. Non a caso De Lorenzo, a capo del Sifar tra il 1958 e il ’62, è stato di fatto il fondatore di Gladio. Di certo non è ipotizzabile che l’uso spregiudicato dell’Arma dei carabinieri e del Sifar per funzioni politiche di contrasto anticomunista potesse essere sconosciuto all’organismo ufficialmente preposto a quell’attività. Com’è noto, è confermato dallo stesso generale De Lorenzo,  qualora il colpo di Stato fosse andato a buon fine, i cittadini compresi nella famigerata lista nera (politici, sindacalisti, uomini della cultura di sinistra) sarebbero stati deportati proprio nella base operativa di Gladio a Capo Marrargiu. In questa realtà si inseriva poi Convegno sulla «guerra rivoluzionaria», svoltosi all’Hotel Parco dei Principi di Roma il 3-4-5 maggio del 1965, che è estremamente importante perché in essa si avvia l’incrocio perverso tra Forze Armate, servizi e le nascenti organizzazioni dell’eversione neofascista

Prima di quest’appuntamento, tra il 15 e il 24 aprile del 1963, si svolse nei pressi di Trieste la famosa esercitazione per azioni di insorgenza e contro insorgenza denominata «Delfino». L’operazione doveva intervenire a «contenere i germi» di una possibile insorgenza da parte di gruppi estremistici nel nord Italia. In realtà, anche in questo caso, dai resoconti e dai documenti, emerge che l’esercitazione era mossa da valutazioni e previsioni di interevento su situazioni politiche che esulavano totalmente dalle prerogative di una istituzione militare. Così si prospettavano i rischi legati all’affermazione di una amministrazione di centro sinistra a Trieste, venivano formulate proiezioni sull’andamento elettorale del PCI e si prospettavano ambiti di intervento possibili (propaganda e comunicazione) per contrastarne l’avanzata in vista delle elezioni amministrative. Questo insieme di elementi fornisce una conferma documentale e probatoria su una valutazione che in ambito politico era già una certezza: la limitazione costante della sovranità popolare e democratica nel nostro paese. Una limitazione espressasi attraverso l’esercizio sistematico della violenza che ha drogato il dibattito politico e condizionato la normale dialettica economico-sociale dell’Italia nel dopo guerra.

Il condizionamento violento della vita democratica e del corretto funzionamento istituzionale, ha portato apparati dello Stato a servirsi del sabotaggio contro le istruttorie della magistratura  per l’individuazione di mandanti ed esecutori delle stragi. Apparati dello Stato hanno preso parte a tentativi golpistici, hanno condotto operazioni di provocazione politica, hanno svolto attività di fiancheggiamento sostegno ed in alcuni casi di direzione dell’attività terroristica, hanno favorito la fuga all’estero dei presunti responsabili. Non si può non tenere conto di tutto questo nel considerare le intricate vicende del terrorismo in Italia, perché verrebbe meno una premessa fondamentale senza la quale la semplice analisi storica e concettuale sarebbe parziale, per non dire inutile. Oltre a presentare la rete Stay Behind come funzionale alla mera difesa da minacce esterne, gli alti ufficiali e i rappresentanti istituzionali coinvolti hanno cercato di limitare le proprie responsabilità attraverso il teorema delle «mele marce». Secondo questa tesi le violazioni della legalità e le più inquietanti zone d’ombra tra attività dello Stato ed eversione terroristica, sarebbero il risultato della spregiudicatezza operativa di cui singoli elementi dei servizi, rispetto alla quale né i vertici né la struttura più complessiva delle Forze Armate avrebbero colpe.

Anche su questo le indagini della Commissione parlamentare stragi hanno dimostrato altro, ponendo in luce non solo la responsabilità di singoli subalterni troppo zelanti, ma il coinvolgimento dell’intera catena di comando, così come è emersa la continuità storica delle “deviazioni operative”. Detta in altri termini, il turn over delle diverse generazioni di ufficiali dei servizi ha portato spesso le nuove leve a proseguire le attività illegali dei loro predecessori, pur nella consapevolezza che quel modo di operare era totalmente al di fuori dal diritto. Ciò è accaduto in diversi frangenti: nel 1968, quando i servizi hanno preparato il terreno alla stagione delle stragi, proprio mentre veniva alla luce lo scandalo Sifar di De Lorenzo; nel 1973, quando furono proprio i servizi ad attivare la rete delle organizzazioni eversive denominata Rosa dei venti, mentre emergevano le responsabilità oggettive di Piazza Fontana; nel 1978, quando i nuovi dirigenti dei servizi riformati ripresero da dove avevano lasciato i vecchi, proseguendo i tradizionali canali di illegalità, basti pensare alla strage di Bologna e a quella di Ustica.

Tra le tante continuità nell’azione dei servizi un posto d’onore spetta ai rapporti con la massoneria. Già Giuseppe Pièche – durante il fascismo  a capo della III sezione del Sim e uomo dell’Ovra – che nel dopoguerra è indicato come l’eminenza grigia del ministero dell’Interno, è stato a lungo Sovrano Gran Commendatore del rito scozzese di Piazza del Gesù. La perizia riporta lo stralcio di una lettera inviata da un importante massone del Grande Oriente che costituisce uno dei primi documenti capaci di portare luce sul fenomeno:

In occasione dell’Agape bianca tenutasi all’Hilton nella ricorrenza del 20 settembre, il fratello colonnello Gelli, della loggia “P”, avrebbe comunicato al fratello Salvini che il Gran Maestro avrebbe iniziato sulla spada quattrocento alti ufficiali dell’esercito al fine di predisporre un “governo dei colonnelli” sempre preferibile a un governo dei comunisti. Sarebbero anche stati iniziati o in via di esserlo anche alcuni grossi personaggi della DC[8] .

I riscontri oggettivi sul significato politico di questa iniziazione sono tanti, tra i vari, De Lutiis nella sua perizia cita la deposizione nel 1977,  al processo per la strage di piazza Fontana tenutosi a Catanzaro, del capo della polizia Vicari che parlò della minaccia di un golpe nell’estate del 1969 descrivendolo come uno dei più seri tentativi messi in opera al tempo. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta la loggia P2 diviene una realtà di confluenza e incontro tra figure eminenti della vita economica, politica, giudiziaria, militare ed eversiva del paese. In questo periodo si ha uno spostamento dei personaggi di spicco delle forze armate dalle logge tradizionali alla P2. Alla P2 aderiscono tutti i generali coinvolti nel Piano Solo del giugno luglio 1964 (Giovanni Allavena, Luigi Bittoni, Romolo Dalla Chiesa, Franco Picchiotti) mentre gli stessi generali Aloja e De Lorenzo aderiscono alla loggia coperta all’obbedienza di Piazza del Gesù, la quale confluisce a sua volta nella P2 nel 1973. Nella P2 confluiscono anche le due anime dei servizi segreti che vengono definite da De Lutiis una apertamente golpistica (quella guidata da Vito Miceli) e una apparentemente più fedele alle istituzioni (quella del capo dell’ufficio D, generale Maletti). Così come per il «Piano Solo», anche i promotori del tentato golpe «Borghese» erano tutti aderenti alla loggia P2 (il generale Miceli, Filippo De Iorio, gli ufficiali dell’aeronautica Giuseppe Lo Vecchio e Giuseppe Casero). Sarebbero stati massoni anche lo stesso Borghese, il suo braccio destro Remo Orlandini e l’ex ufficiale dei parà Sandro Saccucci, che ebbe un ruolo di primo piano nel fallito golpe. Come è noto parteciparono al tentato golpe lo stesso Gelli e l’ammiraglio Torrisi, il cui nome sarebbe stato cassato dall’elenco degli aderenti alla P2 al momento della pubblicizzazione, per volontà del Sid, che lo consegnò alla magistratura.

