Il caso Grillo e la passione tutta italiana per l’eloquenza.



Il caso Grillo e la passione tutta italiana per l’eloquenza.


Gianni Fresu

Il “caso Grillo” è per molti versi l’ultimo esempio della grande passione degli italiani per l’eloquenza e la guida carismatica. Questa tradizione, lunga e consolidata, almeno da D’Anunnzio in poi, ci spiega forse più di ogni cosa perché oggi la gran parte dei partiti politici italiani (PDL, UDC, IdV, SEL, FLI, Lega) reca nei rispettivi simboli il nome del proprio leader. Senza voler entrare nel merito delle rispettive proposte politiche, né fare assurdi paralleli tra le diverse personalità, è un fatto che in Italia ci sia una tendenza del tutto peculiare ad affidarsi ciecamente a un capo politico, cui si attribuiscono capacità illimitate, delegandolo ben oltre il mero rapporto di rappresentanza. Del resto non è certo un caso se uno dei temi più ricorrenti nell’opera di Gramsci sia proprio un particolare tipo di relazione tra governanti e governati, in linea con un elemento permanente del carattere italiano: la sua propensione a farsi sedurre dalle doti oratorie del “tribuno intelligente”. Così si esprimeva in proposito nei Quaderni, «l’ammirazione ingenua e fanatica per l’intelligenza come tale, per l’uomo intelligente come tale, corrisponde al nazionalismo culturale degli italiani, forse unica forma di sciovinismo popolare in Italia. D’Annunzio si presentava come la sintesi popolare di tali sentimenti: apoliticità fondamentale, nel senso che da lui ci si poteva aspettare tutti i fini immaginabili dal più sinistro al più destro». La guida carismatica è corrispondente a una fase ancora primitiva nello sviluppo dei partiti, una fase nella quale la dottrina è un qualcosa di nebuloso per le masse e queste necessitano di un «papa infallibile», capace di interpretarla ed adattarla alle diverse circostanze. Una fase dominata da «ideologie incoerenti e arruffate» incentrate sul colpo di teatro, l’abilità oratoria e l’emotività delle classi sociali cui fanno riferimento. Se però, per una ragione o l’altra cade improvvisamente il grande leader, l’organizzazione è gettata nello scompiglio e nella crisi più assoluta, vive una condizione anarchica da “8 settembre”. La sola eccezione italiana a questa storia può essere rintracciata nella vitalità molecolare dei grandi partiti di massa tra la Resistenza e il primo dopoguerra, dove di certo non mancavano i leader, ma la loro funzione era mediata da una serie di rapporti organizzativi nei quali la verifica democratica e le forme di partecipazione non erano meramente passive. Il rapporto senza filtri tra leader e masse adoranti, che si può esprimere nelle adunate come nelle forme assembleari, non porta maggiore partecipazione, determina semmai l’emergere di una concezione sempre più mediatica dell’organizzazione politica. Essa contribuisce a edificare nuove oligarchie politiche difficili da controllare e, in quanto tali, indiscutibili, non è la liberazione di nuove energie democratiche. In questi anni ci si è interrogati spesso sulla cosiddetta «crisi della politica», senza però andare mai al fondo dei nodi che riguardano il funzionamento dei partiti, la selezione dei loro gruppi dirigenti e istituzionali basata, in generale, sulla cooptazione fiduciaria attorno a singole personalità. I vecchi partiti del secondo dopoguerra, non gli immensi carrozzoni clientelari degli anni Settanta e Ottanta, avevano pur tra tanti limiti la capacità di realizzare una partecipazione costante alla vita politica, favorendo una formazione di gruppi dirigenti non esclusivamente composti di “specialisti”. La vita dei partiti si articolava nelle strutture culturali, di associazione sportiva e sociale, di agregazione ludica, favorendo una maggiore organicità tra cittadini e politica. So di andare contro l’opinione prevalente, ma la risposta alla crisi del rapporto di rappresentanza non penso possa venire delle primarie, che confondono la personale capacità persuasiva del candidato con la costruzione di una comunità politica, affidandosi alle sue virtù taumaturgiche. Servirebbe semmai una reale autoriforma dei partiti politici, per renderli nuovamente lo strumento principe della partecipazione popolare, assegnando nuovamente ai congressi una funzione alta di luogo collettivo per l’elaborazione, direzione e selezione politica. Oggi assistiamo agli smottamenti inconsulti del sistema politico italiano, in risposta a ciò tutti descrivono spregiativamente Grillo come immondo “pifferaio magico”, ma mi chiedo, la tendenza alla personalizzazione della politica italiana degli ultimi venti anni, a destra come a sinistra, non ha oggettivamente preparato il terreno a questo risultato? E’ una massima storica infallibile, quando un movimento politico punta tutto sulle doti del suo “pifferaio magico”, prima o poi il flauto si rompe o compare sulla scena un suonatore più capace. Spesso le due cose vanno assieme.

