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Intervento all’assemblea “Che fare? Comunisti e sinistra”. Magazzini Popolari Casal Bertone, Roma 13 aprile 2013

Gianni Fresu

Intervento all’assemblea “Che fare? Comunisti e sinistra”.

Magazzini Popolari Casal Bertone, Roma 13 aprile 2013


Care compagne e cari compagni, di fronte al fallimento non solo delle prospettive, ma persino dei presupposti politici della cosiddetta sinistra d’alternativa in Italia fin qui praticati, si è aperta una discussione estremamente utile e stimolante, perché finalmente ha liberato molti di noi dai vincoli castranti delle rispettive aree e tendenze di appartenenza, rimaste parimenti travolte dal fallimento dei relativi partiti. C’è a sinistra uno spazio enorme da colmare, il modo migliore per comprendere la situazione reale e predisporci a elaborare una proposta all’altezza della sfida è non cercare rifugi nelle liturgie rassicuranti, ma perdenti, delle nostre rispettive comunità politiche di provenienza. Da questo punto di vista, iniziative come quella di oggi hanno un indubbio merito: riavviare una discussione non frazionata dagli steccati difensivi dei propri orticelli.

Quale esito possa avere una simile discussione è difficile dirlo, l’importante è dargli l’avvio (per usare un’espressione molto cara a Togliatti nei tremendi anni trenta) «senza aver paura di fare politica». Una cosa è certa, almeno così la penso io, bisogna accuratamente rifuggire da una tentazione: preconfezionare un progetto politico bell’è pronto da offrire in dote agli altri, aspettandoci eventuali adesioni entusiastiche o passive. Per essere ancora più chiari, non bisogna farci risucchiare dalle velleità caratteristiche delle fasi di crisi,  che in ultima analisi si tradurrebbero nella creazione dell’ennesimo partitino che si andrebbe a sommare a quelli esistenti. Occorre fare il procedimento inverso, discutere tra noi con l’ambizione di superare le attuali divisioni, mi rendo conto che è un’impresa ciclopica, ma se non ci proviamo ora nella condizione di riflusso e nello stato catatonico in cui ci troviamo, quando lo dovremmo fare?

Questa discussione non parte da zero, ognuno di noi ha fatto le proprie battaglie ed è portatore della sua personale elaborazione dei fatti. Vale anche per me e, dato che in questo momento non siamo impegnati in una gara di creatività intellettuale, mi scuso preliminarmente se in diversi passaggi dovrò fare nuovamente affidamento a ragionamenti e concetti da me già espressi altrove.

 

 

1)     Crisi organica.

 

Dopo decenni di giusta e previdente predicazione contro i paradigmi liberisti sostenuti da governi, accademie, giornali e benpensanti variamente collocati, abbiamo di fronte il collassamento di tutti i principali punti di riferimento dell’ideologia del “libero mercato” e la totale assenza di credibilità popolare da parte dei sacerdoti da sempre impegnati nel culto del “lasseiz-faire”. Ci troviamo in una fase di «crisi organica» del capitalismo mondiale, ossia, non una congiuntura, bensì una crisi strutturale che coinvolge in pieno i rapporti di produzione, quelli sociali, i circuiti finanziari di remunerazione dei capitali, lo stesso rapporto di rappresentanza dei sistemi parlamentari.

 

Gramsci diceva che quando si verifica una condizione di «crisi organica», i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali non riconoscendo più nei propri gruppi dirigenti l’espressione politica dei propri interessi di classe. In situazioni di tale tipo si moltiplicano le possibili soluzioni di forza, i rischi di sovversivismo reazionario, le operazioni oscure sotto la guida di capi carismatici. Il determinarsi di questa frattura tra rappresentati e rappresentanti porta per riflesso al rafforzamento di tutte quegli organismi relativamente indipendenti dalle oscillazioni dell’opinione pubblica come la burocrazia militare e civile, l’alta finanza, la chiesa. In una fase di crisi organica sono le classi subalterne a correre i maggiori rischi, poiché le classi dirigenti tradizionali dispongono di quadri e personale dirigente più addestrato, esse sono capaci di modificare uomini e programmi riacquistando il pieno controllo di una realtà che gli andava sfuggendo, mantenendo il potere e utilizzandolo per rafforzare la propria posizione.

Oggi ci troviamo in una situazione per molti versi simile, sicuramente diversa, non comprimibile nelle braghe dell’analogia storica, tuttavia, proprio dai drammi passati deve scaturire in noi la consapevolezza che nulla va sottovalutato. Le crisi organiche sono dominate dalle «rivoluzioni passive», vale a dire, fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le”riforme” vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Il fascismo è uno degli esempi più emblematici di ciò, ma non il solo. Siamo di fronte ad un gigantesco tentativo di ristrutturazione internazionale dei rapporti sociali e di produzione da parte delle classi dominanti, la cui portata potrà essere valutata appieno solo tra venti o trenta anni, per ora possiamo limitarci a sottolineare che in Italia tutto questo avviene proprio nella fase di maggior crisi storica del movimento comunista e più in generale di tutte le prospettive alternative al modo di produzione capitalistico.