Un passaggio nodale del rapporto tra massoneria e ambienti militari sarebbe rappresentato dalla riunione tenuta a villa Wanda convocata da Licio Gelli. A quella riunione presero parte il generale Palombo, comandante della divisione carabinieri Pastrengo di Milano, il colonnello Calabrese, il generale Picchiotti, comandante della divisione carabinieri Podgora di Roma, il generale Bittoni, comandante della brigata carabinieri di Firenze, il colonnello Musumeci, diventato nel 1978 capo dell’Ufficio controllo e sicurezza del Sismi, e il procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma Carmelo Spagnuolo. Pare che in quella riunione le aspirazioni golpiste dei congiurati passasse per un governo presieduto proprio dal magistrato Spagnuolo. A metà degli anni settanta si sarebbe però determinato un mutamento di strategia nella P2, in linea con il cambiamento degli Usa che ebbe come conseguenza l’abbandono dei regimi fascisti di Portogallo e Grecia, caduti poi nel giro di pochi mesi. In questa fase (1976) Licio Gelli avanza il “Piano di Rinascita Democratica”, non propone più il colpo di Stato militare “modello sudamericano” a conclusione di una fase convulsa di destabilizzazione terroristica, ma una riforma istituzionale più morbida e meno traumatica nelle modalità di attuazione. Insomma il passaggio del testimone dai militari ai più sofisticati strumenti di conquista egemonica della società: giornali, partiti, movimenti d’opinione, intellettuali mobilitati. Questo non significa certo che Gelli e la P2 abbandonino le relazioni oscure con l’eversione neofascista e con gli ambienti golpisti di esercito e servizi segreti, anzi. La componente piduista nei servizi dopo la riforma del 1977 è ancora più spregiudicata e aggressiva nelle sue attività illegali. L’operato del Sismi tra il 1978 e l’81 con a capo Musumeci, Santovito e con l’organica attività di Pazienza (non inserito in alcun ruolo istituzionale eppure uomo chiave dei servizi), riesce a moltiplicare i versanti di deviazione e iniziative illegali, non limitandosi più a proteggere latitanti di destra e sospetti autori di stragi. Le trattative con camorra e BR per l’operazione di Cirillo, i depistaggi sulle indagini alla strage di Bologna del 2 giugno 1980, le macchinazioni a danno del Presidente della Repubblica erano tutti il segno di un’articolazione sempre più intensa da parte del Supersismi. Tuttavia, il versante più inquietante dell’attività dei servizi resta senz’altro quello relativo ai rapporti strettissimi con la galassia dei gruppi eversivi neofascisti: da Ordine nuovo al Movimento di azione rivoluzionaria; dalle Squadre di azione Mussolini a Ordine nero; dal Fronte nazionale alla Rosa dei venti, dai NAR a Terza posizione.

Come dimostrano le vicende del famigerato “Centro Scorpione”[9] di Trapani, messo in piedi dagli stessi protagonisti di Gladio proprio in concomitanza con il Maxiprocesso, in questa storia un altro versante fondamentale di approfondimento riguarda il ruolo delle organizzazioni malavitose, dunque la trattativa Stato-mafia non può certo essere circoscritta alla stagione stragista dei primi anni Novanta. Come è oramai appurata la sinergia tra apparati dello Stato ed eversione neofascista per difendere gli equilibri politico sociali, consolidatisi a partire dalle elezioni del 1948, così il rapporto con organizzazioni malavitose come la mafia è un dato organico della storia di questo Paese, specie nelle sue fasi di crisi. Come altre volte in passato, la magistratura ha iniziato a fare chiarezza su certe inconfessabili modalità, del tutto antidemocratiche, di autodifesa del potere politico in questo Paese. Chiarite le verita processuali, speriamo, su questo dovranno interrogarsi gli storici in  futuro, indagando senza blocchi e autocensure le storie individuali e collettive delle classi dirigenti italiane con tutte le loro contraddizioni. Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia sarebbe potuto essere un’occasione propizia per iniziare a farlo, purtroppo, in gran parte, si è preferita strada dell’agiografia, la rappresentazione retorica e oleografica di un grande album di famiglia nel quale tutti gli italiani avrebbero dovuto riconoscersi.

 

 


[1] Paolo Cucchiarelli -Aldo Giannulli, Lo Stato parallelo. L’Italia oscura nei documenti e nelle relazioni della Commissione stragi.. Gamberetti Editrice, Roma 1997, pp. 32, 33.

[2] Ivi, pag. 13

[3] Direttiva dell’Executive Secretary dell’Office of special Projects al National Security Council, del 18 giugno 1948. Volume IV, pag. 545

[4] Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, XI Legislatura, Vol.VII, Tomo I, pp. 287-298.

[5] Ivi, pag. 288-295

[6]Lo straordinario approfondimento di Giuseppe De Lutiis, che raccoglie il lavoro dello storico per la Commissione parlamentare stragi, risultante dallo studio delle 105.000 pagine sequestrate dalla magistratura negli uffici del Sismi, ha trovato pubblicazione nel testo: G. De Lutiis, Il lato oscuro del potere, associazioni politiche e strutture paramilitari segrete al 1946 ad oggi, Editori Riuniti, Roma, 1996.

[7] Ruggero Zangrandi, Inchiesta sul Sifar, Editori Riuniti, Roma, 1970.

[8] Lettera del 23 settembre 1969 inviata all’agronomo Prisco Brilli, consigliere  dell’Ordine del Grande Oriente d’Italia, all’ingegnere Francesco Siniscalchi. Atti della commissione parlamentare sulla loggia P2.

[9] Tra le tante anomale articolazioni di Gladio, che meriterebbero attenzione e ulteriori approfondimenti – specie ora che riemerge con consistenza l’ombra inquietante dei servizi segreti sulla strage del giudice Borsellino e della sua scorta – c’è sicuramente il Centro Scorpione istituito dalla struttura di Gladio a Trapani nel 1987, proprio nel periodo in cui si celebrava il Maxiprocesso alla mafia (sviluppatosi tra il 10 febbraio 1986 e il 16 dicembre 1987). Le anomalie mai chiarite di questo centro sono molteplici, tuttavia, nel periodo e nel territorio in cui operò il Centro Scorpione vi furono alcuni omicidi eccellenti ed emblematici insieme: Giuseppe Insalacco (per tre mesi sindaco di Palermo nel 1984), protagonista di clamorose denunce delle collusioni tra mafia e politica, ascoltato anche dalla Commissione antimafia. Insalacco fu ucciso insieme al suo autista il 12 gennaio 1988. Dopo la morte fu trovato un suo memoriale in cui accusava diversi esponenti della DC palermitana, per la commistione con la mafia nel sistema di gestione degli appalti e del potere cittadino; il giudice Antonio Saetta, impegnato in numerosi processi alla mafia. Saetta in particolare si trovò a presiedere il processo a Giuseppe Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonna, per l’uccisione al capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Il processo, conclusosi in primo grado con una sorprendente e molto discussa assoluzione, decretò, invece, in appello, la condanna degli imputati alla massima pena, nonostante i tentativi di condizionamento effettuati sulla giuria popolare, e, forse, sui medesimi giudici togati. Pochi mesi dopo questa sentenza, il 25 settembre 1988, il Giudice Antonio Saetta e il figlio Stefano vennero assassinati; Giovanni Bontate – fratello del boss Stefano, secondo i collaboratori di giustizia molto vicino ai vertici nazionali e regionali della DC, assassinato nel 1981 – coinvolto nel maxiprocesso e ucciso insieme alla moglie il 28 settembre 1988; Mauro Rostagno, impegnato nella lotta per il recupero dei tossicodipendenti in Sicilia e in prima linea nel denunciare gli intrecci tra mafia e politica, ucciso il 26 settembre del 1988. Ora, anche senza lasciarsi andare a troppe congetture, è quantomeno singolare che una struttura d’intelligencedotata di mezzi (persino un aereo e una pista d’atterraggio a propria disposizione), operante in quel territorio, non fosse stata in grado di reperire informazioni utili prima e dopo i diversi omicidi. Nella struttura peraltro operava un agente di spicco come Vincenzo Li Causi, coinvolto in diverse vicende poco chiare e dai profili decisamente illegali.

 

Bibliografia di riferimento:

AA/VV, Dimensioni del terrorismo politico, Angeli, Milano 1979;

AA/VV, La guerra dei sette anni, Dossier sul bandito Giuliano, Rubettino, 1997

AA/VV Le parole e la lotta armata.  Storia vissuta e sinistra militante in Italia, Germania e Svizzera, a cura di Primo Moroni, Universale Shake, Milano, 1999.

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D. Barbieri, Agenda nera: trent’anni di neofascismo in Italia / Daniele Barbieri. Roma, Coines, 1976.

F. Battistelli, Gli italiani e la guerra, Carocci, Roma 2004;

Emanuele Bettini Gladio la Repubblica parallela Ediesse, Roma, 1996.

L. Bonanate, La politica internazionale fra terrorismo e guerra, Laterza Roma-Bari 2004

Silvia Casilio, Il cielo è caduto sulla terra! Politica  e violenza nell’estrema sinistra in Italia. Edizioni Associate, Roma, 2005.

L. Castellano, a cura di. Aut. Op. La storia e i documenti dell’ Autonomia organizzata, Savelli, Perugina, 1980

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Giorgio Cingolati, La destra in armi : neofascisti italiani tra ribellismo ed eversione /. Roma, Editori riuniti, 1996.