 

 

Nell’archivio Podda la memoria di Cagliari. (“La Nuova Sardegna”)

Nell’archivio Podda la memoria di Cagliari.

A cinque anni dalla scomparsa apre in municipio un’esposizione dedicata al giornalista e studioso di cinema

Di Gianni Fresu (“La Nuova Sardegna”, 30 aprile 2012)

 

 

A cinque anni dalla scomparsa di Giuseppe Podda, questa mostra costituisce la prima esposizione pubblica di parte del suo ricchissimo patrimonio fotografico riguardante aspetti di vita sociale, politica e culturale dell’isola e che, a partire dall’immediato dopoguerra, copre un arco temporale di mezzo secolo.

Il fondo “Giuseppe Podda” si compone di foto, documenti, manoscritti, lettere, giornali e riviste, materiali audio-visivi che spaziano dai grandi temi della politica  al teatro, dalle grandi vertenze sociali legate alla storia del movimento dei lavoratori alla musica e al cinema. Uno spaccato di società sarda di grande interesse storico e iconografico per il quale sarà avviato un lavoro di catalogazione e valorizzazione in grado di salvaguardarlo e favorirne la fruizione pubblica. La gran parte delle foto raccolte sono da lui realizzate, tuttavia, non essendosi ancora provveduto a una catalogazione scientifica, non è stato possibile distinguere con certezza le “sue” dalle altre foto da lui raccolte e archiviate. Questa mostra risente ovviamente di tale limite e di ciò ci scusiamo preventivamente con i visitatori, rinviando a un prossimo futuro un più accurato lavoro di presentazione, accompagnato da note e didascalie appropriate.

Giuseppe Podda, nella professione giornalistica come nell’impegno politico, amava integrare riflessioni e testimonianze scritte con corredi d’immagini da lui catturate. Quanti l’hanno conosciuto negli anni della sua attività lo ricordano ancora con l’immancabile macchina fotografica, intento a immortalare con medesimo interesse personalità di spicco, lotte sociali grandi manifestazioni, eventi, strade, mestieri e volti della città che tanto ha amato. Negli ultimi anni della sua vita nel vastissimo e dettagliatissimo archivio dei suoi ricordi, c’era posto non solo per i grandi nomi, quelli su cui si scrive la storia, ma anche e soprattutto per le persone più semplici (dal pescatore, all’operaia della Manifattura tabacchi, dal portuale al minatore, dal muratore al ferroviere), quelli che la storia la fanno quotidianamente, senza aspettarsi commenti e biografie. Un posto speciale era riservato ai militanti, ai compagni di lotte, uomini e donne capaci di impegnare le ferie per fare la festa e diffondere l’Unità, lavoratori tanto appassionati da utilizzare parte della sudatissima liquidazione per contribuire a costruire la Sezione o acquistare il ciclostile. Quando, nell’anonimato, uno di loro veniva a mancare Podda scovava subito dalle sue cartelle foto e aneddoti a testimonianza del loro impegno. Ne parlava con passione, con la stessa dignità che in genere si tributa a un alto dirigente o intellettuale e il più delle volte si stupiva, fino ad arrabbiarsi e chiudere bruscamente una discussione, quando scorgeva nell’interlocutore di turno atteggiamenti di sufficienza o disinteresse. Questa mostra, realizzata attraverso una selezione inevitabilmente arbitraria, intende essere un piccolo spaccato del mondo da lui vissuto, commentato e ricordato.

Antonio Gramsci, figura centrale nella formazione umana e intellettuale di Giuseppe Podda, nelle note dei Quaderni del carcere esortava a cogliere il valore inestimabile di ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni: «la storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica, nella loro attività c’è la tendenza sia pure su piani provvisori all’unificazione, ma tale tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti». Proprio perché episodica e disgregata, questa storia lascia poche tracce di sé ed è molto più difficile da rinvenire rispetto a quella delle classi dirigenti. L’errore dell’intellettuale tradizionale per Gramsci consiste nella convinzione che si possa «sapere» senza sentire ed essere «appassionato», cioè credere che l’intellettuale possa essere tale rimanendo distinto e staccato dal «popolo-nazione», cioè senza sentire e comprendere le sue passioni elementari. L’«intellettuale puro», scriveva Gramsci, si accosta al popolo per «teorizzare» i suoi sentimenti non per comprenderli o porsi all’unisono con essi, l’intellettuale puro si china verso il popolo solo per costruire schemi scientifici, si rapporta al popolo come l’entomologo osserva un modo di insetti.