 

2)     Crisi del nostro campo politico.

 

Di sconfitta in sconfitta, il nostro campo si è progressivamente ridimensionato, fino a divenire inutile, residuale, insignificante. L’ho già detto e non posso che ripeterlo, negli ultimi anni siamo stati impegnati, più che a costruire un nostro progetto politico e dargli credibilità, a ragionare in termini di posizionamento rispetto agli altri: PD sì, PD no; governo sì, governo no.

Sta accadendo anche ora, nonostante il tracollo. Anche in questi giorni sono stato raggiunto per telefono, mail, o altro da compagni e dirigenti preoccupati per il problema delle alleanze, tanto da intendere lo scioglimento preventivo di questo nodo la premessa a qualsiasi discussione. Da una parte mi è stato detto: “ma non puoi metterti a discutere con quei matti che mai farebbero un’alleanza con il centrosinistra”. Dall’altra: “va bene discutere, ma sia chiaro prima di tutto, mai ci alleeremo con chicchessia!”

Mi permetto di dissentire da questo modo di avviare la discussione. Fondare o affondare (come è capitato alla FdS) il proprio progetto sulla politica delle alleanze (alleati sempre e comunque oppure mai) è indice di subalternità politica: in entrambi i casi il soggetto non sono io, bensì l’altro, in ragione del quale, in un senso o nell’altro, configuro tutte le mie scelte di tattica e strategia. Nonostante la nostra irrilevanza, conclamata,vedo ancora troppi compagni ripiegati su una valutazione meramente difensiva, più impegnata a fare le pulci alle organizzazioni collocate alla nostra destra che a realizzare un proprio bilancio. Smettiamola di parlare del PD, pensiamo a cosa vogliamo fare noi, anteporre la politica delle alleanze (PD sì, PD no) è un modo per mascherare la mancanza di una nostra soggettività politica. Per il PCI del dopoguerra la scelta di collaborare o rompere con le altre forze non era la premessa, ma una semplice eventualità tattica da prendere inconsiderazione a seconda delle situazioni e soprattutto dell’oggetto della collaborazione, o della rottura, in sé.

Chi trasforma questo rovello storico, in positivo o in negativo, ne rimane irrimediabilmente prigioniero. A mio avviso, esso non è la causa della nostra debolezza, bensì, l’effetto. Le cause del problema vanno ricercate altrove: la nostra subalternità culturale non solo verso l’attuale quadro politico, ma anche, e soprattutto, nei confronti di una più complessiva visione del mondo, di una Weltanschauung, che ci limitiamo a subire e ovviamente non siamo in grado di aggredire. Senza una nostra visione del mondo, che contempli un ordine diverso dall’attuale, la funzione dei comunisti perde di significato e senso storico, siamo destinati a essere fagocitati dai limiti storici delle politiche socialdemocratiche, anche se queste sono profondamente in crisi.

Per essere ancora più chiari, a mio avviso, il nostro problema non è l’essere o non essere stati l’ala sinistra di un progetto conservatore, la teoria del “socialfascismo” non mi ha mai suscitato alcuna simpatia.Il difetto semmai è all’origine: è mancata la parte rifondativa della nostra sfida. Abbiamo saputo riprodurre tutti i peggiori difetti dell’ultimo PCI, senza però averne il peso, non siamo stati capaci di costruire una nostra visione coerente e organica del mondo. Abbiamo lasciato il marxismo illanguidire in soffitta per andare ecletticamente al traino delle ultime novità “radicali”(Revelli, Toni Negri, pensiero No-global, disobbedienza,nonviolenza, ecc. ecc) in un continuo pellegrinaggio ideologico fatto di svolte e contro-svolte talmente volubili, e sovente contraddittorie, da averci lasciato, in ultima analisi, disarmati, proprio in una fase che doveva essere nostra: quella della crisi organica del capitalismo, segnata dal discredito e dalla disapprovazione popolare per le politiche liberiste.

Diciamolo serenamente, abbiamo fallito nella premessa del nostro progetto: non abbiamo rifondato né una teoria, né una prassi comunista.Ripartire, con onestà, significa fare i conti con questo problema, come affermava Marx, gli uomini prendono coscienza del proprio essere sociale,dunque fanno scelte di campo, sul terreno delle ideologie. Attualmente quale è la nostra?

