Calendario presentazioni del Libro “Eugenio Curiel”. Il lungo viaggio contro il fascismo.

 

Calendario presentazione del libro

 “EUGENIO CURIEL”. Il lungo viaggio contro il fascismo (di Gianni Fresu).

  • 15 novembre 2013 ore 18:00, Nuoro, presso libreria “Mieleamaro”. Presentano il libro Francesco Berria (Fondazione “E. Berlinguer”), Laura Stochino (insegnante, Associazione culturale “A. Gramsci”), Ottavio Olita (giornalista e scrittore). Organizzano Fondazione “E. Berlinguer” e libreria “Mieleamaro”.
  • 30 novembre, Liceo Classico I. Kant, presenta il libro il professor La porta .
  • 2 dicembre 2013, ore 18:00, Roma, presso Libreria Odradek, via dei Banchi vecchi 57. Presentano il libro Bianca Braccitorsi e Aldo Tortorella.  Organizza Odradek nell’ambito degli eventi per la XII Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria.
  • 5 dicembre2013, ore 18:00, Cagliari Salone della Camera del lavoro. Presentano il libroCarmelo Farci, (Segretario generale della Camera del lavoro di Cagliari), Aldo Borghesi “direttore Istasac” (Istituto per la Storia dell’Antifascismo e dell’età contemporanea nella Sardegna Centrale), Mario Birardi (ex dirigente nazionale PCI, ANPI), coordina Walter Falgio (giornalista). Organizzano Associazione culturale “A. Gramsci”, ANPI Cagliari, ISSRA (Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e l’Autonomia).
  • 6 dicembre 2013 ore 18:00 Iglesias, Salone della Società operaia industriale di mutuo soccorso, via XX settembre. Presentano il libro Mario Sciolla e Marino Martino Canzoneri. Organizzano il CIC-ARCI e la  Società operaia industriale di mutuo soccorso.
  • 11 dicembre 2013, ore 21:30, Firenze Centro culturale ricreativo, via Brozzi 312.  Con l’autore, presenta il libro Alex Hobel. Organizzano: ANPI Firenze, “Il sessantotto” Archivio storico di Firenze, Rassegna internazionale d’arte figurativa itinerante”.
  • 17 gennaio 2014, Quartu S. Elena, con l’autore presentano il libro Marco Sini e Giuseppe Stocchino, organizzano ANPI provinciale Cagliari e Associazione culturale Isidoro Sarritzu, via Eligio Porcu 231, Quartu S. Elena.
  • 22 febbraio 2014, Milano, “Casa della cultura” via Borgogna 3, ore 16:00. . Con l’autore intervengono Alberto De Bernardi, Maria Grazia Meriggi, Bruno Cartosio, coordina Ferruccio Cappelli. Organizzano ANPI e Casa della Cultura,
  • 28 febbraio 2014, Ghilarza ore 17:30, con l’autore interviene Ottavio Olita, Casa Badalotti, Corso Umberto 1, organizza Casa museo A. Gramsci.
  • 22 marzo 2014, Londra, organizza ANPI Inghilterra, alle ore 15, presso la sala incontri dell’Inca Cgil , 124 Canonbury Road, London N1 2UT. Con l’autore intervengono Peter Thomas (Brunel University, London) e Simone Rossi (Presidente Anpi Londra).
  • 27 marzo 2014,  Sassari, ore 17:30 Sala G. M. Angioy, Palazzo della Provincia, Piazza Italia. Con l’autore intervengono Eros Francescangeli e Raffaele D’Agata, coordina Costantino Cossu.
  • 10 Aprile 2014, Padova, ore 18:00, Salla Paladin di Palazzo Moroni, via Municipio. Con l’autore intervengono Andrea Colasio, Gadi Luzzatto Voghera, Gabriella Platania. Iniziativa organizzata nell’ambito della rassegna “Universi diversi”, dall’ Amministrazione comunale di Padova.
  • 16 aprile, Olbia, ore 17:30, Biblioteca civica simpliciana. Organizzano Anpi e Fondazione “E. Berlinguer”, intervengono Mario Birardi e Aldo Borghesi.
  • 27 maggio 2014, Carrara, sala biblioteca comunale ore 17:30. Presentano il libro Alessandro Conti, Giorgio Lindi, Giorgio Mori. organizzano Anpi e Fiap.
  • 5 giugno 2014, Lussemburgo, ore 18:45,  Circolo “Curiel”, 107, Route d’Esch, www.Curiel.lu. organizzano il Circolo culturale “Eugenio Curiel” Lussemburgo e l’Istituto italiano di cultura
  • 20 giugno 2014, Elmas, ore 18:00, Sala Riunioni dell biblioteca comunale, piazza Chiesa San Sebastiano, 3 – primo piano. Presentano il libro Ottavio Olita (giornalista e scrittore) e Marco Sini (Presidente Anpi provincia di Cagliari). Organizzano “Equilibri” (cicolo dei lettori e presidio del libro di Elmas) in collaborazone con la Biblioteca e Mediateca di Elmas.
  • 21 giugno 2014, Torino, organizza Anpi, Ass. Kintales-Circolo dei Sardi di Torino
  • 15 dicembre 2014, Pisa, Casa del Popolo “Eugenio Curiel”, Circolo Arci.
  • 22 dicembre 2014, Cagliari, ore 19:00, via Napoli 62, Circolo “La Marina – T. Sankara”. Presenta il libro Ottavio Olita.
Per info e presentazioni: fresugianni@tiscali.it

“EUGENIO CURIEL”, Il lungo viaggio contro il fascismo.

Gianni Fresu,

EUGENIO CURIEL”.

Il lungo viaggio contro il fascismo,

prefazione di Carlo Smuraglia.

Odradek, Roma, 2013. 305 pp., 20 euro

Sebbene sia alla base della nostra Costituzione repubblicana, poche altre esperienze storiche sono state oggetto di contesa come la lotta partigiana tra il 1943 e il ‘45. Già all’indomani della ritrovata democrazia si moltiplicarono i tentativi volti a ridimensionare la funzione della Resistenza nella storia della liberazione nazionale e il peso specifico della sua componente maggioritaria Tra le pieghe delle rimozioni forzate, o di affrettate esigenze di riscrivere la storia, sono rimaste esperienze collettive e singole personalità di un certo rilievo ma destinate all’oblio della memoria. Fra esse il giovane intellettuale triestino Eugenio Curiel, una figura poliedrica, per interessi e propensioni intellettuali, che immolò la sua stessa esistenza alla causa della liberazione, come tanti della sua generazione. Morto senza aver ancora compiuto 33 anni, ha lasciato un patrimonio di riflessioni, analisi, proposte ed esperienze politiche concrete, degne di maggior attenzione per comprendere meglio le origini  della nostra democrazia repubblicana e il travaglio umano che la generò. Eugenio Curiel si formò e raggiunse l’età adulta negli anni di massima espansione del regime di Mussolini, una fase comunque attraversata da un clima crescente d’inquietudine tra un numero sempre maggiore di giovani, educati nella dottrina del fascismo, ma profondamente insoddisfatti delle sue realizzazioni concrete. Fu interprete e ispiratore della “generazione degli anni difficili”, assolvendo un ruolo di cerniera tra le esigenze di quei giovani con quelle dei vecchi protagonisti dell’antifascismo.

Per acquisti e prenotazioni on line: http://www.odradek.it/Schedelibri/eugeniocuriel.html

Per Info e presentazioni scrivere a fresugianni@tiscali.it

Gramsci nel mondo. Il Seminario internazionale di studi e la “Summer School” a Ghilarza.

Gramsci nel mondo.

Il Seminario internazionale di studi e la “Summer School” a Ghilarza.

 

Di Gianni Fresu

 