A. M. Dershowitz, Terrorismo, Carocci, Roma 2003;

Giuseppe De Lutiis, Il lato oscuro del potere, associazioni politiche e strutture paramilitari segrete al 1946 ad oggi, Editori Riuniti, Roma, 1996

Donatella della Porta, Il terrorismo di sinistra., Il Mulino, Bologna, 1990.

M. Flores, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, Milano 2005;

I. Fetscher, Terrorismo e reazione, Il Saggiatore, Milano 1979.

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W. Laqueur, Il nuovo terrorismo, Corbaccio, Milano 2002;

A cura di A. Natoli, Antifascismo e partito armato. Crisi di egemonia ed origini del terrorismo. Ghiron, Genova, 1979.

M. Juergensmeyer, Terroristi in nome di Dio, Laterza, Roma-Bari 2003.

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. Perrone, De Gasperi e l’America. Un dominio pieno e incontrollato, Sellerio, Palermo, 1995.

C. Reuter,  Storia e psicologia del terrorismo suicida, Longanesi , Milano 2004

U. Santino La democrazia bloccata. La strage di Portella della Ginestra e l’emarginazione della sinistra. Rubettino 1997.

 

 

Unesp Marìlia Brasil.VI SEMINÁRIO INTERNACIONAL – TEORIA POLÍTICA DO SOCIALISMO: “LENIN 90 ANOS DEPOIS: POLÍTICA, FILOSOFIA E REVOLUÇÃO”.

VI SEMINÁRIO INTERNACIONAL – TEORIA POLÍTICA DO SOCIALISMO

“LENIN 90 ANOS DEPOIS: POLÍTICA, FILOSOFIA E REVOLUÇÃO”

 

Data: de 25 a 27 de novembro de 2014.

Local: Universidade Estadual Paulista – Faculdade de Filosofia e Ciências/ Marília.

 

Promoção

Programa de Pós-Graduação em Ciências Sociais

Departamento de Ciências Políticas e Econômicas

Grupo de Pesquisa Cultura e Política do Mundo do Trabalho

Núcleo de Estudos de Ontologia Marxiana (NEOM)

Grupo de Pesquisa Pensamento Político Brasileiro e Latino-Americano

Grupo de Estudos Trabalho e Capital na Cidade

Grupo de Estudos Militares e a Esquerda Militar no Brasil

Grupo de Estudos Trabalho, Movimentos Sociais e Sociabilidade Contemporânea

Instituto Astrojildo Pereira

Instituto Caio Prado Júnior

Coordenação Geral

Anderson Deo

Antonio Carlos Mazzeo

Marcos Del Roio

 

Programa:

 Data: de 25 a 27 de novembro de 2014.

Local: Universidade Estadual Paulista (UNESP) – Faculdade de Filosofia e Ciências/Campus de Marília.

Cronograma de Atividades

Terça-Feira: 25/11/2014 – Tarde

Cadastramento Presencial / Retirada de Material

Horário: 14:00 – 17:00

Local: SAEPE / Saguão de Entrada da FFC

Terça-Feira: 25/11/2014 – Noite

 Cerimônia de Abertura – Apresentação Musical – Grupo de alunos da Unesp

Mesa de abertura:

Anderson Deo (Unesp/Marília)

José Carlos Miguel – Diretor FFC

           Paulo Eduardo Teixeira – (DCPE/Unesp)

           Luis Antonio Francisco de Souza (Pós-Graduação/Unesp)

Horário: 19:00 – 20:00

Local: Anfiteatro I

Conferência de Abertura: Lenin 90 anos depois

Conferencista: Gianni Fresu (Università di Cagliari)

Coordenador: Anderson Deo (Unesp/Marília)

Horário: 20:00 – 22:30

Local: Anfiteatro 1

Quarta-Feira: 26/11/2014 – Manhã

Mesa de Debates: Partido político, análise histórica e ação concreta

Debatedores:

Antonio Carlos Mazzeo (Unesp/Marília)

Osvaldo Coggiola (USP)

Marco Vanzulli (Universidade de Milano-Bicocca)

Coordenador: Luiz Alexandre B. P. Júnior (PPGCS-Unesp)

Horário: 9:00 – 11:30

Local: Anfiteatro I

Quarta-Feira: 26/11/2014 – Tarde

Sessão de Comunicações I

Horário: 14:00 – 17:00

Local: salas de aula (a definir) – Prédio de atividades didáticas (FFC)

Mini-curso – Lenin e a crítica da economia política

 

Fernando Leitão Rocha Júnior (UFVJM)

Horário: 17:00 – 19:00

Local: Anfiteatro I

 Quarta-Feira: 26/11/2014 – Noite

Mesa de Debates: Estado, revolução e transição

Debatedores:

Jair Pinheiro (Unesp/Marília)

Mauro Iasi (UFRJ)

Milton Pinheiro (UNEB)

Coordenador: Rodolfo Sanches (PPGCS-Unesp)

Horário: 19:30 – 22:30

Local: Anfiteatro I

Quinta-Feira: 27/11/2014 – Manhã

Mesa de Debates: Luta de classes e luta revolucionária

Debatedores:

Ronaldo Coutinho (UFRJ/UFF)

Marcos Del Roio (Unesp/Marília)

Marcelo Braz (UFRJ)

Coordenador:  Rodrigo Bischoff Belli (Unesp/Marília)

Horário: 9:00 – 11:30

Local: Anfiteatro I

Quinta-Feira: 27/11/2014 – Tarde

 Mini-curso – Lenin como leitor de Clausewitz: guerra e revolução

Rodrigo Duarte Fernandes dos Passos (Unesp/Marília)

Horário: 16:00 – 18:00

Local: Anfiteatro I

Quinta-Feira: 27/11/2014 – Noite

Sessão de Lançamento de Livros

Coordenador: Angélica Lovatto (Unesp/Marília)

Horário: 18:00 – 19:00

Local: Anfiteatro I

 

Conferência de encerramento: Lukács leitor de Lenin

Conferencista: Antonino Infranca (Colegio Italiano de Barcelona / Espanha)

Coordenador: Anderson Deo (Unesp/Marília)

Horário: 19:30 – 22:30

 

Local: Anfiteatro I

 

Recensione al libro “Berlinguer Rivoluzionario” di G. Liguori. «La Nuova Sardegna», 17 giugno 2014.

 

Le idee di un comunista democratico.

«La Nuova Sardegna», 17 giugno 2014.

Recensione a Berlinguer rivoluzionario, di Guido Liguori (Carocci editore, Roma, 180 pgg. 13 euro)

Affrontare una figura monumentalizzata come Enrico Berlinguer, nel trentesimo anniversario della sua morte, è un lavoro assai rischioso. Sia per la qualità di alcuni lavori biografici del passato a lui dedicati (tra tutti quelli di Giuseppe Fiori, Chiara Valentini e Fracesco Barbagallo), sia per la peculiare congiuntura, dove le esigenze celebrative come le reazioni infastidite a esse producono senza posa atteggiamenti (speculari e complementari) agiografici o liquidatori. Entrambi questi approcci appiattiscono la figura di Berlinguer facendone semplicemente “un uomo buono” o un banale riformista. Entrambe queste visioni “passano in cavalleria” contraddizioni storiche e politiche che inevitabilmente non possono rendere lineare la biografia di un protagonista del nostro Novecento. Non è certo il caso dell’ultimo lavoro uscito su questo argomento, ciò anzitutto per le qualità intellettuali del suo autore. Guido Liguori è infatti uno dei più importanti studiosi al mondo di Antonio Gramsci, impegnato da anni in un lavoro scientifico e organizzativo (all’interno dell’International Gramsci Society) teso all’approfondimento e alla conoscenza dell’opera del pensatore sardo. Liguori è autore di numerose pubblicazioni, divenute punto di riferimento per gli studi gramsciani, ed è però anche studioso e autore di lavori sulla storia del PCI in generale, non solo su Berlinguer. Conoscere bene l’universo in cui si forma e opera l’ex segretario del PCI è un requisito essenziale che manca ad altre trattazioni, tutte concentrate sull’uomo e la sua bontà d’animo, tanto da decontestualizzare il suo retroterra ideologico e porre in secondo piano il significato politco della sua eredità teorica.