Non caschiamo nella “falsa coscienza” della filosofia imperante, secondo cui le ideologie sono superate, è una menzogna, il liberalismo ha ancora oggi una sua ideologia, e le politiche che stiamo subendo in questi anni ne sono una tragica conferma, la stessa anti-ideologia dei movimenti antipartitici alla Grillo è, in realtà, un’ideologia in sé, costruita per negazione. Noi, non solo non abbiamo curato la costruzione di una nostra nuova visione del mondo all’altezza della sfida odierna, ci siamo sbarazzati di quella che avevamo ereditato. Da qui bisogna ripartire, per questo ritengo necessario mettere al bando i comitati e le bizzarrie elettorali tanto in voga nell’ultimo decennio per avviare un lavoro di lungo periodo.

Mi è capitato di chiarire altrove la mia opinione sulle ragioni del nostro fallimento: anzitutto la tendenza a impegnarci in campagne estemporanee, escogitate nei frangenti elettorali, e l’inconsapevole tendenza ad anteporre queste operazioni a una costruzione paziente del nostro progetto politico, capace di seminare, sedimentare e al limite, ottenere risultati.

Quanto accaduto alla Federazione della Sinistra, unico tentativo nato con la felice intuizione di invertire il processo disgregativo e decompositivo tra di noi è di per sé negativo. Chiarito che i gruppi dirigenti dei partiti costitutivi non ci hanno mai creduto, e si sono guardati bene dal mettere in discussione i propri santuari di autonoma sovranità, per quanto miseri, cosa necessaria se si intendeva trasformare un cartello elettorale in progetto politico. La FdS, dopo quattro anni di propaganda unitaria, in gran parte contraddetta dai comportamenti concreti, è morta per comune accordo a pochi mesi dalle elezioni, e nemmeno sul tema delle alleanze per il governo, ma addirittura sulle primarie. Un fallimento totale, per poi ritrovare dopo pochi mesi quelle stesse forze unite nella stessa lista, però senza nemmeno il simbolo con cui si erano presentate dal 2009 in poi agli italiani, un capolavoro politico. È  sconcertante, nessuno, tra i gruppi dirigenti, ha avuto l’umiltà di aprire una riflessione sulle ragioni di questo fallimento mettendo in discussione la propria direzione politica e con essa il proprio ruolo. Non solo, nemmeno la scoppola subita alle recenti elezioni politiche è servita per un’assunzione di responsabilità in tal senso. Se il PRC ha partorito un assurdo CPN dal quale è scaturito lo “straordinario Congresso”, non un Congresso straordinario (in fin dei conti non è accaduto nulla per pensare a una condizione di straordinarietà) il cui motto principale  sarebbe “rilanciare la Rifondazione”, nella stessa giornata, a pochi isolati di distanza i comunisti italiani lanciavano la parola d’ordine“ricostruire il PdCI”. Sarò forse io un po’ lento a capire la politica, ma ancora non mi è chiaro come sia possibile unire tirando nuovamente su tramezzi e muri divisori tra di noi, anziché deciderci finalmente a buttare giù i ruderi di quelli costruiti un tempo.

 

3)      Che fare?


Nella loro storia i comunisti hanno saputo incidere sulla realtà, e uscire dal ghetto in cui le forze sociali conservatrici li avrebbero voluti relegare, quando hanno avuto il coraggio di guardarsi allo specchio e riconoscere i propri limiti, attraverso una severa, non rituale, autocritica.E’ stato così con il Congresso di Lione, che mise al bando settarismi e astrattismi ideologici con l’ambizione di costruire un partito in grado di analizzare la propria realtà nazionale e aderirvi plasticamente. E accaduto ancora nel fatidico biennio 1934-35, quando il movimento comunista ebbe il coraggio di sottoporre a severa critica la fallimentare tattica del periodo 1928-33, che recava con sé gravi responsabilità sull’avvento del nazismo in Germania e sulla condizione di isolamento vissuto dai comunisti nei diversi Paesi europei. Senza il radicale cambio di rotta del 1935, al VII Congresso dell’Internazionale, difficilmente i comunisti avrebbero potuto assumere il ruolo poi svolto nella guerra al nazifascismo.

Oggi, in chi ci ha guidato nel “Horror tour” dell’irrilevanza politica, trovo carente proprio quella capacità di guardarsi dentro e comprendere una realtà circostante sempre più distante da noi, dalla quale siamo irrimediabilmente respinti. Esistono al di fuori di noi tanti soggetti collettivi impegnati sul piano sociale o culturale, milioni di singoli individui costretti alla solitudine politica ma potenzialmente interessati a un progetto di classe. Molti di questi sono transitati nelle nostre organizzazioni, o magari hanno guardato a noi con simpatia, ma si sono allontanati senza trovare al nostro interno un progetto credibile e organico capace di riattivarne la partecipazione. Occorre andare oltre i nostri partiti, azzerare tutti gli organismi dirigenti, per dar corso a una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti nel nostro Paese: non si tratta solo di rimettere in moto, con l’entusiasmo e il senso di appartenenza,un ingranaggio inceppatosi, occorre con coraggio costruirne uno nuovo perché quello attuale è oramai inadeguato.