È un fatto: Antonio Gramsci è ormai l’autore italiano del XX secolo più tradotto e studiato al mondo, e l’interesse internazionale per il suo pensiero non accenna a diminuire, anzi. Libri, articoli, convegni, opere artistiche e teatrali, Tesi e corsi di laurea a lui dedicati, si moltiplicano in ogni angolo del pianeta. Proprio quest’estate, a New York, a “Forest Houses”, al centro dei palazzoni di edilizia popolare del famigerato Bronx, all’autore sardo è stato dedicato un monumento edificato attorno alle sue categorie fondamentali, per la cui realizzazione è stato coinvolto l’intero quartiere.  Le lettere, gli scritti giornalistici e politici, la sua opera, sono oggetto di studi specialistici sempre più approfonditi. In particolare, i Quaderni del carcere sono considerati un’autentica miniera dalla quale trarre strumenti analitici utili a comprendere non solo il passato, ma anche le più stringenti contraddizioni della modernità e della contemporaneità. Sebbene si tratti di un lavoro composto di appunti e riflessioni destinati a ulteriore definizione, essi condensano, con straordinaria ricchezza multidisciplinare, un universo di concetti e categorie ritenute irrinunciabili per tanti ambiti scientifici molto diversi tra loro: dalla critica letteraria alla linguistica, dalla storia alla scienza politica, dalla pedagogia al teatro, dalla filosofia alla scienza del folclore. Un’opera che oggi si trova sotto la lente d’ingrandimento della ricerca scientifica, negli USA, in Inghilterra, Giappone, India, Brasile, Messico e in tanti altri Paesi. A fronte di tutto questo, a testimoniare ulteriormente lo stato di decadimento culturale, non solo economico, della nostra nazione, da noi l’interesse mediatico di testate giornalistche e degli ambenti politico-culturali prevalenti, sembra monopolizzato dalle produzioni di alcuni studiosi specializzati in indagini su un’ipotetica storia segreta e inconfessabile di Gramsci, tutta incentrata sulla sua presunta conversione politica, quando non anche religiosa. Un interesse morboso verso il retroscena proteso alla raccolta di prove – in gran parte supposizioni, indizi e banali pregiudizi trasformati in sentenze – di complotti e manipolazioni ordite da amici, familiari e soprattutto compagni di Gramsci, in vita e post mortem. A questa permanente vocazione “scandalistica”, si contrappone però lo sforzo di tante strutture associative, Università, Fondazioni, singoli studiosi, teso a valorizzare e approfondire, con rigore filologico, il contenuto del lascito gramsciano. È il caso dell’evento in programma a Ghilarza, che per una volta ‒ ma non è una volta qualsiasi! ‒ pone la Sardegna al centro del fermento culturale attorno all’opera dell’intellettuale sardo. Il 6 e 7 settembre, infatti, l’associazione Casa Museo Antonio Gramsci, la Fondazione Istituto Gramsci di Roma e l’International Gramsci Society hanno organzzato un Seminario internazionale di studi gramsciani, che si terrà presso la Torre Aragonese di Ghilarza, cui parteciperanno Fabio Frosini (Università di Urbino), Giuseppe Cospito (Università di Pavia), Peter D. Thomas (Brunel University ‒ London), Cosimo Zene (School of Oriental and African Studies ‒ University of London), Gianni Francioni (Università di Pavia), Giancarlo Schirru (Università di Cassino), Joseph A. Buttigieg (University of Notre Dame, Indiana, presidente della IGS ‒ International Gramsci Society), Dora Kanoussi (Benemérita Universidad Autónoma de Puebla, México), Mauro Pala e Gianni Fresu (Università di Cagliari). Oltre ad approfondire i temi centrali della sua opera, il seminario servirà a presentare al pubblico il progetto della “GHILARZA SUMMER SCHOOL”. Grazie al sostegno e ai finanziamenti della Fondazione “Banco di Sardegna”, i cui vertici istituzionali saranno presenti al seminario, la Scuola internazionale di studi gramsciani (GSS) avrà proprio Ghilarza quale sede dei corsi con cadenza annuale. I partecipanti saranno selezionati tra giovani studiose e studiosi, di qualsiasi nazionalità e provenienza, che abbiano già svolto ricerche su Gramsci. Per i più meritevoli tra i candidati è prevista l’attribuzione di borse di studio. La GSS intende essere, un laboratorio, un’officina capace di fornire una “cassetta degli attrezzi”, in modo che tra chi insegna e chi apprende si formi una comunità, riunita attorno a un compito: l’acquisizione delle competenze necessarie allo studio rigoroso dei testi gramsciani e dei concetti (anche di grande attualità analitica) a esso legati. In un contesto generale regressivo, i cui tempi sono dettati dal dramma della crisi economica, quest’esperienza che si va a costruire intende diventare il punto di riferimento, nel mondo, per tutto ciò che ha a che fare con Gramsci: la lettura diretta dei testi, la loro contestualizzazione, la misurazione degli stimoli che essi ancora sanno dare al nostro presente. Un’occasione che occorre saper afferrare, anche per far uscire la nostra regione da un dibattito politico-culturale, sovente asfittico e provinciale ma potenzialmente in grado di aprirsi e connettersi con quanto di più avanzato si dibatte nel resto del mondo.

 

L’Edizione anastatica dei Quaderni del carcere

L’Edizione anastatica dei Quaderni del carcere

L’uscita dell’edizione anastatica dei Quaderni è una tappa fondamentale del lungo lavoro scientifico attorno all’opera, realizzata tra il febbraio del 1929 e il 1935 da Antonio Gramsci, compiuto con rigore e dedizione da più generazioni di studiosi avvicendatisi dal dopoguerra fino a oggi: Felice Platone, Valentino Gerratana, Gianni Francioni.

La prima edizione tematica Platone-Togliatti realizzata tra 1948 e il ’51 e costituì una delle più importanti operazioni culturali di tutto il dopoguerra, i Quaderni furono un’autentica rivelazione per tutta la politica e la cultura nel nostro Paese, a prescindere dalla collocazione ideologica. Oggi in tanti hanno da ridire sull’arbitrarietà del riordino tematico di questa edizione, Lo Piparo ci vede addirittura la prova della malafede di un Togliatti tutto intento censurare Gramsci, in realtà, almeno io la penso così, si trattò di un’operazione estremamente intelligenete che consentì un approccio graduale a un’opera tanto complessa, favorendone la circolazione. Personalmente ritengo che, ancora oggi, quest’edizione sia la più appropriata per chi intenda avvicinarsi la prima volta ai Quaderni senza restare travolto dalla struttura frammentaria di questi.

Il secondo passaggio fu l’edizione critica curata da Valentino Gerratana nel 1975, che segna la maturità degli studi gramsciani e il tentativo di pubblicare i quaderni secondo l’ordine di realizzazione seguito dall’autore.

Per quanto riguarda l’edizione anastatica curata da Gianni Francioni, che riproduce non solo in maniera fedele la successione cronologica dei Quaderni, ma anche i manoscritti originali comprensivi di tutte le loro parti, copertine incluse, essa è stata realizzata nel 2009 dal gruppo editoriale «L’Unione Sarda» e dall’Istituto Treccani, su proposta della Fondazione Siotto e con l’indispensabile sostegno della Fondazione Gramsci. Un esempio assai importante di sinergia tra realtà diverse, in anni di ristrettezze finanziarie a sostegno delle operazioni culturali, che ha anticipato la nuova edizione nazionale dei Quaderni in corso di realizzazione, consentendo a tutti di possedere a un prezzo modico un’opera curata in ogni dettaglio, sia sul versante scientifico, sia su quello della fattura tipografico-editoriale.

L’idea stessa di associare l’uscita settimanale dei singoli volumi a un quotidiano di larga tiratura (seppur regionale), quindi la loro disponibilità in tutte le edicole è stata una felice iniziativa di promozione culturale che ha consentito all’opera di varcare la soglia degli ambienti riservati agli addetti ai lavori.

L’Edizione anastatica è un passaggio decisivo di questo lungo lavoro, sviluppato nel corso dei decenni, teso in primo luogo a favorire la conoscenza e la diffusione dell’opera gramsciana, quindi a rispettarne il rigore filologico. Essa è stata realizzata seguendo il più fedelmente possibile la cronologia dei quaderni e il ritmo di sviluppo degli studi e delle riflessioni realizzate da Gramsci.

Quest’ultima edizione, oltre a dare a tutti l’opportunità di misurarsi con la più fedele riproduzione dei Quaderni, dunque con la stessa grafia minuta «tonda e regolare» di Antonio Gramsci, costituisce uno strumento indispensabile per chi intenda realizzare uno studio scientifico sulle sue riflessioni..

La chiarezza della grafia, farebbe presupporre una lettura piana dei manoscritti, non è così, essa è resa complessa dal metodo di lavoro di Gramsci, ossia dalla sua tendenza a lavorare contemporaneamente su più quaderni, affrontando argomenti estremamente diversificati, sebbene logicamente concatenati, attraverso note in alcuni casi sintetiche, quasi dei promemoria, in altri estese ed approfondite, magari ulteriormente sviluppate e poste in connessione con altri plessi tematici in parti o quaderni successivi. Proprio questa struttura frammentaria, che nella lettura spinge naturalmente a seguire l’affinità tematica degli argomenti, rende arduo il proposito di rispettare l’effettiva cronologia del testo. Per questo l’apparato di note e gli studi realizzati attorno a quest’opera rappresentano una fondamentale bussola di orientamento per non perdersi nel Mare magnum di un’opera tanto complessa.

Nell’edizione anastatica trovano finalmente la loro giusta collocazione le traduzioni delle novelle dei fratelli Grimm curate da Gramsci agli inizi della sua carcerazione, una fase segnata da enormi difficoltà di concentrazione e avvio del piano di lavoro. Era infatti impossibile un rapporto dialogico con altri soggetti, necessario ad evitare un lavoro troppo autoriflessivo; era difficilissimo ottenere i mezzi per studiare con continuità e scrivere secondo un ordine razionale.

