di Gianni Fresu
A Gramsci il fascismo appariva per sua natura in profonda  contraddizione con i coevi tentativi di razionalizzazione fordista  […]. «Lo Stato fascista – scriveva nei Quaderni – crea nuovi  redditieri, cioè promuove le vecchie forme di accumulazione parassitaria  del risparmio e tende a creare dei quadri chiusi sociali. In realtà  finora l’indirizzo corporativo ha funzionato per sostenere posizioni  pericolanti di classi medie, non per eliminare queste e sta sempre più  diventando, per gli interessi costituiti che sorgono dalla vecchia base,  una macchina di conservazione dell’esistente così come è e non una  molla di propulsione. Perché? Perché l’indirizzo corporativo è anche in  dipendenza della disoccupazione: difende agli occupati un certo minimo  di vita che, se fosse libera la concorrenza, crollerebbe anch’esso,  provocando gravi rivolgimenti sociali; e crea occupazioni di nuovo tipo,  organizzativo e non produttivo, ai disoccupati delle classi medie».   Attraverso la trasformazione dello Stato e la creazione del  corporativismo, il fascismo produceva trasformazioni nella struttura  produttiva tendenti alla socializzazione e alla cooperazione nella  produzione, senza intaccare però le modalità individuali e private di  appropriazione dei profitti. In concreto questo significava che  attraverso il fascismo si cercava uno sviluppo delle forze produttive  industriali senza sottrarne la direzione alle classi tradizionali, per  consentire al capitalismo italiano di uscire dalla sua crisi organica e  competere con le potenze  capitalistiche detentrici del monopolio delle materie prime e con  capacità di accumulazione maggiore. Lo schema di questa rivoluzione  passiva per Gramsci aveva ben poche possibilità di riuscita pratica,  tuttavia dal punto di vista della mobilitazione e della capacità  egemonica del regime, ciò era di importanza relativa: «Ciò che importa  ideologicamente è che esso può avere realmente la virtù di prestarsi a  creare un periodo di attesa e di speranze, specialmente in certi gruppi  sociali italiani, come la massa dei piccolo-borghesi urbani e rurali, e  quindi a mantenere il sistema egemonico e le forze di coercizione  militare e civile a disposizione delle classi dirigenti tradizionali»  (dai «Quaderni dal carcere»).  In coclusione, le riflessioni sul  fascismo di Gramsci sfuggono a troppo rigide classificazioni  storiografiche. Il materialismo storico è il dato di partenza, tuttavia,  anche i termini soggettivi, compresa la crisi morale della borghesia –  hanno un ruolo determinante e centrale. Anche Gramsci interpreta il  fascismo come reazione a una fase di profondi rivolgimenti sociali  legati alla prima guerra mondiale e soprattutto alla rivoluzione  d’ottobre, tuttavia, non giunge mai a considerare la borghesia e il suo  modo di produzione come un unico blocco omogeneo. Egli legge all’interno  del blocco sociale dominante differenziazioni e contraddizioni  palesatisi proprio in rapporto alla nascita e all’avvento del fascismo.  Gramsci, come gran parte dei suoi coevi compagni di lotte, ha analizzato  il tentativo di centralizzazione degli interessi borghesi dietro al  fascismo, ma lo riteneva un fenomeno sociale sorto tra la piccola e  media borghesia urbana, sviluppatosi grazie agli apporti degli agrari e  quelli, non sempre lineari e armonici, del grande capitale industriale.   Infine, l’intellettuale sardo ha interpretato storicisticamente il  fascismo in rapporto alla debolezza delle classi dirigenti e ai limiti  nel processo di unificazione politica e modernizzazione economica  dell’Italia, ma non lo ha mai inteso un esito inevitabile di quel  processo. In tutto questo, un ruolo peculiare  è attribuito al ruolo di  alcune categorie ampiamente operative in quel dato frangente storico: il  cesarismo, il bonapartismo, la fede verso le virtù taumaturgiche del  «capo carismatico», cui Grasmci dedica numerose riflessioni e che  meriterebbero una trattazione separata per la vastità dei contenuti  trattati e delle implicazioni analitiche.  Tutto questo insieme di  valutazioni porta a un’ultima conclusione: il fascismo non può certo  essere ritenuto una parentesi irrazionale in una storia per il resto  segnata dall’inarrestabile progressione liberale e democratica,  un’improvvisa malattia morale, capace di obnubilare le menti degli  italiani, che ha aggredito un corpo sano per poi sparire senza lasciare  traccia. A centocinquanta anni dall’Unità d’Italia, le riflessioni di  Gramsci suggeriscono di evitare accuratamente ogni lettura agiografica  di quella storia. Senza trasformarla in un’opera di teratologia  intellettuale, è opportuno interrogarsi problematicamente sulla totalità  e organicità dei processi storici, sui limiti congeniti dell’intera  vita politica italiana. Proprio questa problematicità ha spinto Gramsci a  evitare qualsiasi lettura storiografica e politica manichea. Il  fascismo costituisce la negazione più completa per valori e prospettive  del campo marxista, ciò nonostante l’intellettuale sardo lo ha  analizzato come fenomeno razionale e reale, scaturito da precise cause  storicamente determinate.



