BEGIN TYPING YOUR SEARCH ABOVE AND PRESS RETURN TO SEARCH. PRESS ESC TO CANCEL

Recensione a “La prima bardana” realizzata da Walter Falgio

«La prima bardana»: storia di identità e conflitto

gennaio 2013 · collana Recensioni

di Walter Falgio

L’identità
Plurale, multiforme, complessa sono solo alcuni degli aggettivi che con buone ragioni possono essere associati al concetto di identità. Tanto più all’identità dei sardi, popolo portatore di una storia e quindi di una cultura millenaria[1]. L’identità sarda non è un monolite che ciascuno incide a suo modo o che ciascuno pretende di caratterizzare definitivamente e in maniera assoluta. Piuttosto si potrebbe ammettere che l’identità di un popolo sia la somma di tutte quelle “incisioni” che dalla letteratura all’arte alla politica, lasciano un segno significativo, sullo stesso piano, senza alcuna gerarchia e in continuo rapporto dialettico.

L’identità è una convenzione culturale che forse non è possibile definire con una modalità univoca e che si forma nella socialità, nel rapporto tra gli uomini. Il racconto di caccia di Emilio Lussu dove lui, nel 1938 a Parigi, riscopre quella «comunità patriarcale senza classi e senza Stato»[2]. Il sistema di regole della “vendetta barbaricina” ove, secondo la descrizione di Antonio Pigliaru, «l’offesa più che poter essere, deve essere vendicata»[3]. La struttura economica, il mondo agrario con le sue estensioni, gli oliveti, gli orti, il paesaggio pastorale con greggi e transumanze. Per esempio, sono anch’essi tutti elementi fondanti e costantemente richiamati nella costruzione dei profili dell’identità sarda.

Fernand Braudel in “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II”[4] racconta che da Cagliari nel Cinquecento il formaggio sardo si esportava nel Continente. Evidentemente la Sardegna dell’epoca con la sua “economia arcaica”[5], con la “vita pastorale invadente”[6] riusciva a stabilire un collegamento con altri orizzonti commerciali pur vivendo “essenzialmente di sé”[7], pur essendo “un continente, un mondo a sé con la sua lingua, le sue usanze”[8]. Anche questa è identità, plurale, che disattende gli schematismi, che non è né chiusa né aperta ma costruita per accumulazione di fattori.

Il conflitto
L’identità di un popolo, dunque, nasce e si sviluppa all’interno di un contesto sociale caratterizzante le interazioni umane e, naturalmente, all’interno dei conflitti. Il libro di Gianni Fesu La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento[9] prima di tutto porta un contributo per una definizione di ulteriori confini dell’identità sarda. Analizza la comunità, le relazioni e appunto i conflitti con un approccio preciso, dichiarato, utilizzando le categorie dei subalterni gramsciani, ricostruendo, inevitabilmente, una storia di uomini e di donne all’interno di processi economici dialettici. Fresu si occupa di uomini uguali, come suggeriva Carlo Ginzburg, di uomini come il mugnaio Menocchio de Il formaggio e i vermi[10], che contro l’Inquisizione romana coltivava attese di giustizia proponendo un modello del mondo diverso e alternativo. La richiesta di giustizia contro la spoliazione, contro l’asservimento, contro la violenza contro il sopruso è uno dei tratti (non certo l’unico e non certo in chiave dogmatica) comuni a diversi profili della storia sarda. Ne La prima bardana questa chiave di lettura è ben argomentata a partire dall’analisi del ribellismo e in un’ottica di lungo periodo. Un ribellismo che a volte assume dei connotati tragici che possono essere ricondotti a un modello di opposizione eterna tra la regola del diritto e una realtà sociale che non ne riconosce fondamento etico[11].

Ma Fresu ammonisce: attenzione a leggere questo conflitto esaltando esclusivamente e misticamente la “costante resistenziale” sarda, concetto che nel tempo si è prestato a innumerevoli strumentalizzazioni. Giovanni Lilliu scriveva:
«Chi guardi con serenità i fatti culturali della Sardegna e le sue possibilità attuali fuori da schemi utopistici e da preconcetti illuministici, potrà convincersi, dopo una certa riflessione, che resistendo nello spazio dei “moderni” pastori delle zone interne, l’antica struttura pastorale nuragica ha assolto una sua funzione storica e non ha mancato di offrire qualche prodotto positivo. Essa ha assicurato con la transumanza, nella divisione politica, l’unità e l’integrità etnica, culturale e storica dei Sardi, legando pastori a contadini e, da ultimo, a operai industriali […]. Ma bisogna anche ammettere che vista oggi, in un contesto di civiltà europea, tale struttura è diventata non dicesi da terzo mondo, ma è semplicemente fuori del mondo contemporaneo; è un meraviglioso oggetto etnografico. Nelle miriadi di Sardegne costituitesi in età nuragica è la spiegazione di fondo della caduta della civiltà antica “regionale”, della mancata “nazione sarda”»[12].

Un passaggio che forse fa il paio con le conclusioni di Giulio Angioni daRapporti di produzione e cultura subalterna, già richiamate da Fresu:

«Questa tradizione locale è a volte esplicitamente immaginata come una situazione che fa (e che soprattutto faceva) sì che siano (quando conservati genuini) laboriosi e pii e rispettosi e fieri e soprattutto naturali i contadini e i pastori, e i loro pari e fratelli generosi i padroni e i proprietari terrieri sardi, si badi bene: i cattivi erano e sono sempre gente di fuori!»[13].