Lo sconforto conseguente alle prime disordinate letture gli fanno dubitare sulle reali possibilità di riuscita del progetto. Così in una lettera a Tania, il 23 maggio 1927, annunciava di volersi dedicare a due attività con scopo terapeutico come gli esercizi ginnici e le traduzioni dalle lingue straniere:

Un vero e proprio studio credo mi sia impossibile, per tante ragioni non solo psicologiche ma anche tecniche; mi è molto difficile abbandonarmi completamente a un argomento o a una materia e sprofondarmi solo in essa, proprio come si fa quando si studia sul serio, in modo da cogliere tutti i rapporti possibili e connetterli armonicamente. Qualche cosa in tal senso forse incomincia ad avvenire per lo studio delle lingue, (…) ora leggo le novelline dei fratelli Grimm. Sono proprio deciso a fare dello studio delle lingue la mia occupazione predominante.

Al di là dell’aspetto “terapeutico”, queste traduzioni sono importanti anche sul piano biografico. In una lettera alla sorella Teresina del 18 gennaio 1932, Gramsci scriveva di voler dare un suo piccolo contributo allo sviluppo della fantasia dei nipoti ricopiando e spedendo loro le traduzioni dei fratelli Grimm:

una serie di novelline popolari proprio come quelle che ci piacevano tanto quando eravamo bambini. Sono un po’ all’antica, alla paesana, ma la vita moderna, con la radio, l’aeroplano, il cine parlato, Carnera, ecc. non è ancora penetrato abbastanza a Ghilarza perché il gusto dei bambini d’ora sia molto diverso dal nostro di allora.

Pur provenendo dalla tradizione tedesca, le novelle, ambientate in boschi fitti e tenebrosi popolati di spiriti, streghe e folletti, non erano distanti dalla tradizione orale della fantasia popolare sarda e sembravano plasmarsi perfettamente sull’atmosfera della sua terra e del suo paese, un luogo, sono parole di Gramsci, «dove esisteranno sempre tipi all’antica come tia Adelina e Corroncu e le novelle avranno sempre un ambiente adatto». Il mondo di quelle fiabe gli riportava a memoria le scorribande d’infanzia nelle vallate tra Ghilarza e Abbasanta, quando, suggestionato dalle letture d’avventura, non usciva mai di casa senza avere in tasca chicchi di grano e fiammiferi avvolti nella tela cerata, nella malaugurata eventualità di finire in un’isola deserta. Queste traduzioni, rimasero escluse dalla pubblicazione delle precedenti edizioni dei Quaderni. La presente edizione ha il merito filologico di restituirle alla loro collocazione originaria, fornendo un quadro più esaustivo allo studio completo dell’opera.

L’interesse di Gramsci per la linguistica risale ai tormentati anni dello studio universitario nella grande Torino, resi difficili da salute cagionevole e disponibilità economiche che rasentavano la miseria più assoluta. Il giovane sardo attirò subito l’attenzione di uno dei più importanti studiosi di glottologia del tempo, Matteo Bartoli, e intensificò i rapporti con il docente di letteratura Umberto Cosmo, in passato professore al Liceo Dettori di Cagliari. Bartoli in particolare lo incoraggiò nello studio della linguistica sarda. Così non è inusuale trovare lettere ai familiari riguardanti questo tema. In una destinata al padre del 3 gennaio 1912 chiedeva quando nel dialetto fonnese la s «si pronuncia dolce, come in italiano rosa» e «quando dura, come sole», in altre destinate alla sorella chiedeva di informarsi circa alcune peculiarità del logudorese e del campidanese, su termini, pronunce, varianti. Non è dunque un caso se nei Quaderni tanta attenzione sia dedicata alla glottologia e in generale alla linguistica. Dopo anni di militanza e un’intensa attività teorico-politica, le traduzioni di queste prime note dal carcere avevano un valore propedeutico, oltre che terapeutico, necessarie all’inizio di un lavoro «disinteressato» rispetto al quale le condizioni ambientali non aiutavano. È ancora una lettera a Tania del 15 settembre 1930, nella quale considerazioni personali e di studio si mischiano, ad accennarlo:

sarà perché tutta la mia formazione intellettuale è stata di ordine polemico; anche il pensare disinteressatamente mi è difficile, cioè lo studio per lo studio. Solo qualche volta, ma di rado, mi capita di dimenticarmi in un determinato ordine di riflessioni e di trovare per dir così, nelle cose in sé l’interesse per dedicarmi alla loro analisi. Ordinariamente mi è necessario pormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non sento alcuno stimolo intellettuale

Al di là di questa valutazione autocritica, tratto caratteristico della personalità di Gramsci, le traduzioni e gli studi di linguistica sono condotti con assoluto rigore filologico, curiosità intellettuale e un metodo oggi analizzato con grande attenzione dagli specialisti della materia. Nel comunicare in una lettera la volontà di dedicarsi ad uno studio sistematico della linguistica comparata,  egli confessò alla cognata Tania che uno dei suoi maggiori rimorsi intellettuali era «il dolore procurato al buon professor Bartoli dell’Università di Torino»,  ma gli avvenimenti del «mondo grande, terribile e complicato», che precedettero e seguirono la guerra, avevano spinto il giovane intellettuale sardo, come tanti della sua generazione, a trovare nell’impegno politico una nuova ragione di esistenza per la quale valeva la pena di rischiare tutto, compresa la vita.

Il terzo Quaderno di traduzioni, oltre a proseguire lo studio sui ceppi linguistici di Franz Nikolaus Finck, contiene le traduzioni delle Conversazioni con Goethe di Eckermann. Le Conversazioni raccolgono le memorie del grande poeta e scrittore tedesco attraverso i colloqui con il suo segretario Joahn Peter Eckermann. Goethe è stato definito un genio universale per la versatilità del suo estro manifestatosi in diversi campi del sapere, poesia, letteratura, scienza, filosofia. Eckermann tramite i ricordi ne ricostruisce l’universo ideale, il mondo e i valori, fino a tratteggiare un affresco biografico ritenuto uno dei più grandi patrimoni della letteratura occidentale, tanto da essere definito da Niezstche «il miglior libro tedesco mai scritto». Goethe è una figura sistematicamente presente nei Quaderni come nelle lettere. Per Gramsci ogni nazione ha un letterato che ne riassume in qualche modo la gloria intellettuale, Shakespeare per l’Inghilterra, Cervantes per la Spagna, Dante per l’Italia, Goethe per la Germania. Tuttavia solo Shakespeare e Goethe possono ritenersi figure intellettuali operanti anche nell’età contemporanea, autori attuali, per la loro capacità «d’insegnare come dei filosofi quello che dobbiamo credere, come poeti quello che dobbiamo intuire (sentire), come uomini quello che dobbiamo fare». In Goethe Gramsci intravede una forza politico-culturale capace di varcare il suo tempo e imporsi al presente: «solo Goethe è sempre di una certa attualità, perché egli esprime in forma serena e classica ciò che nel Leopardi è ancora torbido romanticismo», rappresenta la fiducia nell’attività creatrice dell’uomo in una natura vista non come nemica e antagonista. La lettura delle Conversazioni con Goethe nella condizione di detenzione accomuna l’esperienza di Gramsci con quella di un grande critico letterario francese vissuto negli stessi anni, Jacques Rivière. Nel Quaderno I Gramsci riporta alcuni stralci delle Impressioni di prigionia, scritte dallo storico editore della «Nouvelle Revue Française» e pubblicate nel 1928, tre anni dopo la sua morte. In esse Rivière raccontava le vessazioni subite durante la prigionia nella prima guerra mondiale, in particolare l’umiliazione patita nel corso di una perquisizione nella sua cella, quando vennero sequestrate le sue poche cose e soprattutto l’unico libro che aveva con sé, appunto le Conversazioni con Goethe. Gramsci ha trascritto le sensazioni di disperazione e angoscia del francese per lo stato brutale e incerto di una prigionia, vissuta come un’ineliminabile «stretta al cuore», nella quale si è costantemente esposti a ogni tipo di angheria e la condizione di oppressione fisica e psichica diviene insopportabile. Un’angoscia, testimoniata da tutto il carteggio delle lettere, condivisa dall’intellettuale sardo che non a caso concluse queste note scrivendo del pianto in carcere «quando l’idea della morte  si presenta per la prima volta e si diventa vecchi d’un colpo».