Senza trascurare gli aspetti umani della sua vicenda, Liguori costruisce una documentata biografia intellettuale attraverso la rilettura degli scritti politici di Berlinguer, attenendosi ai fatti con una narrazione sempre ben lontana da toni encomiastici. Oggi, in ossequio all’esigenze di beatificazione neutra, la sua figura è sovente rimasticata e rigurgitata in un formato santino, spendibile per ambienti interessati più alle anime belle che ai rivoluzionari. Così passano del tutto in secondo piano alcuni nodi politici, come la funzione del partito e la sua proiezione verso il cosidetto “fine ultimo” dell’agire comunista, che animarono invece scontri durissimi nel gruppo dirigente del PCI, procurando a Berlinguer una decisa opposizione interna nella Direzione del suo partito, ad esempio quella dell’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il rigore della ricostruzione storico-politica nel lavoro di Liguori è, al contrario, preziosa per farci comprendere “i pensieri lunghi” del politico sassarese, le sue “idee-forza”, per penetrare la sua costante “ricerca in corso” e dunque anche la dimensione non compiuta della sua elaborazione, in un contesto interno e internazionale marcato da gigantesche contraddizioni.

Prima questione, Guido Liguori ci presenta Berlinguer come un rivoluzionario, un comunista e democratico, chiarendo il rapporto organico e per nulla contraddittorio tra i due termini. Berlinguer ci rimanda a un’esperienza e a un tempo nel quale si guardava all’Italia come originale laboratorio politico, non solo per la presenza del più grande partito comunista dell’Occidente, in un Paese chiave per gli equilibri del Patto Atlantico, ma anche per il tentativo di rilancio sia dei suoi presupposti teorici, sia delle sue prospettive politiche in una fase di crisi del movimento a livello internazionale, soprattutto per le contraddizioni interne alla sua nazione guida. L’opera di Berlinguer, tesa a coniugare comunismo e democrazia, è spesso presentata come un unicum nella storia dell’organizzazione da lui guidata. In realtà essa affonda le sue radici nella peculiarità storica del PCI e in una lunga tradizione: senza abbandonare l’obiettivo del socialismo, quel partito (eccezion fatta per la breve fase della direzione bordighiana) pose sempre tra le sue coordinate il tema della lotta per le libertà democratiche. Pensiamo all’elaborazione gramsciana (dalle Tesi di Lione alle riflessioni carcerarie), alle categorie della democrazia progressiva di Togliatti e Curiel (nella Resistenza prima e nella stagione costituente poi), al ruolo giocato dal PCI contro i rigurgiti di sovversivismo reazionario delle classi dirigenti nazionali negli anni della strategia della tensione.

Seconda questione nodale, il libro prende le mosse dall’attualità del suo messaggio teorico e insieme dalla sua inattualità nella politica contemporanea italiana. L’autore, senza mai scadere nelle bagatelle della politica odierna e stando sempre sul versante di un’indagine storica, ci fornisce tra le righe alcune chiavi di lettura per trovare più di una risposta a un duplice quesito di fondo: “Perché oggi, al di là della retorica celebrativa, non vi sono più partiti di massa che possano dirsi eredi del suo lascito? Perché hanno vinto le idee e soprattutto il modus operandi dei suoi avversari di allora e dei loro seguaci odierni più o meno dichiarati?” A partire da questo nodo interpretativo, il libro di Liguori ci accompagna pagina per pagina alla scoperta del pensiero politico di un comunista democratico.

Gianni Fresu

“Madonna evoluzione” e materialismo storico: il rapporto Gramsci-Labriola

Madonna evoluzione” e materialismo storico: il rapporto Gramsci-Labriola

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International Gramsci Society
III Convegno internazionale di studi
Antonio Gramsci un sardo nel “mondo grande e terribile”
(Cagliari-Ghilarza-Ales 3-6 maggio 2007)

Di Gianni Fresu

La distanza di Antonio Gramsci dalle matrici filosofiche positiviste e del determinismo economico ha trovato più di una trattazione autorevole, tuttavia, ritornare su tale tema non è mai superfluo, almeno se si vuole cogliere uno degli elementi più caratteristici dell’elaborazione teorica gramsciana maggiormente presenti nel dibattito marxista del Novecento.
Nelle diverse fasi della sua attività, Gramsci ha sempre individuato nell’impostazione filosoficamente angusta data dai teorici della Seconda Internazionale al movimento socialista mondiale, uno dei limiti che maggiormente ha influito sulle deficienze socialismo italiano. Quando, tra Ottocento e Novecento, il marxismo si affermò nel movimento operaio, esso fu veicolato da intellettuali in gran parte dei casi giunti a Marx attraverso Darwin e lo studio positivistico delle scienze sociali. La diffusione del marxismo nel movimento operaio tedesco trovò due veicoli straordinari nel settimanale «Sozialdemocrat», pubblicato a Zurigo sotto la supervisione di Whilelm Liebknecht, e nella «Neue Zeit» nata nel settembre del 1882 a Salisburgo attorno a Kautsky, Liebknecht, Bebel e Dietz.
La «Neue Zeit» si affermò come la prima rivista teorica di un partito operaio e divenne il principale organo di approfondimento del marxismo nella Seconda Internazionale ; sull’opera di diffusone del marxismo da parte di questa rivista influì enormemente l’impostazione culturale dei suoi fondatori, nella quale il rapporto stesso con il marxismo risultava mediato dalle suggestioni positiviste, dalla fiducia nella scienza e nel progresso, dal primato assoluto attribuito alle scienze sociali. La storia di questa rivista, dei suoi dibattiti, delle sue svolte, è nei fatti la storia del marxismo della Seconda Internazionale, di cui Ernesto Ragionieri ha fornito una sintetica quanto efficace definizione: «Per marxismo della II Internazionale si intende in genere, una interpretazione ed elaborazione del marxismo che rivendica un carattere scientifico alla sua concezione della storia in quanto ne indica lo sviluppo in una necessaria successione di sistemi di produzione economica, secondo un processo evolutivo che soltanto al limite contempla la possibilità di rotture rivoluzionarie emergenti dallo sviluppo delle condizioni oggettive » .
Per Gramsci il marxismo è stato un momento fondamentale della cultura moderna capace di fecondare alcune correnti assai importanti al di fuori del proprio campo. Ciò nonostante, i «marxisti ufficiali» di fine Ottocento trascurarono questo fenomeno, perché il tramite tra il marxismo e la cultura moderna era rappresentato dalla filosofia idealista . Nelle sue note Gramsci ritornò più volte sulla doppia revisione subita dal marxismo tra Ottocento e Novecento: da un lato alcuni suoi elementi furono assorbiti da certe correnti idealistiche (Croce, Sorel, Bergson); dall’altra i cosiddetti «marxisti ufficiali», preoccupati di trovare una filosofia che contenesse il marxismo, la trovarono nelle derivazioni moderne del materialismo filosofico volgare o anche nel neo-kantismo. I «marxisti ufficiali» hanno cercato al di fuori del materialismo storico una concezione filosofica unitaria proprio perché la loro concezione si basava sull’idea dell’assoluta storicità del marxismo, come prodotto storico dell’azione combinata della rivoluzione francese e della rivoluzione industriale, mentre ne ignoravano completamente la matrice filosofica tedesca. In un tale contesto, all’interno del panorama marxista italiano, Labriola era per Gramsci il solo ad essersi distinto nel porre il marxismo come filosofia indipendente ed originale e aver cercato di «costruire scientificamente» la filosofia della praxis. Nei Quaderni 3 e 11, Gramsci definisce «stupefacente» il fatto che Trockij parlasse di dilettantismo in rapporto al marxismo di Labriola. In questa posizione egli vedeva un riflesso della «pedanteria pseudoscientifica» di intellettuali tedeschi come Kautsky, tanto influenti nella tradizione della socialdemocrazia russa e delle opinioni di Plechanov. In queste note si rilevava come la tendenza dominante avesse creato due correnti: una riconducibile al «materialismo volgare» ben rappresentato proprio da Plechanov, incapace per Gramsci di impostare il problema della cultura filosofica di Marx e dunque il tema delle «fonti del marxismo»; una tendenza opposta, sebbene creata dalla prima, impegnata a coniugare il marxismo con Kant, secondo cui, in ultima analisi, «il marxismo può essere sostenuto o integrato da qualsiasi filosofia». Nella «fase romantica della lotta», la poca fortuna di Labriola nella pubblicistica della socialdemocrazia, era dovuta all’eccessiva sottolineatura delle armi più immediate e dei problemi della tattica politica. Il quadro mutò al momento di edificare lo Stato socialista:

Dal momento che esiste un nuovo tipo di Stato, nasce concretamente il problema di una nuova civiltà e quindi la necessità di elaborare le concezioni più generali, le armi più raffinate e decisive. Ecco che Labriola deve essere rimesso in circolazione e la sua impostazione del problema filosofico deve essere fatta predominante. Questa è una lotta per la cultura superiore la parte positiva della lotta per la cultura che si manifesta in forma negativa e polemica con gli a-privati e gli anti- (anticlericalismo, ateismo ecc.). Questa è la forma moderna del laicismo tradizionale che è alla base del nuovo tipo di Stato .