Non c’è, oggi, solo la crisi del capitalismo a livello internazionale, in Italia abbiamo oggi una decomposizione del sistema politico tale da aver travolto le mirabili previsioni della cosiddetta democrazia dell’alternanza, il bipolarismo, che nelle intenzioni dei suoi ingegneri e apologeti, tanto nel centro destra, quanto nel centro sinistra, avrebbe dovuto garantire un “salutare” ancoraggio politico del Paese al centro. Per due decenni hanno abbindolato gli italiani, dicendo che il superamento della “Prima Repubblica”, l’odiato sistema consociativo del proporzionale, avrebbe dato al Paese con la governabilità la stabilità economica, dunque la prosperità sociale. Oggi tutti questi discorsi appaiono sbiaditi e lontani ricordi. Però,a fronte di una mistificazione che si svela, ci troviamo in uno scenario politico nel quale sono sopravissute solo tre opzioni politiche PD, PDL, M5S. Nessuno di questi tre raggruppamenti pone al centro dell’agenda politica la questione che maggiormente segna questa fase di crisi economica, il lavoro.

La crisi organica del capitalismo mondiale, il susseguirsi di una serie infinita di guerre imperialistiche legate alla lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche, l’intensificarsi nel nostro Paese dell’offensiva padronale contro il mondo del lavoro, hanno fornito più di una conferma oggettiva all’ esigenza di un Partito non solo genericamente di sinistra, bensì di un’organizzazione che fondasse la sua ragion d’essere su una inequivocabile scelta di campo all’interno del conflitto capitale lavoro.  Alle conferme oggettive si sono sommate quelle soggettive, nel senso che a dispetto di chi per trent’anni ha preconizzato la fine del conflitto sociale e l’inutilità di un’organizzazione autonoma delle classi subalterne, in questi due anni è salita quasi spontaneamente, dal mondo del lavoro e dalle realtà del disagio sociale,la richiesta di una salda rappresentanza sociale e politica, seria e credibile,capace di andare oltre la classica oscillazione schizofrenica tra settarismo e opportunismo. Su questo dobbiamo iniziare a lavorare, con umiltà, senza velleità o ingenui volontarismi. Una cosa è certa, il quadro politico da cui veniamo è oramai superato, le nostre rispettive forze politiche, sia chiaro, non il comunismo in quanto tale, hanno fallito nella loro missione, hanno esaurito la loro funzione storica, bisogna andare oltre per riaggregare, a partire dai comunisti, una sinistra di classe più ampia capace di invertire la tendenza oramai inesorabile alla sconfitta.

Rispetto a tutto questo non sono possibili scorciatoie di alcun tipo, nemmeno quelle che ripropongono con 23 anni di ritardo i paradigmi di una “nuova Bolognina”. Possibile che, proprio nel pieno di una così catastrofica crisi organica del capitalismo, siano i comunisti a dover arrotolare le loro bandiere e non le forze liberali e socialdemocratiche, responsabili di questo disastro economico-sociale?

Quel che trovo veramente anacronistico e, se fossi credente, direi fuori dalla “grazia di dio”, è un dibattito a sinistra ancora ostaggio di conflitti e personalismi stratificatisi nel tempo, che hanno origine in divisioni di dieci, venti, trenta anni fa. Nel mentre è cambiato tutto attorno, eppure, noi siamo ancora appesi alle fratture di allora, al punto da affiliare nelle rispettive cordate giovani sovente inconsapevoli, che per ragioni anagrafiche non hanno potuto vivere certi avvenimenti. Il merito della discussione che avviamo oggi è di voler tracciare una linea di demarcazione per iniziare un confronto costruttivo, con l’ambizione di superare questo stato di cose, facendo a meno dei pregiudizi reciproci. Si può fare di più è meglio? Sicuramente, però credo che questa sia la strada giusta per partire, e la ritengo molto più appropriata della solita, autoreferenziale, dialettica dell’ombelico che contraddistingue le discussioni interne ai due partiti, per non parlare delle singole aree di appartenenza. Siamo tutti sotto un cumulo di macerie, o iniziamo a rimuoverle insieme o un giorno sapranno di noi (“il misterioso popolo dei comunisti”) solo dopo qualche scavo archeologico.

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.