In una famosa lettera scritta alla cognata Tania Schucht il 19 marzo 1927 dal carcere di Milano, Gramsci avanzava l’esigenza di dedicarsi ad un lavoro di ricerca «disinteressato» capace di occuparlo intensamente. Questo brano costituisce un ponte tra l’analisi sulla Questione meridionale e quella dei Quaderni ed è la prima esposizione del piano di lavoro ipotizzato per gli anni di detenzione. Già nel primo Quaderno, il tema dei rapporti tra Settentrione e Meridione è indagato con una prospettiva storica che comprende le dinamiche del Risorgimento italiano e la funzione politica degli intellettuali. Per Gramsci l’Unità si è realizzata attraverso una relazione squilibrata dove l’arricchimento e l’incremento industriale del Nord dipendevano dall’impoverimento del Mezzogiorno. Egli parla di uno sfruttamento semicoloniale occultato da tutta una letteratura che spiegava l’arretratezza del Sud con l’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita dell’uomo meridionale. Un Meridione liberato dal giogo borbonico, ritenuto fertile e ricco di risorse naturali, e ciò nonostante incapace di emanciparsi dalla miseria e dall’arretratezza per ragioni tutte interne al Meridione stesso. Un Sud «palla al piede» che impediva al Nord un più rapido progresso verso la modernità industriale e la ricchezza economica. Nel Quaderno uno è analizzato un tema organico all’intera opera, la debolezza delle classi dirigenti italiane: l’arresto dello sviluppo della civiltà comunale e la mancata formazione di uno Stato unitario moderno, i limiti del Risorgimento e l’assenza di una compiuta dialettica parlamentare in età liberale, il fenomeno del trasformismo. Il Risorgimento, tuttavia, è lo snodo analizzato maggiormente nel primo Quaderno, a iniziare dal fallimento delle prospettive democratiche del partito di Mazzini e dalla capacità egemonica dei Moderati di Cavour, i veri protagonisti dell’unificazione nazionale per l’intellettuale sardo. Il problema tutto italiano del «trasformismo» non era per Gramsci semplicemente un fenomeno di malcostume politico, bensì un preciso processo di cooptazione con il quale, dal Risorgimento in poi, si è ottenuto un consolidamento del potere politico attraverso la decapitazione e l’assorbimento dei gruppi avversi allo Stato. L’importanza di queste analisi, che tratteggiano i termini essenziali di una “biografia nazionale”, è notevole sia per la storia che per la scienza politica e in esse sono contenute alcune tendenze che ciclicamente ricorrono nella vita politica italiana, specie nelle sue fasi di crisi. Ma l’originalità di tale analisi risiede nel comprendere che ogni sistema di potere si regge non solo sull’uso della forza ma anche sul consenso, sulla capacità di formare sul piano culturale e sociale ciò che comunemente viene definito “opinione pubblica”: la funzione essenziale degli intellettuali in una società moderna, il grande tema della società civile come articolazione organica di ciò che genericamente si intende per Stato.

Come accennato, nel carcere di Turi l’8 febbraio 1929, più di due anni dopo l’arresto, avvenuto l’8 novembre del 1926, Gramsci aveva iniziato la stesura dei Quaderni. In carcere lo studio è un metodo di resistenza all’abbruttimento intellettuale, strumento di sopravvivenza sia fisica che politica. Come ha scritto Valentino Gerratana, dalla tensione tra queste due esigenze prendono forma i Quaderni, un lavoro composto di appunti e riflessioni destinati ad ulteriore definizione, eppure di straordinaria ricchezza, tanto da essere ritenuto irrinunciabile per tanti ambiti scientifici molto diversi tra loro. Dalla critica letteraria alla linguistica, dalla storia alla scienza politica, dalla pedagogia al teatro. Un’opera che attualmente è oggetto di studi universitari approfonditi negli USA, in Inghilterra, Giappone, India, Brasile e Messico più di quanto non lo sia in Italia. Nei Quaderni emerge il rigore politico e insieme la spietata concretezza, con i quali l’intellettuale sardo fa i conti con il crollo del sistema liberale in Italia e con esso il travolgimento del movimento operaio e del proprio campo politico. Un dramma storico che spinge Gramsci ad un’indagine priva di indulgenze sui limiti, gli errori, le astrattezze dell’intero fronte oppostosi a Mussolini. Ma l’indagine non si ferma al contingente dato politico. Gramsci si interroga problematicamente sulla totalità e organicità dei processi storici, sui limiti congeniti dell’intera vita politica italiana, sulla continuità dei suoi vizi, senza tentare di assolvere o fare sconti al suo stesso orientamento politico-ideologico. Proprio questa problematicità ha spinto Gramsci ad evitare qualsiasi lettura storiografica e politica semplificante. Il fascismo costituiva la negazione più completa dei suoi valori e delle sue prospettive politiche, ciò nonostante l’intellettuale sardo lo analizza come fenomeno razionale e reale, scaturito da precise cause, storicamente determinate, in continuità con la storia delle sue classi dirigenti. Il fascismo ha per Gramsci radici profonde nella storia d’Italia e per molti versi il piano di lavoro dei Quaderni del carcere costituisce un tentativo d’indagine per andare al fondo di quelle radici. Da questa esigenza prende corpo un’opera assai vasta che passa sotto una lente d’ingrandimento mai banale i fatti degli uomini e delle idee, esposti con una prosa attenta e tagliente che spesso non disdegna di cogliere il lato ironico delle cose. Il carattere tutt’altro che dogmatico dell’opera di Gramsci, gli ha permesso di sfuggire alle rigide classificazioni, di andare oltre la crisi e il crollo del suo stesso campo politico-ideologico, di varcare il limite temporale e politico del Novecento. I Quaderni del carcere sono uno strumento chiave per leggere anche l’attualità, costituiscono ancora oggi una bussola fondamentale per orientarsi nelle contraddizioni della modernità, e non è certo un caso se gli studi in suo onore abbiano, oggi più di ieri, un posto di assoluto rilievo a livello internazionale tra i grandi pensatori della storia dell’umanità.

L’edizione anastatica ha il merito di renderci i Quaderni così come sono, senza mediazioni o dubbi sulla natura arbitraria delle scelte operate dal curatore di turno, da a ognuno un privilegio fino a oggi riservato a pochissimi studiosi, quello di leggere Gramsci seguendo, non solo la natura magmatica dei suoi ragionamenti, ma anche la sua originale traduzione grafica. Conoscendo e seguendo le sue vicende biografiche, nei tormentati anni passati in carcere si può quasi immaginare lo stato d’animo dell’autore attraverso il ritmo delle sue riflessioni e il tratto della sua mano. Per tutte queste ragioni, la realizzazione di questa edizione rappresenta una pietra miliare nella storia delle ricerche su Antonio Gramsci e più in generale nella storia culturale del nostro Paese. Per una volta, possiamo dirlo con orgoglio, un progetto tanto importante è stato realizzato in Sardegna.

 

Gianni Fresu

Convegno di studi: “ENRICO BERLINGUER”. Oltre la crisi della politica e dell’economia.

 

Convegno di studi e ciclo di proiezioni

“ENRICO BERLINGUER”.
Oltre la crisi della politica e dell’economia

intervengono:
Aldo Tortorella (storico, direttore di Critica Marxista),
Austerità. Berlinguer e la prima grande crisi del dopoguerra

Alexander Hobel(storico, Fondazione Luigi Longo),
Berlinguer, il partito e la politica internazionale

Gianni Fresu (storico, Università di Cagliari),
Il giovane Berlinguer. Tra antifascismo e ricostruzione democratica.

coordina
Simone Seu (presidente Associazione A. Gramsci Cagliari)

organizzano

Associazione Culturale e circolo del cinema FICC Antonio Gramsci Cagliari

Giovedì 30 maggio 2013, Aula magna Scienze Politiche Cagliari Via Sant’Ignazio, 78 ore 16:30

Rassegna cinematografica
presso la sede del circolo del cinema Laboratorio28
Via Montesanto, 28 Cagliari

Martedì 4 Giugno 2013
ore 20.30
Enrico Berlignuer, AA.VV. (Italia, 2007)

Martedì 11 Giugno 2013
ore 20.30
Berlinguer, ti voglio bene di Giuseppe Bertolucci (Italia, 1977)

seguirà la discussione del film
ingresso libero con tessera FICC 2013 (2 euro, studenti gratis)

in collaborazione con la Società Umanitaria Cineteca Sarda
con il contributo dell’università degli studi di Cagliari

“Mille libri per Gramsci”. Convegno internazionale di studi.

  • Cagliari
  • MILLE LIBRI PER GRAMSCI: LA FORTUNA INTERNAZIONALE DEI PENSIERI GRAMSCIANI NEL MONDO GRANDE E TERRIBILECONVEGNO DI STUDI INTERNAZIONALI

    Venerdì 24 maggio 2013
    Cagliari, Aula Magna Facoltà di Lettere

    PRIMA SESSIONE – ore 9:00

    Saluti

    Ignazio Putzu
    Direttore Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica Università degli studi di Cagliari

    Alberto Coni
    Presidente Associazione Casa Natale Gramsci Ales

    Maria Giovanna Faedda
    Presidente Casa Gramsci Ghilarza

    Eugenio Orrù
    Direttore Istituto Gramsci della Sardegna

    Francesco Carta
    Presidente Terra Gramsci, IGS Italia

    Proiezione filmato “Il nostro Gramsci, Incontro con Erik J. Hobsbawm”
    a cura di Giorgio Baratta

    Intervengono:

    Fabio Frosini
    Gramsci, studiare i testi

    Angelo D’Orsi
    A. Gramsci: la cultura, gli intellettuali

    Gianni Fresu
    L’edizione anastatica dei Quaderni

    Giulio Angioni
    Gramsci negli studi antropologici: da Cirese a Baratta

    Mauro Pala
    La recezione del pensiero gramsciano in U.S.A

    Dereck Boothman
    Gramsci in Inghilterra

    Coordina
    Sabrina Perra

    SECONDA SESSIONE, ore 16:00

    Intervengono:

    Francesca Chiarotto
    Perché tutto il mondo oggi parla di Gramsci

    Iain Chambers
    Gramsci e gli studi postcoloniali

    Miguel Mellino
    Sulla recezione di Gramsci in Sudamerica: il caso Argentina

    Emiliano Alessandroni
    La ricezione di Gramsci in Germania: Wolfgang Fritz Haug, e il problema dell’oggettivismo

    Patrizia Manduchi
    Gramsci nel mondo arabo. Dall’egemonia alla rivolta

    Cosimo Zene
    Gramsci nel subcontinente indiano

    Coordina
    Alessandra Marchi

Intervento all’assemblea “Che fare? Comunisti e sinistra”. Magazzini Popolari Casal Bertone, Roma 13 aprile 2013

Gianni Fresu

Intervento all’assemblea “Che fare? Comunisti e sinistra”.