Per Gramsci con lo sviluppo delle forze produttive e l’assunzione da parte della classi subalterne di funzioni dirigenti e non più delegate, le posizioni più primitive e meccanicistiche del marxismo andavano necessariamente superate. In questo sforzo di maturazione, Gramsci attribuiva proprio all’impostazione del problema filosofico di Labriola una funzione centrale, al punto da affermare che essa sarebbe dovuta divenire predominante. A tal fine in una nota del Quaderno 8 è indicato il compito di uno studio obbiettivo e sistematico sulla dialettica di Labriola, capace do chiarire il suo percorso dalle originarie posizioni herberteriane e antihegeliane al materialismo storico.
Indagare le ragioni per le quali il marxismo è risultato assimilabile, per alcuni suoi aspetti non trascurabili, tanto all’idealismo quanto al materialismo volgare era secondo Gramsci un compito estremamente complesso, perché avrebbe dovuto non solo chiarire quali elementi fossero stati assorbiti «esplicitamente» dall’idealismo e da altre correnti di pensiero, ma anche svelare gli assorbimenti «impliciti» e non confessati. Il marxismo, infatti, è stato un momento della cultura, un’atmosfera diffusa che in quanto tale ha modificato, spesso inconsapevolmente, i vecchi modi di pensare. Costruire una storia della cultura moderna dopo Marx ed Engels, perché di ciò si trattava, richiedeva uno studio rigoroso degli insegnamenti pratici lasciati in dote dal marxismo a partiti e correnti di pensiero ad esso avverse. La ragione per la quale gli «ortodossi» della Seconda Internazionale hanno operato una combinazione della filosofia della praxis con altre filosofie e concezioni, andava ricercata nella necessità di combattere tra le masse popolari i residui del mondo precapitalistico, derivanti in particolare dalla concezione religiosa. Il marxismo aveva contemporaneamente il compito di combattere le ideologie più elevate delle classi colte, e di far uscire le masse da una cultura ancora medievale ponendole in condizione di produrre un proprio gruppo di intellettuali indipendenti dalla cultura delle classi dominanti. Proprio questo secondo compito di carattere pedagogico ha finito per assorbire gran parte delle energie «quantitative» e «qualitative» del movimento:
Per «ragioni didattiche», la nuova filosofia si è combinata in una forma di cultura che era un po’ superiore a quella media popolare (che era molto bassa), ma assolutamente inadeguata per combattere le ideologie delle classi colte, mentre la nuova filosofia era nata per superare la più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, e per suscitare un gruppo di intellettuali proprii del nuovo gruppo sociale di cui era la concezione del mondo
Antonio Labriola arrivò al socialismo attraverso un lungo e meditato percorso di avvicinamento filosofico e politico, che lo distingue fortemente dai teorici della «Neue Zeit», con i quali si trovò in più riprese a polemizzare, avanzando l’esigenza di un diverso approccio al marxismo, da lui definito «comunismo critico». Nelle sue dispute contro il «dilettantismo di tanti neofiti della causa socialista», Labriola si contrappose alle combinazioni spurie tra il marxismo e le costruzioni forzatamente unitarie e sistemiche, proprie del positivismo e dell’evoluzionismo applicato alle teorie sociali. Uno dei prodotti storici più nefasti della cultura del tempo era per Labriola il verbalismo, vale a dire un culto smodato delle parole che porta a corrodere il senso reale e vivo delle «cose effettuali», a occultarle, a trasformarle in termini, parole e modi di dire astratti e convenzionali:
Il verbalismo tende sempre a chiudersi in definizioni puramente formali; porta le menti nell’errore, che sia cosa facile il ridurre in termini e in espressioni semplici e palpabili l’intricato e immane complesso della natura e della storia; e induce nella credenza che sia cosa agevole il vedersi sott’occhi il multiforme e complicato e complicatissimo intreccio delle cause e degli effetti, come in ispettacolo da teatrino; o a dirla in modo più spiccio, esso oblitera il senso dei problemi perché non vede che denominazioni .
Quando il verbalismo si unisce alle supposizioni teoretiche di una falsa contrapposizione tra materia e spirito, immediatamente pretende di spiegare tutto quel che riguarda l’uomo facendo affidamento al solo calcolo degli interessi materiali fino a contrapporre questi agli interessi ideali e ridurre meccanicamente i secondi ai primi. La causa di questo modo d’intendere il materialismo storico era riconducibile all’impreparazione e all’improvvisazione di tanti intellettuali scopertisi propugnatori del marxismo, i quali hanno cercato di spiegare agli altri ciò che essi stessi non avevano ancora compreso a pieno, estendendo alla storia le leggi e i modelli concettuali che avevano trovato proficua attuazione nello studio e nella spiegazione del mondo naturale ed animale. Ma la storia dell’uomo riguarda i processi attraverso i quali questo soggetto può creare e perfezionare i suoi strumenti di lavoro e tramite gli strumenti modifica l’ambiente in cui è inserito fino a crearne uno nuovo e artificiale che a sua volta reagisce e produce molteplici effetti sopra di lui; la storia, secondo l’uso della parola, vale a dire quella parte del processo umano che si esprime nella tradizione e nella memoria, inizia quando la creazione di questo terreno artificiale si è già prodotta, quando l’economia è già in funzione. La scienza storica ha per suo oggetto fondamentale proprio la conoscenza di questo terreno artificiale, delle sue forme originarie, delle sue trasformazioni, e solo l’abuso dell’analogia e la fretta di arrivare a delle conclusioni, può portare a dire che tutto questo non è se non parte e prolungamento della natura. Dunque, secondo Labriola, mancano tutte le ragioni per ricondurre questo processo evolutivo riguardante l’uomo e il suo ambiente, appunto la storia, alla pura e semplice lotta per l’esistenza, non c’é ragione per confondere il darwinismo con il materialismo storico, né di rievocare e servirsi di una qualunque forma, «mitica, mistica o metaforica», di fatalismo. Pertanto è priva di fondamento quell’opinione che tende a negare ogni ruolo alla volontà e che pretende di sostituire al volontarismo l’automatismo. La tendenza a trasformare in pedanteria e «novella scolastica» qualunque trovato del pensiero, piuttosto che dedicarsi alla ricerca critica, ha fatto si che «la fantasia degli inesperti d’ogni arte e ricerca storica e lo zelo dei fanatici, trovasse stimoli ed occasioni persino nel materialismo storico a foggiare una nuova ideologia e a trarre da esso una nuova filosofia della storia sistematica, cioè schematica, ossia a tendenze e a disegno» . Per Labriola invece il materialismo storico non è, e non pretende di essere, la visione intellettuale di un grande piano o disegno, ma è un metodo di ricerca e concezione. Le critiche più varie dei detrattori delle teorie di Marx ed Engels, hanno esercitato i loro effetti più nefasti proprio tra i socialisti ed in particolare tra quei giovani intellettuali che tra gli anni 70 e 80 si dedicarono alla causa del movimento operaio:
Molti dei focosi rinnovatori del mondo di quel tempo lì, si misero sulla via di proclamarsi seguaci della teoria marxista pigliando proprio per moneta contante il marxismo più o meno inventato dagli avversari» ed è così che questi «mescolando cose vecchie a cose nuove arrivarono a credere, che la teoria del sopravvalore, come si presenta solitamente semplicizzata in semplici esposizioni, contenesse hic et nunc il canone pratico, la forza impulsiva, anzi la morale e la giuridica legittimità di tutte le rivendicazioni proletarie .
Tra gli anni 70 e 80 si formò un neoutopismo – mosso da un’idea malsana della «filosofia universale», nella quale il socialismo doveva essere ben inserito come la parte nella visione del tutto – letteralmente, il brodo di cultura nel quale trovarono il giusto microclima tutti gli spropositi del determinismo socialista. In una lettera scritta a Turati , Labriola descrisse il percorso filosofico che lo aveva condotto a Marx, affermando che se anche poteva dirsi socialista da non più di dieci anni, era in grado comunque di dichiarare – grazie ai suoi studi e alla sua attività accademica – di aver già fatto per tempo i conti con il positivismo, il neokantismo e che pertanto tutto poteva fare tranne che farsi ribattezzare da Darwin e Spencer. Egli non pretese di ricevere dal marxismo l’ABC del sapere e non cercò se non quel che esso conteneva, vale a dire la sua critica dell’economia politica, i lineamenti del materialismo storico, la politica del proletariato enunciata. Per Luigi Dal Pane Labriola vide nel materialismo storico «il punto di partenza di impensati svolgimenti», perché nelle opere di Marx ed Engels il materialismo era un filo conduttore, una linea di tendenza, non la concatenazione dogmatica di principi espressi in forma precisa e, soprattutto, definitiva:
Di fatto il Marx e l’Engels non pensarono a compiere un lavoro sistematico di organizzazione della nuova dottrina e, nei vari momenti della loro vita, secondo le circostanze che li spronavano, fermaron la mente ora sopra uno, ora sopra l’altro aspetto della vita umana storica, senza un ordine logico prestabilito e rigoroso. Avvenne così che segnarono qualche grande schema, alcune linee maestre, veramente utili ed importanti per chi abbia la capacità di farle rivivere, di poco rilievo invece per chi le enuncia in una forma astratta .
Il marxismo dunque non come formula astratta, data dalla distinzione netta e dalla successione matematica tra categorie economiche ideologiche, bensì una «concezione organica della storia» come unità e totalità della vita sociale, nella quale anche l’economia, anziché «estendersi astrattamente a tutto il resto», è concepita storicamente . Labriola si formò nella Napoli protagonista della seconda fioritura dell’hegelismo, si avvicinò a Marx avendo già nel suo bagaglio filosofico una profonda conoscenza della dialettica . Per Labriola in ciò andava ricercata la distinzione tra la sua concezione della filosofia della prassi e quella dei tanti intellettuali marxisti-positivisti della nuova generazione, responsabili, a suo dire, di confondere «la linea di sviluppo che è propria del materialismo storico, (…) con quella malattia celebrale che da anni già ha invaso i cervelli di quei molti italiani che parlano ora di una madonna evoluzione, e l’adorano» . Ecco un punto essenziale individuato da Labriola sul quale Gramsci ritorna più volte: l’incontro tra positivismo e marxismo e la volgarizzazione deterministica di questo, ha tra le varie cause il fatto che la dialettica hegeliana fosse in gran parte dei casi totalmente sconosciuta a quanti si posero a propugnare il marxismo.
Questa lettura trova un’autorevole conferma nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale del 1873, dove Karl Marx – pur richiamandosi alla critica condotta trent’anni prima al «lato mistificatore della dialettica hegeliana» – sentiva il bisogno di prendere le distanze dai «molesti, presuntuosi e mediocri epigoni» che al tempo si permettevano di trattare Hegel come «un cane morto». In questo poscritto, oltre ad ammettere di avere «civettato qua e là» col modo di esprimersi peculiare a Hegel, nella parte relativa alla teoria del valore, Marx si professava apertamente scolaro del «grande pensatore» . Ma lo scritto più importante da questo punto di vista è sicuramente il Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca del 1888, nel quale Engels sentì il bisogno di ripartire dagli elementi essenziali della dialettica hegeliana per riaffermarne il primato rispetto alle concezioni del materialismo più rozzo e meccanico. Engels si prese la briga di ritornare sul progetto che nel 1845 lui e Marx si erano proposti di realizzare: fare i conti con la loro stessa formazione filosofica, riaffrontare la concezione ideologica della filosofia tedesca.
Significativamente, Engels fece iniziare la pubblicazione del suo saggio su Feuerbach sulla «Neue Zeit» proprio mentre venivano pubblicate le ultime puntate del saggio di Kautsky su La miseria della filosofia, nel quale questa concezione era ampiamente e sistematicamente esposta. Nel Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia tedesca, Engels si richiamò al «vecchio Hegel», e al carattere rivoluzionario della sua dialettica, riconoscendo nel movimento operaio tedesco l’erede della filosofia classica tedesca. Questo richiamo sulla formazione filosofica del socialismo scientifico, costituiva secondo vari studiosi – primo fra tutti Ernesto Ragionieri – una risposta di Engels alle concezioni delle nuove leve che si accostavano al marxismo .
Antonio Labriola costituiva un caso a parte nel panorama del socialismo italiano sia per la sua formazione filosofica, sia per essere a conoscenza del dibattito più avanzato in seno alla Seconda Internazionale. Così, se nel Ludwig Feuerbach il tributo e il costante richiamo alla filosofia di Hegel assumeva un significato polemico nei confronti della nuova vulgata socialista, la critica alle imperdonabili semplificazioni di questa era ancora più esplicita in una lettera del 27 ottobre 1890:

Quel che manca a tutti questi signori è la dialettica. Essi vedono sempre e solamente qui la causa, là l’effetto. Non arrivano a vedere che questa è una vuota astrazione, che nel mondo reale simili contrapposizioni metafisiche polari esistono soltanto nei momenti di crisi, ma che l’intero grande corso delle cose si svolge nella forma dell’azione e reazione reciproca, anche se di forze molto ineguali, tra cui il movimento economico è di gran lunga il più forte, il più originario, il più decisivo; essi non arrivano a capire che niente è assoluto e tutto è relativo. Per essi Hegel non è esistito .

Tuttavia la chiarificazione più interessante in proposito è contenuta in uno scambio di vedute tra Engels e Marx in due lettere scritte tra l’8 e il 9 maggio del 1870. Nella prima lettera Engels si lamentò con Marx perché Wilhelm Liebknecht, in qualità di editore, decise di aggiungere in glossa marginale alla sua pubblicazione La guerra dei contadini una precisazione (non richiesta e soprattutto non condivisa) su Hegel. Questo commento fece andare su tutte le furie Engels, il quale, dopo aver definito Liebknecht «animale» e la glossa un’autentica «stupidaggine» così di espresse:

Costui commenta ad vocem Hegel: al largo pubblico noto come scopritore(!) e elogiatore (!!) dell’idea dello Stato (!!!) regio-prussiana (…) questo somaro che per anni s’è tormentato sulla ridicola antitesi fra diritto e potere senza capacitarsi, come un soldato di fanteria montato su un cavallo bizzarro e chiuso in un galoppatoio, quest’ignorante ha la sfrontatezza di voler liquidare un tipo come Hegel con la parola prussiano e di dar a intendere al pubblico che l’abbia detto io. Ne ho abbastanza ora se W[ilhelm] non pubblica la mia dichiarazione, mi rivolgerò ai suoi superiori, al comitato, e se anche costoro cercheranno di manovrare, proibirò l’ulteriore pubblicazione. Meglio non pubblicato affatto che essere in tal modo proclamato asino da W[ilhelm]» Non meno dura è la risposta del 10 maggio da parte di Marx: «Ieri ho ricevuto l’accluso foglietto di Wilhelm. Incorreggibile artigiano zoticone tedesco-meridionale.(…) gli avevo detto che, se su Hegel non era in grado di far altro se non ripetere le vecchie porcherie di Rotteck e Welckler, se ne stesse piuttosto zitto. Questo egli lo chiama trattare Hegel un po’ meno cerimoniosamente ecc., e, se lui scrive scemenze sotto i saggi di Engels, Engels allora può ben (!) dire cose più particolareggiate(!!). costui è davvero troppo stupido
A sua volta, Marx, rispondendo alla lettera di Engels liquidò l’intera vicenda definendo Liebknecht «incorreggibile artigiano zoticone tedesco-meridionale» . Al di là del caso specifico, questo modo di intendere il materialismo storico era per Engels, come per Marx, frutto di un fraintendimento grossolano, ciò trova la sua conferma più chiara nella lettera scritta a Bloch il 20 settembre del 1890.

Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda. La situazione economica è la base ma i diversi momenti della soprastruttura (…) esercitano pure la loro influenza sul corso delle lotte storiche e in molti casi ne determinano la forma in modo preponderante. Vi è azione e reazione reciproca in tutti questi fattori, ed attraverso di essi che il movimento economico finisce per affermarsi come elemento necessario in mezzo alla massa infinita di cose accidentali (…) se non fosse così l’applicazione della teoria a un periodo qualsiasi della storia sarebbe più facile che la semplice equazione di primo grado .