In più e oltre l’esaltazione di un passato sensazionale, altre patologie sono tipicamente diffuse nelle manifestazioni culturali, o pseudo tali, dell’intellighenzia provinciale. Esse ben si associano alle riletture apologetiche del “grande passato” e sono rappresentate dal “Cosmopolitismo di maniera” e dal “regionalismo chiuso”. Qui, evidentemente, si introducono temi decisamente gramsciani puntualmente sottolineati da Fresu:

«Gramsci vi vede due deviazioni attive e operanti nella stessa lotta di classe sarda, sia in termini d’un avanguardismo esasperato che separa i potenziali gruppi dirigenti, e in primo luogo gli intellettuali, dal movimento di massa, sia sotto la forma del separatismo e dell’indipendentismo su base regionale, una versione appena più sofisticata di quell’istintiva ideologia dell’”a mare i continentali!” che lo stesso giovane Gramsci aveva conosciuto e praticato. In entrambi i casi il risultato politico consiste nella separazione dei contadini e dei pastori sardi dai loro “fratelli continentali”, nella frammentazione di un potenziale fronte di lotta anticapitalistico, in un vantaggio per l’avversario di classe»[14].

Un’analisi antidogmatica
La Questione sarda, e le letture del ribellismo, tuttavia, hanno una maturazione del tutto particolare all’interno della Questione meridionale e Fresu le analizza superando gli schematismi consolidati appena citati, vagliando criticamente gli studi filo sabaudi, quelli irrimediabilmente chiusi nella vulgata sardista identitaria, o perfino, le elaborazioni figlie delle visioni esotico folkloristiche o della retriva scuola positivistica dell’antropologia criminale.

Fresu, attraverso le griglie interpretative del conflitto di classe[15], propone uno studio attento e per certi versi inatteso e non scontato del banditismo sardo. Uno studio che non indugia in dogmatismi di maniera ma piuttosto supera facilmente le stesse inclinazioni verso impostazioni del materialismo storico sterili e meccaniche[16]. Secondo Fresu gran parte delle contraddizioni sociali a cavallo tra moderno e contemporaneo ruotano attorno al mutamento di regime sociale di produzione rappresentato dalla privatizzazione fondiaria. A monte di questi processi ci sarebbe altresì la tradizionale dialettica tra agricoltura stanziale e pastorizia errante. Umberto Cardia annotava in proposito:

«Il brigantaggio sardo, forma peculiare di banditismo rurale, i cui rudimenti disgregati permangono nelle ultime vicende del nostro secolo, sgorga continuamente, oltre che da radici e motivi di carattere più generale e politico, da quella contraddizione come prodotto organico non della povertà endemica ma del sistema di appropriazione e di gestione della terra e del pascolo»[17].

Un brigantaggio che nelle sue origini storiche non può essere dissociato da aspirazioni di emancipazione e matrici di carattere politico volte a contrapporre una forma “sia pure degradata di libertà” a modelli importati dal continente. Uno spirito di rivolta contro l’oppressione feudale prima e capitalistica poi che nei secoli trascorsi ha registrato il consenso tacito o espresso di intere comunità montane della Sardegna[18].

Note
[1] Quale sintesi dell’amplissimo dibattito in proposito, si veda L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), La Sardegna (Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi), Einaudi, Torino 1998, pp. XIX-XXIII: «L’identità della Sardegna contemporanea è costituita da una pluralità di fattori, che, come i cristalli di un caleidoscopio, si sono scomposti e ricomposti, offrendoci nel corso del tempo immagini di volta in volta diverse e talvolta contraddittorie».
[2] E. Lussu, Tutte le opere. Da Armungia al Sardismo 1890-1926, a cura di Gian Giacomo Ortu, Aìsara, Cagliari 2008, p. 539. La prima edizione italiana deIl cinghiale del diavolo: caccia e magia è del 1968 per Lerici, Roma.
[3] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina, Il maestrale, Nuoro 2000, p. 139. La prima edizione dello studio è del 1959 per Giuffré, Milano.
[4] F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 2002, v. I, pp. 146-148. La prima edizione italiana del grande lavoro di Braudel è del 1953 sempre per Einaudi.
[5] Ibid.,
[6] Ibid.,
[7] Ibid.,
[8] Ibid.,
[9] Cuec, Cagliari 2011.
[10] Einaudi, Torino 1976.
[11] Come il drammatico scontro sofocleo tra Antigone e Creonte.
[12] G. Lilliu, “Al tempo dei nuraghi”, in La società in Sardegna nei secoli, ERI-Edizioni RAI Radiotelevisione italiana, Torino 1967, p. 11. Passaggio citato anche in Prefazione a G. Lilliu, La costante resistenziale sarda, a cura di Antonello Mattone, Ilisso, Nuoro 2002, p. 79.
[13] G. Angioni, Rapporti di produzione e cultura subalterna: contadini in Sardegna, Edes, Cagliari 1982, pp., 15, 17.
[14] G. Fresu, La prima bardana, cit., n. 7, p. 27, ove è richiamato G. Melis,Antonio Gramsci e la questione sarda, Edizioni della Torre, Cagliari 1977, p. 14.
[15] Engels nella nota recensione a Per la critica dell’economia politica di Marx, scriveva: «L’economia non tratta di cose, ma di rapporti tra persone e, in ultima istanza, tra classi; questi rapporti sono però sempre legati a delle cose e appaiono come cose». In K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 201.
[16] Piuttosto che inverare immagini di uniformità e sacralità del conflitto, Fresu ribadisce una predisposizione antidogmatica che ne tratteggia le contraddizioni. In proposito l’autore richiama alla fine del testo una citazione di Engels tratta da una lettera scritta a Bloch il 20 settembre 1890: «Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza determinante nella storia è la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda». In F. Engels, Sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 1949, p. 75.
[17] U. Cardia, Autonomia sarda. Un’idea che attraversa i secoli, Cuec, Cagliari 1999, pp. 37, 38.
[18] G. Fresu, La prima bardana, cit., pp. 42-43

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.