Magazzini Popolari Casal Bertone, Roma 13 aprile 2013


Care compagne e cari compagni, di fronte al fallimento non solo delle prospettive, ma persino dei presupposti politici della cosiddetta sinistra d’alternativa in Italia fin qui praticati, si è aperta una discussione estremamente utile e stimolante, perché finalmente ha liberato molti di noi dai vincoli castranti delle rispettive aree e tendenze di appartenenza, rimaste parimenti travolte dal fallimento dei relativi partiti. C’è a sinistra uno spazio enorme da colmare, il modo migliore per comprendere la situazione reale e predisporci a elaborare una proposta all’altezza della sfida è non cercare rifugi nelle liturgie rassicuranti, ma perdenti, delle nostre rispettive comunità politiche di provenienza. Da questo punto di vista, iniziative come quella di oggi hanno un indubbio merito: riavviare una discussione non frazionata dagli steccati difensivi dei propri orticelli.

Quale esito possa avere una simile discussione è difficile dirlo, l’importante è dargli l’avvio (per usare un’espressione molto cara a Togliatti nei tremendi anni trenta) «senza aver paura di fare politica». Una cosa è certa, almeno così la penso io, bisogna accuratamente rifuggire da una tentazione: preconfezionare un progetto politico bell’è pronto da offrire in dote agli altri, aspettandoci eventuali adesioni entusiastiche o passive. Per essere ancora più chiari, non bisogna farci risucchiare dalle velleità caratteristiche delle fasi di crisi,  che in ultima analisi si tradurrebbero nella creazione dell’ennesimo partitino che si andrebbe a sommare a quelli esistenti. Occorre fare il procedimento inverso, discutere tra noi con l’ambizione di superare le attuali divisioni, mi rendo conto che è un’impresa ciclopica, ma se non ci proviamo ora nella condizione di riflusso e nello stato catatonico in cui ci troviamo, quando lo dovremmo fare?

Questa discussione non parte da zero, ognuno di noi ha fatto le proprie battaglie ed è portatore della sua personale elaborazione dei fatti. Vale anche per me e, dato che in questo momento non siamo impegnati in una gara di creatività intellettuale, mi scuso preliminarmente se in diversi passaggi dovrò fare nuovamente affidamento a ragionamenti e concetti da me già espressi altrove.

 

 

1)     Crisi organica.

 

Dopo decenni di giusta e previdente predicazione contro i paradigmi liberisti sostenuti da governi, accademie, giornali e benpensanti variamente collocati, abbiamo di fronte il collassamento di tutti i principali punti di riferimento dell’ideologia del “libero mercato” e la totale assenza di credibilità popolare da parte dei sacerdoti da sempre impegnati nel culto del “lasseiz-faire”. Ci troviamo in una fase di «crisi organica» del capitalismo mondiale, ossia, non una congiuntura, bensì una crisi strutturale che coinvolge in pieno i rapporti di produzione, quelli sociali, i circuiti finanziari di remunerazione dei capitali, lo stesso rapporto di rappresentanza dei sistemi parlamentari.

 

Gramsci diceva che quando si verifica una condizione di «crisi organica», i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali non riconoscendo più nei propri gruppi dirigenti l’espressione politica dei propri interessi di classe. In situazioni di tale tipo si moltiplicano le possibili soluzioni di forza, i rischi di sovversivismo reazionario, le operazioni oscure sotto la guida di capi carismatici. Il determinarsi di questa frattura tra rappresentati e rappresentanti porta per riflesso al rafforzamento di tutte quegli organismi relativamente indipendenti dalle oscillazioni dell’opinione pubblica come la burocrazia militare e civile, l’alta finanza, la chiesa. In una fase di crisi organica sono le classi subalterne a correre i maggiori rischi, poiché le classi dirigenti tradizionali dispongono di quadri e personale dirigente più addestrato, esse sono capaci di modificare uomini e programmi riacquistando il pieno controllo di una realtà che gli andava sfuggendo, mantenendo il potere e utilizzandolo per rafforzare la propria posizione.

Oggi ci troviamo in una situazione per molti versi simile, sicuramente diversa, non comprimibile nelle braghe dell’analogia storica, tuttavia, proprio dai drammi passati deve scaturire in noi la consapevolezza che nulla va sottovalutato. Le crisi organiche sono dominate dalle «rivoluzioni passive», vale a dire, fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le”riforme” vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Il fascismo è uno degli esempi più emblematici di ciò, ma non il solo. Siamo di fronte ad un gigantesco tentativo di ristrutturazione internazionale dei rapporti sociali e di produzione da parte delle classi dominanti, la cui portata potrà essere valutata appieno solo tra venti o trenta anni, per ora possiamo limitarci a sottolineare che in Italia tutto questo avviene proprio nella fase di maggior crisi storica del movimento comunista e più in generale di tutte le prospettive alternative al modo di produzione capitalistico.

 

2)     Crisi del nostro campo politico.

 

Di sconfitta in sconfitta, il nostro campo si è progressivamente ridimensionato, fino a divenire inutile, residuale, insignificante. L’ho già detto e non posso che ripeterlo, negli ultimi anni siamo stati impegnati, più che a costruire un nostro progetto politico e dargli credibilità, a ragionare in termini di posizionamento rispetto agli altri: PD sì, PD no; governo sì, governo no.

Sta accadendo anche ora, nonostante il tracollo. Anche in questi giorni sono stato raggiunto per telefono, mail, o altro da compagni e dirigenti preoccupati per il problema delle alleanze, tanto da intendere lo scioglimento preventivo di questo nodo la premessa a qualsiasi discussione. Da una parte mi è stato detto: “ma non puoi metterti a discutere con quei matti che mai farebbero un’alleanza con il centrosinistra”. Dall’altra: “va bene discutere, ma sia chiaro prima di tutto, mai ci alleeremo con chicchessia!”

Mi permetto di dissentire da questo modo di avviare la discussione. Fondare o affondare (come è capitato alla FdS) il proprio progetto sulla politica delle alleanze (alleati sempre e comunque oppure mai) è indice di subalternità politica: in entrambi i casi il soggetto non sono io, bensì l’altro, in ragione del quale, in un senso o nell’altro, configuro tutte le mie scelte di tattica e strategia. Nonostante la nostra irrilevanza, conclamata,vedo ancora troppi compagni ripiegati su una valutazione meramente difensiva, più impegnata a fare le pulci alle organizzazioni collocate alla nostra destra che a realizzare un proprio bilancio. Smettiamola di parlare del PD, pensiamo a cosa vogliamo fare noi, anteporre la politica delle alleanze (PD sì, PD no) è un modo per mascherare la mancanza di una nostra soggettività politica. Per il PCI del dopoguerra la scelta di collaborare o rompere con le altre forze non era la premessa, ma una semplice eventualità tattica da prendere inconsiderazione a seconda delle situazioni e soprattutto dell’oggetto della collaborazione, o della rottura, in sé.

Chi trasforma questo rovello storico, in positivo o in negativo, ne rimane irrimediabilmente prigioniero. A mio avviso, esso non è la causa della nostra debolezza, bensì, l’effetto. Le cause del problema vanno ricercate altrove: la nostra subalternità culturale non solo verso l’attuale quadro politico, ma anche, e soprattutto, nei confronti di una più complessiva visione del mondo, di una Weltanschauung, che ci limitiamo a subire e ovviamente non siamo in grado di aggredire. Senza una nostra visione del mondo, che contempli un ordine diverso dall’attuale, la funzione dei comunisti perde di significato e senso storico, siamo destinati a essere fagocitati dai limiti storici delle politiche socialdemocratiche, anche se queste sono profondamente in crisi.

Per essere ancora più chiari, a mio avviso, il nostro problema non è l’essere o non essere stati l’ala sinistra di un progetto conservatore, la teoria del “socialfascismo” non mi ha mai suscitato alcuna simpatia.Il difetto semmai è all’origine: è mancata la parte rifondativa della nostra sfida. Abbiamo saputo riprodurre tutti i peggiori difetti dell’ultimo PCI, senza però averne il peso, non siamo stati capaci di costruire una nostra visione coerente e organica del mondo. Abbiamo lasciato il marxismo illanguidire in soffitta per andare ecletticamente al traino delle ultime novità “radicali”(Revelli, Toni Negri, pensiero No-global, disobbedienza,nonviolenza, ecc. ecc) in un continuo pellegrinaggio ideologico fatto di svolte e contro-svolte talmente volubili, e sovente contraddittorie, da averci lasciato, in ultima analisi, disarmati, proprio in una fase che doveva essere nostra: quella della crisi organica del capitalismo, segnata dal discredito e dalla disapprovazione popolare per le politiche liberiste.