Tutte le tendenze deterministe del materialismo storico hanno trovato poi cittadinanza nella parte generale del programma di Erfurt del 1891 – scritto proprio da Kautsky – non solo votato dalla socialdemocrazia tedesca, ma presto divenuto un’importante assunto teorico per tutti gli altri partiti socialisti, compreso quello italiano . Se da un lato, sull’affermarsi di certe interpretazioni tra gli anni Ottanta e Novanta, hanno influito le concrete esigenze del movimento operaio, dall’altra sicuramente ha avuto una certa importanza anche il fatto, che la tesi sull’inevitabilità della fine del modo di produzione capitalistico, come una «necessità storica», pareva offrire un’adeguata spiegazione alla grande depressione di quegli anni. Lo stato d’instabilità e la vulnerabilità della società borghese, create dalla più grande crisi della produzione capitalistica fino ad allora, unito al peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori per quasi vent’anni, sembrarono una materializzazione delle teorie sulla «miseria crescente» e della «crisi finale» .
Ma per tornare a Gramsci, nelle sue note, Labriola è un costante punto di riferimento, se vogliamo l’antidoto, contro i denunciati limiti filosofici del socialismo tra Ottocento e Novecento. Nei Quaderni il giudizio è netto: la superstizione del progresso scientifico ha seminato illusioni e concezioni talmente ridicole ed infantili da «nobilitare la superstizione religiosa», ha fatto nascere l’attesa verso un nuovo messia che avrebbe realizzato sulla terra il «paese di Cuccagna» senza l’intervento della fatica umana ma solo per opera delle forze della natura e dei meccanismi del progresso resi sempre più perfezionati. Questa infatuazione puerile per le scienze in realtà nascondeva la più grande ignoranza sui fatti scientifici, sulla specializzazione dei suoi rami disciplinari, e dunque finiva per caricare di attese il mito del progresso scientifico trasformato in una «superiore stregoneria». Il determinismo fatalistico e meccanicistico è caratteristico di una fase ancora contraddistinta dalla subalternità di determinati gruppi sociali, costituisce una sorta di «aroma ideologico immediato», una sorta di eccitante o religione necessitata appunto dal carattere subalterno del gruppo sociale. La concezione meccanicistica è per Gramsci «la religione dei subalterni». Nel marxismo la scissione tra teoria e prassi corrisponde alla separazione tra intellettuali-dirigenti e masse, cioè ad una fase in cui l’iniziativa ancora non è nella lotta, e il determinismo, la convinzione nella razionalità della storia, divengono una forza di resistenza morale e coesione. Ma tutto questo cambia nel momento in cui il subalterno diviene dirigente, se prima era una «cosa» ora diviene una «persona storica, un protagonista, se ieri era irresponsabile perché resistente a una volontà estranea, oggi sente di essere responsabile perché non più resistente ma agente e necessariamente attivo e intraprendente». Il determinismo meccanico può essere spiegato come «filosofia ingenua» della massa, tuttavia quando viene innalzato a filosofia dagli intellettuali «diventa causa di passività, di imbecille autosufficienza, e ciò senza aspettare che il subalterno sia diventato dirigente e responsabile» . Secondo Gramsci sono proprio i residui di meccanicismo – che portano a considerare la teoria come un «complemento accessorio» della prassi, come «ancella della pratica» – ad aver impedito nel marxismo un pieno sviluppo della questione relativa all’unità tra teoria e prassi.
L’indisponibilità a scendere a patti con le matrici culturali del socialismo positivista costituisce un dato costante dei diversi momenti dell’elaborazione gramsciana; il numero unico de «La Città Futura», interamente scritto da Gramsci nel febbraio del 1917, riconosciuto da gran parte degli studiosi come il punto d’arrivo della sua formazione giovanile, ne è un esempio. In esso Gramsci saluta il dissolvimento del mito socialista della fede cieca in tutto ciò che è accompagnato dall’attributo «scientifico», una superstizione che tende a relegare l’intervento dell’uomo ad un ruolo subalterno e passivo, in virtù del quale il raggiungimento della società modello deve basarsi sui postulati di un positivismo filosofico mistico, nei fatti «aridamente meccanico» e ben poco scientifico. Di questo mito era rimasto per Gramsci un ricordo sbiadito nel riformismo di Claudio Treves definito un «balocco di fatalismo positivista le cui determinanti sono energie sociali astratte dall’uomo e dalla volontà».
Il mito pseudoscientifico del positivismo socialista aveva nei confronti della vita lo stesso approccio di chi osserva da lontano una valanga nella sua irresistibile caduta: vede l’unità, l’effetto, ma non il molteplice di cui l’uomo è la sintesi. Dunque, la débâcle della scienza nel socialismo, o per meglio dire del suo mito, ha per Gramsci il significato di un profondo rinnovamento che porta il proletariato a riacquistare la coscienza del suo ruolo non più schiacciato dal peso di leggi naturali infrangibili. «Alla legge naturale, al fatale andare delle cose degli pseudo-scienziati è stata sostituita: la volontà tenace dell’uomo» .
Ampiamente rappresentativo di questo percorso di definizione teorica sono alcuni altri articoli come il noto La rivoluzione contro il «Capitale» e soprattutto l’articolo immediatamente successivo, intitolato La critica critica, nel quale Gramsci risponde alle accuse di volontarismo che gli vengono mosse dal versante riformista. Claudio Treves in particolare, in un articolo su «Critica Sociale», aveva denunciato «la spaventosa incultura della nuova generazione socialista italiana», colpevole di aver sostituito il volontarismo al determinismo. A Treves, Gramsci risponde che «la nuova generazione», leggendo è studiando pubblicazioni scritte in Europa dopo la stagione d’oro del positivismo, ha preso definitivamente coscienza del fatto che «la stelirizzazione operata dai socialisti positivisti» sull’opera di Karl Marx, non solo non si è rivelata una grande conquista di cultura, ma non si è neanche accompagnata a grandi conquiste nella realtà. Treves al posto dell’uomo individuale realmente esistente pone il determinismo e riduce il pensiero di Marx «a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente verificantesi all’infuori della volontà degli uomini», rende il marxismo una dottrina dell’inerzia del proletariato.
Gramsci rivendica «alla nuova generazione» la volontà di ritornare alla genuina dottrina di Marx, «per la quale l’uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà, non sono dissaldati, ma si identificano nell’atto storico», e per la quale «i canoni del materialismo storico valgono solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato e non debbano diventare ipoteca sul presente e sul futuro» .
Le deformazioni operate sull’opera di Marx dal parte del marxismo ufficiale portavano la grave responsabilità di averne mortificato la vitalità, di aver trasformato il senso più profondo del materialismo storico in «parabole» scandite da imperativi categorici ed indiscutibili al di fuori da qualsiasi categoria di spazio e tempo. Per Gramsci Marx non era né un messia né un profeta, bensì uno storico e in ragione di ciò il marxismo andava epurato da tutte le successive incrostazioni metafisiche e ricollocato nella sua giusta dimensione, per coglierne il valore generale e trarne un metodo, questo sì scientifico, di valutazione storica. Prima di Marx – annota Gramsci – «la storia era solo dominio delle idee. L’uomo era considerato come spirito, come coscienza pura. Due conseguenze erronee derivavano da questa concezione: le idee messe in valore erano spesso arbitrarie, fittizie. I fatti cui si dava importanza erano aneddotica, non storia. Con Marx la storia continua ad essere dominio delle idee, dello spirito, si sustanziano, perdono la loro arbitrarietà, non sono più fittizie astrazioni religiose o sociologiche. La sostanza loro è nell’economia, nell’attività pratica, nei sistemi e nei rapporti di produzione e di scambio. (…) è inutile l’avverbio marxisticamente, e anzi esso può dare luogo ad equivoci e ad inondazioni fatue e parolaie. Marxisti, marxisticamente… aggettivo e avverbio logori come monete passate per troppe mani» .
Tutto questo aveva una conseguenza fondamentale nella svalutazione dell’intervento attivo e cosciente delle grandi masse popolari, nell’attribuzione ad esse di un ruolo subordinato nei confronti delle contraddizioni immanenti alle leggi dell’economia capitalistica, quindi verso la capacità dei dirigenti politici del movimento operaio di saperle leggere. In questa svalutazione risiedono le premesse del fallimento della stagione rivoluzionaria del biennio rosso ed insieme della reazione delle classi dominanti che gli ha fatto seguito.
Quando, in una fase di «crisi organica», «il vecchio muore e il nuovo non può nascere», può esserci inettitudine non solo nella classe dirigente al potere, ma anche in quella che si pone, o dovrebbe porsi, come la sua negazione: nonostante la crisi di autorità del regime liberale nel dopoguerra. La diffusione del marxismo in Italia non andò oltre un certo grado di sviluppo e il partito del proletariato si mostrò incapace di assumere un qualsiasi ruolo positivo cadendo vittima della sua inerzia. Gramsci trova la rappresentazione esemplare di questa «crisi organica» nel discorso tenuto in Parlamento da Claudio Treves il 30 marzo 1920: secondo Treves la «crisi del regime» è dovuta al fatto che esso non può più imporre il suo ordine alle masse e queste contemporaneamente non possono ancora imporre il loro, perché la rivoluzione non è un qualcosa che si fa in un dato momento ma è come un lento processo naturale di erosione che si svolge in uno stato febbrile di irrequietudine delle masse. Per Treves l’espiazione della borghesia per le sue colpe, consiste nel fatto che l’agonia degli ordinamenti economici e politici esistenti non può essere accorciata da una rivoluzione immediata, ma deve passare attraverso una via crucis lunga e penosa destinata a durare anni. Dietro a questa rappresentazione apocalittica di Treves si nascondeva per Gramsci la paura di assumere una qualche responsabilità concreta e con essa la mancanza di un qualsiasi legame del partito con le masse, l’incapacità a comprenderne i bisogni fondamentali, le aspirazioni, le energie latenti:
C’era una grandezza sacerdotale in questo discorso, uno stridore di maledizioni che dovevano impietrire di spavento e invece furono una grande consolazione, perché indicavano che il becchino non era ancora pronto e Lazzaro poteva risorgere .

