La caricatura di Salvini, un grande e pericoloso errore.

La caricatura di Salvini, un grande e pericoloso errore.

Gianni Fresu

La ciclicità con cui a sinistra ricadiamo negli stessi errori, come una storia che ci riporta sempre e inevitabilmente al suo punto di partenza, è forse una delle ragioni della nostra attuale marginalità politica e sociale. Mi riferisco alla sufficienza con cui si guarda a un fenomeno nuovo e di dimensioni per nulla irrilevanti nel mondo della destra. Salvini sembrerà pure ebete ma non è per niente scemo. Facciamo attenzione a non limitarci alle caricature dei nostri avversari, pensando che tutti lo percepiscano come lo vediamo noi. Non dimentichiamo che, a suo tempo, quando un altro ammaestratore di folle emerse dai disastri della guerra in tanti nel nostro campo lo derisero, ma soprattutto lo sottovalutarono, ritenendo il suo movimento un fenomeno folcloristico di sbandati senza ideologia né futuro: nel marzo 1921 (appena sette mesi prima della Marcia su Roma) il II Congresso del Partito comunista, non solo lo trascurò al punto da prevedere ogni cosa tranne la sua possibile affermazione, ma quasi non ne fece menzione nelle sue Tesi; i socialisti ritenevano di aver chiuso la partita con Mussolini nel 1915; i liberali si illusero di poterlo assorbire negli equilibri passivi tradizionali del vecchio trasformismo, come in passato avevano fatto con mazziniani, cattolici e socialisti riformisti.

Come il suo più illustre predecessore, anche Salvini (nel suo piccolo) sembra aver scoperto la pietra filosofale del più tradizionale sovversivismo reazionario: sobillare/eccitare l’inquietudine dei ceti medi declassati dalla crisi, per ottenerne il consenso; occhieggiare alla grande borghesia spaventata, per difenderne organicamente gli interessi. Essere riuscito a nazionalizzare la Lega, saldando il tradizionale approccio xenofobo del suo movimento all’odio nazionalista fascistoide, oggi polverizzato in una galassia di sigle insignificanti, ma presente (soprattutto culturalmente) nel Paese, è un colpo da maestro, gli va riconosciuto. Soprattutto perché il tutto avviene in un quadro di profonda crisi tanto della destra sociale, quanto di quella liberista. Con una fava, egli si propone per rappresentare entrambe, non è detto che ci riesca, ma ha già portato la Lega fuori dal recinto del Nord (senza più ricorrere all’intermediazione di Berlusconi), candidandola a guidare un nuovo ipotetico blocco sociale conservatore, non è poco. Invece di valutare in termini politici tutto ciò preferiamo limitarci a considerarlo poco più che un imbecille, tuttavia, non occorre essere cervelloni per mettere nel sacco un popolo (raramente hanno infatti governato dei geni) occorre però avere intuito politico, che spesso, invece, i geni non hanno.

A noi può sembrare incredibile che si possa abboccare ai suoi richiami demagogici, senza tenere conto delle sue contraddizioni, del passaggio incoerente dall’antimeridionalismo al nazionalismo, ma pensiamo sia la prima volta o una sua esclusiva storica? Guardiamo alle posizioni del primo movimento fascista nel 1919 (anticlericale, anticapitalista, con punti programmatici della tradizione socialista) e poi prendiamo le posizioni totalmente diverse espresse da Mussolini appena due anni dopo, nel suo primo intervento in Parlamento del 21 giugno 1921 o nel Congresso fondativo del PNF del novembre 1921. Qualcuno pensa che, quando determinate categorie sociali decisero di puntare su di lui, la sua incoerenza ideologica e programmatica fosse un ostacolo? Uno dei più acuti osservatori del fascismo, Angelo Tasca Tasca, nel 1938, riconosce a Mussolini, specie nei tumultuosi avvenimenti tra il 1921 e il ’22, una spregiudicatezza tattica e una determinazione personale non rintracciabile nei suoi avversari politici. Mussolini riesce così a sfruttare a proprio vantaggio l’interminabile situazione di crisi e instabilità governativa: da un lato facendo opera di interdizione verso ogni operazione tesa a combatterlo, isolarlo o anche solo a escluderlo; dall’altro utilizzando tutti i mezzi a disposizione per il conseguimento del suo obiettivo, la conquista del potere e soprattutto il governo della politica estera italiana. La condotta di Mussolini disorienta le vecchie classi dirigenti liberali perché ogni contenuto ideologico, programmatico o propagandistico è utilizzato solo in rapporto alle esigenze immediate. Mussolini non si lega mai ad una affermazione o impostazione ideologica ed è sempre pronto a rovesciare una sua precedente presa di posizione se ciò gli è utile strategicamente:

“L’immensa varietà degli eventi e delle passioni, i molteplici fattori che si annodano nella realtà italiana, e che anche oggi, a distanza di tempo, non è facile districare, subiscono nell’animo di Mussolini una straordinaria semplificazione, mentre i suoi avversari vi si ritrovano con difficoltà. Poiché non seguono fino in fondo né la logica dell’ambizione, né quella delle passioni ideali, costoro procedono esitando, inciampando a ogni passo, aggrappandosi a vecchie formule ed a vecchie combinazioni che la marcia degli avvenimenti  ha  già condannato. Mussolini li supera anche perché, pur seguendo con attenzione vigile e circospetta i minimi fatti che possono modificare i rapporti di forze nella vita politica del paese, mira più lontano. Vuol conquistare il potere rapidamente e con tutti i mezzi, perché vuole arrivare a dirigere la politica estera dell’Italia: là solamente può trovare un campo sufficientemente vasto per la sua ambizione e portare a termine l’avventura cominciata nell’ottobre 1914 con la sua rottura col Partito socialista”[1].

Magari non sarà Salvini l’erede di questa tradizione, ma prima sbeffeggiarlo lo prenderei sul serio, molto sul serio, forse così esageriamo in prudenza però, poi, non siamo noi a fare la figura degli ebeti, come drammaticamente ci è già accaduto, quando il nostro sorriso sardonico si è trasformato in una paresi, magari non permanente ma durata venti lunghi anni. So che è pedante farlo, ma ricorrere a questa citazione (mai come oggi attuale) mi pare utile a chiudere questa breve, amara, riflessione:

“La tendenza a diminuire l’avversario. Mi pare che tale tendenza di per se stessa sia un documento della inferiorità di chi ne è posseduto. Si cerca infatti di diminuire l’avversario per poter credere di esserne vittoriosi; quindi in tale tendenza è anche istintivamente un giudizio sulla propria incapacità e debolezza, ossia un inizio di autocritica, che si vergogna di se stessa, che ha paura di manifestarsi esplicitamente e con coerenza sistematica, perché si crede nella «volontà di credere» come condizione di vittoria, ciò che non sarebbe inesatto se non fosse concepito meccanicamente e non diventasse un autoinganno (contiene una indebita confusione tra massa e capi e finisce coll’abbassare la funzione del capo al livello della funzione del più arretrato e incondito gregario), Un elemento di tale tendenza è di natura oppiacea: è proprio dei deboli abbandonarsi alla fantasticheria, sognare a occhi aperti che i propri desideri sono realtà, che tutto si svolge secondo essi: da una parte l’incapacità, la stupidaggine, la barbarie, la paurosità, dall’altra le più alte doti di carattere e di intelligenza: la lotta non dovrebbe essere dubbia e già pare di tenere in pugno la vittoria. La lotta rimane lotta sognata e vinta in sogno: nella realtà, da dovunque si cominci ad operare, le difficoltà appaiono gravi, e siccome si deve cominciare sempre necessariamente da piccole cose (poiché, per lo più, le grandi cose sono un insieme di piccole cose), viene a sdegno la «piccola cosa»: è meglio continuare a sognare e rimandare tutto al momento della «grande cosa». La funzione di sentinella è gravosa, noiosa, defatigante; perché «sprecare» così la forza umana e non conservarla invece per la grande battaglia eroica? e così via. Non si riflette poi che se l’avversario ti domina e tu lo diminuisci, riconosci di essere dominato da uno che consideri inferiore? Ma come è riuscito a dominarti? Come mai ti ha vinto ed è stato superiore a te proprio in quell’attimo decisivo che doveva dare la misura della tua sua periorità e della sua inferiorità? Ci sarà stata di mezzo la «coda del diavolo». Ebbene impara ad avere la coda del diavolo dalla tua parte”[2].

 

 

 


[1] A. Tasca, Nascita e avvento del fascismo, Laterza, Bari, 1972, pag. 328, 329.

[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 1885