Diciamolo serenamente, abbiamo fallito nella premessa del nostro progetto: non abbiamo rifondato né una teoria, né una prassi comunista.Ripartire, con onestà, significa fare i conti con questo problema, come affermava Marx, gli uomini prendono coscienza del proprio essere sociale,dunque fanno scelte di campo, sul terreno delle ideologie. Attualmente quale è la nostra?

Non caschiamo nella “falsa coscienza” della filosofia imperante, secondo cui le ideologie sono superate, è una menzogna, il liberalismo ha ancora oggi una sua ideologia, e le politiche che stiamo subendo in questi anni ne sono una tragica conferma, la stessa anti-ideologia dei movimenti antipartitici alla Grillo è, in realtà, un’ideologia in sé, costruita per negazione. Noi, non solo non abbiamo curato la costruzione di una nostra nuova visione del mondo all’altezza della sfida odierna, ci siamo sbarazzati di quella che avevamo ereditato. Da qui bisogna ripartire, per questo ritengo necessario mettere al bando i comitati e le bizzarrie elettorali tanto in voga nell’ultimo decennio per avviare un lavoro di lungo periodo.

Mi è capitato di chiarire altrove la mia opinione sulle ragioni del nostro fallimento: anzitutto la tendenza a impegnarci in campagne estemporanee, escogitate nei frangenti elettorali, e l’inconsapevole tendenza ad anteporre queste operazioni a una costruzione paziente del nostro progetto politico, capace di seminare, sedimentare e al limite, ottenere risultati.

Quanto accaduto alla Federazione della Sinistra, unico tentativo nato con la felice intuizione di invertire il processo disgregativo e decompositivo tra di noi è di per sé negativo. Chiarito che i gruppi dirigenti dei partiti costitutivi non ci hanno mai creduto, e si sono guardati bene dal mettere in discussione i propri santuari di autonoma sovranità, per quanto miseri, cosa necessaria se si intendeva trasformare un cartello elettorale in progetto politico. La FdS, dopo quattro anni di propaganda unitaria, in gran parte contraddetta dai comportamenti concreti, è morta per comune accordo a pochi mesi dalle elezioni, e nemmeno sul tema delle alleanze per il governo, ma addirittura sulle primarie. Un fallimento totale, per poi ritrovare dopo pochi mesi quelle stesse forze unite nella stessa lista, però senza nemmeno il simbolo con cui si erano presentate dal 2009 in poi agli italiani, un capolavoro politico. È  sconcertante, nessuno, tra i gruppi dirigenti, ha avuto l’umiltà di aprire una riflessione sulle ragioni di questo fallimento mettendo in discussione la propria direzione politica e con essa il proprio ruolo. Non solo, nemmeno la scoppola subita alle recenti elezioni politiche è servita per un’assunzione di responsabilità in tal senso. Se il PRC ha partorito un assurdo CPN dal quale è scaturito lo “straordinario Congresso”, non un Congresso straordinario (in fin dei conti non è accaduto nulla per pensare a una condizione di straordinarietà) il cui motto principale  sarebbe “rilanciare la Rifondazione”, nella stessa giornata, a pochi isolati di distanza i comunisti italiani lanciavano la parola d’ordine“ricostruire il PdCI”. Sarò forse io un po’ lento a capire la politica, ma ancora non mi è chiaro come sia possibile unire tirando nuovamente su tramezzi e muri divisori tra di noi, anziché deciderci finalmente a buttare giù i ruderi di quelli costruiti un tempo.

 

3)      Che fare?


Nella loro storia i comunisti hanno saputo incidere sulla realtà, e uscire dal ghetto in cui le forze sociali conservatrici li avrebbero voluti relegare, quando hanno avuto il coraggio di guardarsi allo specchio e riconoscere i propri limiti, attraverso una severa, non rituale, autocritica.E’ stato così con il Congresso di Lione, che mise al bando settarismi e astrattismi ideologici con l’ambizione di costruire un partito in grado di analizzare la propria realtà nazionale e aderirvi plasticamente. E accaduto ancora nel fatidico biennio 1934-35, quando il movimento comunista ebbe il coraggio di sottoporre a severa critica la fallimentare tattica del periodo 1928-33, che recava con sé gravi responsabilità sull’avvento del nazismo in Germania e sulla condizione di isolamento vissuto dai comunisti nei diversi Paesi europei. Senza il radicale cambio di rotta del 1935, al VII Congresso dell’Internazionale, difficilmente i comunisti avrebbero potuto assumere il ruolo poi svolto nella guerra al nazifascismo.

Oggi, in chi ci ha guidato nel “Horror tour” dell’irrilevanza politica, trovo carente proprio quella capacità di guardarsi dentro e comprendere una realtà circostante sempre più distante da noi, dalla quale siamo irrimediabilmente respinti. Esistono al di fuori di noi tanti soggetti collettivi impegnati sul piano sociale o culturale, milioni di singoli individui costretti alla solitudine politica ma potenzialmente interessati a un progetto di classe. Molti di questi sono transitati nelle nostre organizzazioni, o magari hanno guardato a noi con simpatia, ma si sono allontanati senza trovare al nostro interno un progetto credibile e organico capace di riattivarne la partecipazione. Occorre andare oltre i nostri partiti, azzerare tutti gli organismi dirigenti, per dar corso a una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti nel nostro Paese: non si tratta solo di rimettere in moto, con l’entusiasmo e il senso di appartenenza,un ingranaggio inceppatosi, occorre con coraggio costruirne uno nuovo perché quello attuale è oramai inadeguato.

Non c’è, oggi, solo la crisi del capitalismo a livello internazionale, in Italia abbiamo oggi una decomposizione del sistema politico tale da aver travolto le mirabili previsioni della cosiddetta democrazia dell’alternanza, il bipolarismo, che nelle intenzioni dei suoi ingegneri e apologeti, tanto nel centro destra, quanto nel centro sinistra, avrebbe dovuto garantire un “salutare” ancoraggio politico del Paese al centro. Per due decenni hanno abbindolato gli italiani, dicendo che il superamento della “Prima Repubblica”, l’odiato sistema consociativo del proporzionale, avrebbe dato al Paese con la governabilità la stabilità economica, dunque la prosperità sociale. Oggi tutti questi discorsi appaiono sbiaditi e lontani ricordi. Però,a fronte di una mistificazione che si svela, ci troviamo in uno scenario politico nel quale sono sopravissute solo tre opzioni politiche PD, PDL, M5S. Nessuno di questi tre raggruppamenti pone al centro dell’agenda politica la questione che maggiormente segna questa fase di crisi economica, il lavoro.

La crisi organica del capitalismo mondiale, il susseguirsi di una serie infinita di guerre imperialistiche legate alla lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche, l’intensificarsi nel nostro Paese dell’offensiva padronale contro il mondo del lavoro, hanno fornito più di una conferma oggettiva all’ esigenza di un Partito non solo genericamente di sinistra, bensì di un’organizzazione che fondasse la sua ragion d’essere su una inequivocabile scelta di campo all’interno del conflitto capitale lavoro.  Alle conferme oggettive si sono sommate quelle soggettive, nel senso che a dispetto di chi per trent’anni ha preconizzato la fine del conflitto sociale e l’inutilità di un’organizzazione autonoma delle classi subalterne, in questi due anni è salita quasi spontaneamente, dal mondo del lavoro e dalle realtà del disagio sociale,la richiesta di una salda rappresentanza sociale e politica, seria e credibile,capace di andare oltre la classica oscillazione schizofrenica tra settarismo e opportunismo. Su questo dobbiamo iniziare a lavorare, con umiltà, senza velleità o ingenui volontarismi. Una cosa è certa, il quadro politico da cui veniamo è oramai superato, le nostre rispettive forze politiche, sia chiaro, non il comunismo in quanto tale, hanno fallito nella loro missione, hanno esaurito la loro funzione storica, bisogna andare oltre per riaggregare, a partire dai comunisti, una sinistra di classe più ampia capace di invertire la tendenza oramai inesorabile alla sconfitta.

Rispetto a tutto questo non sono possibili scorciatoie di alcun tipo, nemmeno quelle che ripropongono con 23 anni di ritardo i paradigmi di una “nuova Bolognina”. Possibile che, proprio nel pieno di una così catastrofica crisi organica del capitalismo, siano i comunisti a dover arrotolare le loro bandiere e non le forze liberali e socialdemocratiche, responsabili di questo disastro economico-sociale?