Londra, 22 marzo 2014, presentazione del libro “Eugenio Curiel”. Il lungo viaggio contro il fascismo.


ANPI- Londra (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) e INCA CGIL
sono liete di invitarvi alla presentazione del libro
” Eugenio Curiel.Il lungo viaggio contro il fascismo” di Gianni Fresu

Eugenio Curiel (1912-1945) fu un partigiano e fisico italiano che si formò e raggiunse l’età adulta negli anni di massima espansione del regime di Mussolini . Ucciso dalle Brigate Nere fasciste senza aver ancora compiuto 33 anni, lasciò un patrimonio di riflessioni, analisi, proposte ed esperienze politiche concrete degne di attenzione per comprendere meglio le origini della nostra democrazia repubblicana e il travaglio che la generò.

Peter D.Thomas, docente di Storia del Pensiero Politico presso la Brunel University of London, ha studiato e lavorato presso l’Università del Queensland, la Freie Universität di Berlino, l’Università Federico II di Napoli, l’Università di Amsterdam e l’Università di Vienna. E’ autore di numerse pubblicazioni sulla teoria politica marxista, la storia del pensiero politico e la storia della filosofia . Membro del comitato editoriale Historical Materialism : Research in Critical Marxist Theory e co-editore del Historical Materialism Book Series.
Gianni Fresu ( Sassari, 1972) storico, Università di Cagliari, ha svolto attività di ricerca e didattica universitaria occupandosi di tematiche di storia dell’età contemporanea e del pensiero politico. In particolare, ha approfondito lo studio del pensiero di Antonio Gramsci e del movimento operaio internazionale. Tra le sue pubblicazioni Il diavolo nell’ampolla, Antonio Gramsci gli intellettuali e il partito, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, La Città del Sole, Napoli, 2005; Gli strumenti della politica, catalogo della biblioteca di Renzo Laconi, Aìsara, Cagliari, 2007; Otre la parentesi. Fascismo e storia d’Italia nell’interpretazione gramsciana, Carocci, Roma, 2009; La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento, Cuec, Cagliari, 2011.

L’evento, che si terrà in Italiano, è gratuito ma per ragioni di sicurezza e di capacità della sala , e’ gentilmente richiesta la prenotazione obbligatoria via Eventbrite.
Per informazioni:
https://www.eventbrite.co.uk/e/presentazione-del-libro-eugenio-curiel-il-lungo-viaggio-contro-il-fascismo-di-gianni-fresu-tickets-10685391293

Milano 22 febbraio 2104, presentazione del volume “Eugenio Curiel”. Il lungo viaggio contro il fascismo.

Casa della cultura” via Borgogna 3, ore 16:00, 22 febbraio 2014, Milano.

Presentazione del volume “Eugenio Curiel”. Il lungo viaggio contro il fascismo

Con l’autore intervengono

Alberto De Bernardi

Maria Grazia Meriggi

Bruno Cartosio

Roberto Cenati (Pres.  prov. le ANPI)

Coordina

Ferruccio Capelli (direttore “Casa della Cultura”)

Organizzano

ANPI

Casa della Cultura

Il dovere della sintesi e l’obiettivo dell’unità.

Lo “Straordinario congresso” del PRC si è concluso con la totale riproposizione una linea a mio avviso già ampiamente sconfitta negli anni precedenti sui tre fronti principali in cui avrebbe dovuto dispiegarsi: l’organizzazione interna; l’opposizione sociale; le istituzioni.

Rifondazione, infatti, è da anni in preda a un’emorragia inarrestabile di militanti e iscritti, è praticamente fuori dalle piazze in cui si esprime il malessere sociale, è stata espulsa dalle istituzioni dopo una lunga sequenza di tracolli elettorali. A suggellare ulteriormente la continuità con le scelte pregresse, si è deciso di confermare nel ruolo di segretario anche la figura che maggiormente l’ha incarnata. Mi è capitato di dirlo più volte, almeno dal 2011, lo ribadisco ancora: quando ci si trova di fronte a una totale sconfitta del proprio campo bisogna essere spietati, per nulla indulgenti e sentimentali, nella indagine tesa a metterne a nudo cause e responsabilità. Dopo una Caporetto, confermare insieme con strategie e tattiche perdenti persino il Comando di Stato Maggiore sconfitto significa non fare i conti con la realtà. Quando poi le battaglie di Caporetto sono tante diventa tutto ancora più inspiegabile.

Nei mesi passati, dopo il mesto ma prevedibile epilogo di “Rivoluzione Civile”, preceduto a sua volta dalla incomprensibile autodistruzione della Federazione della Sinistra, da più parti si erano levate voci e proposte in favore di una fase nuova, per rilanciare su basi radicalmente diverse la presenza dei comunisti e creare un fronte unitario di lotta sociale della sinistra nel Paese. A tali richieste, però, si è risposto con un’atteggiamento di netta chiusura e autosufficienza.

“Il partito di cui si afferma il bisogno c’è già, è il PRC, dunque basta iscriversi e lavorare al suo interno!” È  stata questa, grosso modo, la risposta all’istanza di un nuovo soggetto unitario che singoli e gruppi si sono visti recapitare dalle tribune congressuali, dove addirittura sono stati proposti e discussi emendamenti tesi a certificare l’indisponibilità verso un processo unitario che ricomponesse la diaspora comunista.  Significativamente, chi se ne è fatto portatore ha trovato pure un ruolo nella nuova segreteria nazionale, più chiari di così?

Il progetto del PRC, dopo la “Bolognina” capace di suscitare speranze e senso di appartenenza tra vecchie e nuove generazioni, negli ha progressivamente perso pezzi, riducendo con il numero di tesserati una originaria ricchezza di linguaggi e culture politiche . So che molti non apprezzeranno, ma non è rimasto più niente dello spirito originario che portò alla nascita della Rifondazione comunista. L’idea lungimirante della sintesi innovativa tra le migliori esperienze del movimento comunista italiano si è ridotta alla sola autorappresentazione di una delle sue componenti originarie. Anche in questo sta, sempre secondo me s’intende, la ragione della sua involuzione minoritaria.

Il mutamento molecolare dell’idea primitiva della Rifondazione comunista ha avuto diversi momenti cruciali, ma probabilmente trova un punto di non ritorno nella svolta impressa alla sua direzione da Fausto Bertinotti cui si fornì una delega plebiscitaria, assoluta e indiscutibile, sempre più ampia, sfociata poi in una concezione carismatica e mediatica delle funzioni di direzione. Fu solo l’atto finale di uno smarrimento ben più articolato, tuttavia, è bene ricordare il Congresso di Venezia quando, dalla tribuna del Lido, Bertinotti affermò di essere un “segretario di maggioranza” e non di sintesi: “Il partito si governa anche con un voto in più e chi non è d’accordo può benissimo andare altrove”, concluse, indicando la porta a chi non accettava la brutale chiusura di una normale dialettica tra maggioranza e minoranze. La storia successiva si è incaricata di dimostrare quanto fosse errata quella scelta, anche se non tutti sembrano averne tratto lezione. Per invertire la tendenza inarrestabile alla frammentazione il tema della sintesi è al contrario centrale, è un dovere, se si intende perseguire realmente l’unità. Da ciò un’indicazione operativa per i mesi a venire: non bisogna arrestare per un solo istante l’offensiva unitaria, anche verso quei compagni che con questo congresso hanno certificato il loro disinteresse a praticarla.  Con le scissioni non si fa l’unità, è vero, ma la logica maggioritaria e il rifiuto di una sintesi più avanzata sono i prodromi di ogni scissione, dunque ci si deve parimenti interrogare sia sulle responsabilità di chi le scissioni le fa, sia su quelle di chi le alimenta chiudendo autisticamente ogni margine di discussione.

A quell’idea originaria della Rifondazione comunista, purtroppo mai praticata fino in fondo, si dovrebbe invece tornare proprio oggi per aprire una fase Costituente nuova, che a partire dall’azzeramento di organismi e organizzazioni esistenti provi a superare lo stato di inefficacia cronica dei comunisti e più complessivamente della sinistra in Italia.

Gianni Fresu