Quel che trovo veramente anacronistico e, se fossi credente, direi fuori dalla “grazia di dio”, è un dibattito a sinistra ancora ostaggio di conflitti e personalismi stratificatisi nel tempo, che hanno origine in divisioni di dieci, venti, trenta anni fa. Nel mentre è cambiato tutto attorno, eppure, noi siamo ancora appesi alle fratture di allora, al punto da affiliare nelle rispettive cordate giovani sovente inconsapevoli, che per ragioni anagrafiche non hanno potuto vivere certi avvenimenti. Il merito della discussione che avviamo oggi è di voler tracciare una linea di demarcazione per iniziare un confronto costruttivo, con l’ambizione di superare questo stato di cose, facendo a meno dei pregiudizi reciproci. Si può fare di più è meglio? Sicuramente, però credo che questa sia la strada giusta per partire, e la ritengo molto più appropriata della solita, autoreferenziale, dialettica dell’ombelico che contraddistingue le discussioni interne ai due partiti, per non parlare delle singole aree di appartenenza. Siamo tutti sotto un cumulo di macerie, o iniziamo a rimuoverle insieme o un giorno sapranno di noi (“il misterioso popolo dei comunisti”) solo dopo qualche scavo archeologico.

Usciamo dal ghetto!

Usciamo dal ghetto!

 

Chiarito il quadro del nostro fallimento, penso sia giunto il momento di pensare al dopo, agli elementi da cui ripartire per far uscire i comunisti dalla condizione di marginalità, anzi, invisibilità politica e sociale in cui si sono cacciati. Per prima cosa, penso si debbano fare i conti con gli errori fatti per evitare di ripeterli e imprimere una svolta rispetto al passato.

Nella loro storia i comunisti hanno saputo incidere sulla realtà, e uscire dal ghetto in cui le forze sociali conservatrici li avrebbero voluti relegare, quando hanno avuto il coraggio di guardarsi allo specchio e riconoscere i propri limiti, attraverso una severa, non rituale, autocritica. E’ stato così con il Congresso di Lione, che mise al bando settarismi e astrattismi ideologici con l’ambizione di costruire un partito in grado di analizzare la propria realtà nazionale e aderirvi plasticamente. E accaduto ancora nel fatidico biennio 1934-35, quando il movimento comunista ebbe il coraggio di sottoporre a severa critica la fallimentare tattica del periodo 1928-33, che recava con sé gravi responsabilità sull’avvento del nazismo in Germania e sulla condizione di isolamento vissuto dai comunisti nei diversi Paesi europei. Senza il radicale cambio di rotta del 1935, al VII Congresso dell’Internazionale, difficilmente i comunisti avrebbero potuto assumere il ruolo poi svolto nella guerra al nazifascismo.

Senza voler scomodare esempi storici ingombranti come questi, o altri che potremmo citare, tuttavia, ritengo oggi carente proprio quella capacità di guardarsi dentro e comprendere una realtà circostante sempre più distante da noi, dalla quale siamo irrimediabilmente respinti. Nonostante la nostra irrilevanza, conclamata, vedo ancora troppi compagni ripiegati su una valutazione meramente difensiva, più impegnata a fare le pulci alle organizzazioni collocate alla nostra destra che a realizzare un proprio bilancio. Smettiamola di parlare del PD, pensiamo a cosa vogliamo fare noi, anteporre la politica delle alleanze (PD sì, PD no) è un modo per mascherare la mancanza di una nostra soggettività politica. Per il PCI del dopoguerra la scelta di collaborare o rompere con le altre forze non era la premessa, ma una semplice eventualità tattica da prendere in considerazione a seconda delle situazioni e soprattutto dell’oggetto della collaborazione, o della rottura, in sé.

Chi trasforma questo rovello storico, in positivo o in negativo, ne rimane irrimediabilmente prigioniero. A mio avviso, esso non è la causa della nostra debolezza, bensì, l’effetto. Le cause del problema vanno ricercate altrove: la nostra subalternità culturale non solo verso l’attuale quadro politico, ma anche, e soprattutto, nei confronti di una più complessiva visione del mondo, di una Weltanschauung, che ci limitiamo a subire e ovviamente non siamo in grado di aggredire. Senza una nostra visione del mondo, che contempli un ordine diverso dall’attuale, la funzione dei comunisti perde di significato e senso storico, siamo destinati a essere fagocitati dai limiti storici delle politiche socialdemocratiche, anche se queste sono profondamente in crisi.

Per essere ancora più chiari, a mio avviso, il nostro problema non è l’essere stati l’ala sinistra di un progetto conservatore, la teoria del “socialfascismo” non mi ha mai suscitato alcuna simpatia. Il difetto semmai è all’origine: è mancata la parte rifondativa della nostra sfida. Abbiamo saputo riprodurre tutti i peggiori difetti dell’ultimo PCI, senza però averne il peso, non siamo stati capaci di costruire una nostra visione coerente e organica del mondo. Abbiamo lasciato il marxismo a illanguidire in soffitta per andare ecletticamente al traino delle ultime novità “radicali”(Revelli, Toni Negri, pensiero No-global, disobbedienza, nonviolenza, ecc. ecc) in un continuo pellegrinaggio ideologico fatto di svolte e controsvolte talmente volubili, e sovente contraddittorie, da averci lasciato, in ultima analisi, disarmati, proprio in una fase che doveva essere nostra: quella della crisi organica del capitalismo, segnata dal discredito e dalla disapprovazione popolare per le politiche liberiste.

Diciamolo serenamente, abbiamo fallito nella premessa del nostro progetto: non abbiamo rifondato né una teoria, né una prassi comunista. Ripartire, con onestà, significa fare i conti con questo problema, come affermava Marx, gli uomini prendono coscienza del proprio essere sociale, dunque fanno scelte di campo, sul terreno delle ideologie. Attualmente quale è la nostra?

Non caschiamo nella “falsa coscienza” della filosofia imperante, secondo cui le ideologie sono superate, è una menzogna, il liberalismo ha ancora oggi una sua ideologia, e le politiche che stiamo subendo in questi anni ne sono una tragica conferma, la stessa anti-ideologia dei movimenti antipartitici alla Grillo è, in realtà, un’ideologia in sé, costruita per negazione. Noi, non solo non abbiamo curato la costruzione di una nostra nuova visione del mondo all’altezza della sfida odierna, ci siamo sbarazzati di quella che avevamo ereditato.

Da qui bisogna ripartire, per questo ritengo necessario mettere al bando i comitati e le bizzarrie elettorali tanto in voga nell’ultimo decennio per avviare un lavoro di lungo periodo. L’ho già detto e scritto in passato, lo ribadisco, scusandomi per la riproposizione di un concetto già espresso: esistono al di fuori di noi tanti soggetti collettivi impegnati sul piano sociale o culturale, milioni di singoli individui costretti alla solitudine politica ma potenzialmente interessati a un progetto di classe. Sono tanti gli italiani che non trovano seducente né la permanente vocazione al compromesso privo di riferimenti sociali del PD, né le allucinazioni carismatiche di una sinistra senza aggettivi, edificata per cooptazione attorno alle narrazioni immaginifiche del suo leader.

Molti di questi sono transitati nelle nostre organizzazioni, o magari hanno guardato a noi con simpatia, ma si sono allontanati senza trovare al nostro interno, tanto meno nella prospettiva della “Rivoluzione civile”, un progetto credibile e organico capace di riattivarne la partecipazione.

Occorre andare oltre i nostri partiti, azzerare tutti gli organismi dirigenti, per dar corso a una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti nel nostro Paese: non si tratta solo di rimettere in moto, con l’entusiasmo e il senso di appartenenza, un ingranaggio inceppatosi, occorre con coraggio costruirne uno nuovo perché quello attuale è oramai inadeguato.

Non si può continuare a militare per mero senso di colpa o per un malinteso “senso del dovere”, nell’accezione più cattolica dell’espressione. Non può più bastare la militanza per inerzia, lo sforzo individuale, spesso ingrato e faticosissimo di dirigenti e militanti del PRC e del PdCI, occorre raccogliere la sfida di una fase ricca di incognite e insieme potenzialità come questa e, da comunisti, saper rilanciare, abbandonando “boria di partito” e posizioni consolidate. Serve, con umiltà e apertura, un approccio disinteressato verso tutti quei compagni attualmente non attratti dalle nostre organizzazioni.

 

Abbiamo perso? Vuol dire che non ci hanno capito!

Abbiamo perso? Vuol dire che non ci hanno capito!

È veramente triste fare i conti con il mesto epilogo di un progetto nato con l’ambizione di rifondare una teoria e una prassi comunista nel Paese, dopo lo scioglimento traumatico del PCI. Di sconfitta in sconfitta, l’organizzazione incaricatasi di rappresentare la palingenesi del marxismo militante si è progressivamente ridimensionata, fino a divenire inutile, residuale, insignificante. Altro che l’erede del più grande partito comunista dell’Occidente, al massimo ci siamo ridotti a scimmiottare una delle tante organizzazioni della vecchia sinistra extraparlamentare, con una non trascurabile differenza: allora c’era anche il PCI, oggi no.
Negli ultimi anni siamo stati impegnati, più che a costruire il nostro progetto politico e dargli credibilità, a ragionare in termini di posizionamento rispetto agli altri: PD sì, PD no; governo sì, governo no. Potremmo evocare la Sindrome di Stoccolma per spiegare l’attuale stato d’animo del PRC e del PdCI, perché la sconfitta e la profonda crisi del Partito democratico ha anzitutto spiazzato chi in questi anni ha incessantemente incentrato la propria azione politica sulla critica feroce o l’appiattimento verso questo partito. Se non esistesse più il PD un buon 70% degli argomenti al centro delle nostre discussioni, negli ultimi anni, verrebbe meno. Panico: chi siamo, dove andiamo, come fare?
Fondare o affondare il proprio progetto sulla politica delle alleanze (alleati sempre e comunque oppure mai) è indice di subalternità politica: in entrambi i casi il soggetto non sono io, bensì l’altro, in ragione del quale, in un senso o nell’altro, configuro tutte le mie scelte di tattica e strategia.
Come in più di un’occasione mi è capitato di dire, l’idea della rifondazione comunista è stata sconfitta non dalla borghesia, dai poteri forti, dall’ipoteca moderata nel Paese del Vaticano. Il PRC ha fatto tutto, o quasi, da solo: anzitutto perseguendo una linea a zig zag, eclettica, per non dire schizofrenica, dove abbiamo detto tutto e il suo contrario; quindi anteponendo sempre il momento elettorale a tutto il resto. Prima vengono i progetti politici e poi le urne. Noi abbiamo preteso di invertire questi due termini, andando avanti con campagne estemporanee, tirando ogni volta fuori dal cilindro conigli pronti a essere sacrificati nelle urne.
Siamo finiti nel girone dantesco dei Comitati elettorali, anziché impegnarci con continuità e coraggio su un progetto politico di lungo periodo in grado di seminare, sedimentare e poi, magari, ottenere risultati. La fretta per le esigenze della scheda elettorale, rispetto alle quali non ci siamo mai sentiti pronti e adeguati, tanto da dover ogni volta inventare un simbolo e contenitore nuovo, la fregola di eleggere, o meglio di essere eletti, ci ha puntualmente fregato. Ogni volta, a pochi mesi dal voto, abbiamo tentato la “mossa del cavallo” inventandoci il cartello elettorale di turno, per poi abbandonarlo subito dopo. È accaduto alle politiche del 2008, con la Sinistra Arcobaleno, alle elezioni Euoropee, con la Lista comunista e anticapitalista, in queste ultime elezioni dove, nel breve volgere di pochi mesi, abbiamo bruciato ben due soggetti inventati all’occorrenza, Cambiere si può e Rivoluzione Civile, dopo aver archiviato una proposta di cui nessuno ha più nemmeno memoria, il «Fronte democratico».
Al’interno di questa autentica “Via crucis” l’unico tentativo dotato di un minimo di prospettiva era la Federazione della Sinistra, su cui però non abbiamo mai investito seriamente, azzoppandola sin da subito con assurde competizioni interne, sgambetti reciproci, rivalità e insensati personalismi tra i nostri “piccoli leader”, l’esigenza di tutelare i rispettivi orticelli di sovranità anche a scapito del progetto comune. Eppure, proprio la sua nascita, all’indomani delle europee, qualche speranza e un minimo di entusiasmo l’aveva suscitata, perché finalmente si tentava di invertire la tendenza decompositiva delle scissioni a sinistra e perché, finalmente, almeno PRC e PdCI sembravano decisi a costruire una casa comune. Come tanti altri, ci ho creduto e ho dedicato parte non trascurabile del mio tempo e delle mie risorse a tale prospettiva, salvo poi scoprire, a pochi mesi dalle elezioni, che ci eravamo sbagliati e non era più temo di federarsi a sinistra. Da una parte e dall’altra, la politica delle alleanze è stata posta al di sopra di tutto, compresa l’esistenza stessa del soggetto politico. In entrambi i casi (sia per chi bramava gli accordi con il PD, sia per chi li rifiutava a priori), la malattia era la medesima: istituzionalismo e smania di protagonismo. In entrambi è stato un fallimento politico occultato dallo “stato di necessità” della fase.
Per quattro anni, da Roma, i nostri dirigenti ci hanno martellato (riunioni, assemblee, chilometri in auto, treno aereo, ore al telefono, soldi buttati, giornate sottratte a lavoro e vita privata) per fare avanzare il nuovo contenitore federale della sinistra di classe, spingendoci a girare i paesi, convincere i compagni, litigare con chi non ne condivideva la prospettiva. Poi, di punto in bianco, ovviamente a cose fatte, e senza alcun mandato congressuale, quel contenitore è stato svuotato e gettato nel cestino, senza neanche tentare di spiegarci come sono andate le cose o dirci, “scusate, ci eravamo sbagliati”.
Penso ci sia stata poca onestà verso i dirigenti e i militanti nei territori, perché mentre si dava loro l’indicazione di costruire la Federazione, i vertici dei due partiti maggiori facevano tutt’altro, evitando risolutamente di trasformare un cartello elettorale in soggetto politico. In realtà ho come l’impressione che nessuno di loro volesse realmente o credesse sinceramente in quel progetto. A meno di un anno dall’ultimo Congresso del PRC e a un anno e mezzo da quello della Federazione, si è deciso di comune accordo di sciogliere l’organizzazione, per diverse valutazioni sulle elezioni primarie e sulle politiche delle alleanze. Ovviamente il mandato congressuale diceva ben altro, ma nessuno si è curato di avviare una seria e serena discussione sulle ragioni di quel naufragio, con relativa assunzione di responsabilità, anzi, gli stessi che hanno condotto il battello negli abissi si sono incaricati di imbarcarci tutti in una nuova “Galera” all’insegna del motto “Cambiare si può!”. Hanno talmente preso sul serio questa esortazione da interpretarla in maniera tale da non sentirsi in dovere di giustificare le ragioni del “cambiamento posssibile”, o di accennare anche la più timida autocritica.
Forse sarebbe bene rileggerci le note dedicate da Antonio Gramsci al Generale Cadorna, una figura a suo modo rappresentativa della mentalità delle classi dirigenti italiane e un emblema della contraddizione tra governanti e governati: in politica come in caserma, per i gruppi dirigenti, una volta individuata la direttiva essa va applicata con obbedienza, senza discutere, senza sentire l’esigenza di spiegarne la necessità e la razionalità. Il «cadornismo» consiste nella persuasione che una determinata cosa sarà fatta perché il dirigente la ritiene giusta e razionale, e per questa ragione viene affermata come dato di fatto indiscutibile. La differenza però è che Cadorna, dopo Caporetto è stato rimosso e sostituito, chi dirige il nostro partito, nonostante una lunga sequenza di sconfitte umilianti, è sempre al suo posto.
Anche adesso, dopo l’ennesima catastrofe elettorale che ha travolto le ambizioni di una “rivoluzione civile” in questo Paese, lascia esterrefatti la totale mancanza di senso di responsabilità. Non solo non si analizzano le ragioni della sconfitta – anzi vengono messe in fila una lunga serie di alibi (l’oscuramento mediatico, la scarsa verve carismatica di Ingroia, il voto utile ecc. ecc.) degni delle invasioni di cavallette del miglior John Belushi – la segreteria nazionale del PRC si è presentata al suo Comitato politico nazionale con delle dimissioni farlocche, per poi tornare rapidamente in sella tanto da annunciare un Congresso. Ovviamente non subito, perché tanto di tempo ne abbiamo molto e magari nel mentre ci scappa pure qualche altra tornata elettorale. Macché, rinviamo tutto a dicembre, con la speranza di trovare sotto il prossimo albero di natale le masse popolari allineate e pronte per essere guidate dall’ennesimo “rilancio della rifondazione comunista”.
Questo gruppo dirigente ha avuto cinque anni per tentare sia questa strada, sia quella della più ampia aggregazione a sinistra, raccogliendo soltanto sconfitte. Avevo detto in tempi non sospetti che avrebbero dovuto fare serenamente i conti con i fallimenti di cui si sono resi protagonisti e dimettersi. Non lo hanno fatto, né allora né oggi, lo faccio io per loro, da semplice iscritto però, dato che agli incarichi dirigenti avevo rinunciato molto tempo addietro. Dopo 22 anni passati dentro il PRC ho deciso, non certo a cuor leggero, di non rinnovare la mia tessera, vi ero entrato alla sua nascita (che poi, vista l’età, politicamente era anche la mia) e mai avevo pensato, neanche nei momenti più duri di distanza, quando prevalevano gli elementi di dissenso a quelli di condivisione, di fare un simile passo. Lo faccio ora, con grande travaglio personale, per non rendermi ulteriormente complice di una conduzione tanto scellerata e, soprattutto, per non sprecare più il mio tempo. Bisogna finirla di pensare che abbiamo perso non perché abbiamo sbagliato, ma perché gli elettori non ci hanno capito. Forse, al contario, abbiamo perso sonoramente perché, invece, loro hanno capito benissimo mentre noi ancora no.