Ecco, Giuseppe Podda non è stato un intellettuale puro, ha sempre preferito «sapere» e «sentire», porsi all’unisono, in rapporto simpatetico, con un universo popolare dolosamente marginalizzato nella vita cittadina. Spostati come un pacco postale da un quartiere all’altro, per assecondare le “scelte strategiche di sviluppo urbanistico”, «i personaggi dolenti della Cagliari “marginale” palpitano di un’umanità straordinaria». Essi portano in dote, di generazione in generazione, un patrimonio storico e culturale di cui raramente hanno consapevolezza, e di cui pertanto evitano di fare sfoggio, ma in definitiva restano l’elemento permanente di una città che non muore:

“La Cagliari di un tempo, con le sue donne energicamente protese a tirar su unu carrasciu de fillusu, oggi ci appare molto lontana, ma se volgiamo lo sguardo verso le desolate periferie, sotto sotto sembra, per certi versi, continuare ancora” (Piccola città)

(Gianni Fresu)

 

“I ladri di Pisa”.


“I ladri di Pisa”.

 

Ovvero:

come far finta di aprire una durissima vertenza con il governo nazionale per poi continuare a governare la regione sotto il suo rassicurante ombrello.

 

In merito al famigerato ordine del giorno (n. 79, approvato dal Consiglio Regionale il 21 marzo, primo firmatario Giacomo Sanna), la prima reazione spontanea, vista la credibilità dei soggetti proponenti, è stata una sonora risata. Tuttavia, al di là di fin troppo semplici battute, quest’ordine del giorno è in sé preoccupante per la faciloneria con cui si imbocca una strada vischiosissima solo per avere spazio sui giornali e smarcarsi giusto in tempo per il certificato di verginità pre-elettorale. Spararla così grossa serve solo a depotenziare il significato degli strappi istituzionali e ad assuefare i cittadini a una politica fatta di annunci sensazionali cui non seguono mai fatti concreti. Una tendenza tipica del vecchio massimalismo socialista: nel Congresso del PSI del 1919 (l’apoteosi storica del massimalismo parolaio) vennero proposti al voto degli ordini del giorno che predisponevano la rivoluzione per la domenica successiva all’assise. Ecco, quella mi sembra la strada intrapresa oggi dal Consiglio regionale sardo.

 

Le parole sono importanti, e temo ci sia o incoscienza sul significato di quelle adoperate o, peggio, una consapevole strumentalità per nulla corrispondente a quel che sino ad oggi questi signori hanno fatto e, soprattutto, a quel che realmente intendono fare ora. L’ordine del giorno (patacca) testualmente recita:  “Verifica dei rapporti di lealtà istituzionale sociale e civile con lo Stato che dovrebbero essere a fondamento della presenza e della permanenza della Regione nella Repubblica italiana”. Senza giri di parole ritengo che se la Lega avesse fatto approvare un dispositivo analogo in tanti avrebbero gridato allo scandalo. Fino a prova contraria, in un quadro costituzionale come il nostro, non è ipotizzabile alcuna verifica della “presenza e permanenza di una regione nella Repubblica italiana”. Anche il più somaro tra gli studenti di diritto costituzionale sa che l’Unità e indivisibilità della Repubblica, come del resto la forma repubblicana dell’ordinamento, sono principi non soggetti a sindacato, transazione o modifica.

 

L’unica strada sarebbe, assolutamente legittima per carità, quella della secessione (con annessi e connessi). Ma se così fosse, tendenzialmente, mi verrebbe naturale nutrire qualche diffidenza sulla buona fede dei primi firmatari di questo Odg. Detta più brutalmente, se proprio dovessi dar credito a una prospettiva di quel tipo mi volgerei ad altri soggetti politici da sempre e con coerenza impegnati in quella lotta, non certo a chi fino ad ora ha esercitato e continua a esercitare ben altro ruolo nella dialettica Stato-Regione. Dietro quest’operazione mi sembra ci sia una gran voglia di spostarsi dal palazzo alla viglia del suo crollo, dopo averlo edificato con tanto impegno e amore (mattone per mattone), dando ovviamente la responsabilità del collasso ad altri. E’ chiaro, i governi Berlusconi, Prodi e Monti hanno una buona fetta di colpevolezza, forse la gran parte, per la condizione in cui versa la Sardegna, ma questo non cancella due dati che a me sembrano dolosamente nascosti sotto il tappeto:

 

1)   I governi nazionali hanno potuto operare in un determinato modo perché sostenuti dalle classi dirigenti sarde, compresi i firmatari di questo Odg (patacca);

 

2) Le dolose responsabilità dei governi nazionali sono ampiamente compensate da quelle dei governi regionali, primo tra tutti, quello tutt’ora in sella che i principali proponenti dell’Ordine del giorno si guardano bene dal disarcionare.

 

Per quanto riguarda il dibattito a sinistra, il vero punto politico è aver dato sponda proprio alle forze politiche maggiormente responsabili del disastro sardo che, incuranti del proprio fallimento, cercano ora di scaricare le loro responsabilità sul governo nazionale e su rapporti di forza (Stato-Regione) fino a oggi sostenuti. Il discorso sarebbe stato diverso se i proponenti della maggioranza avessero legato all’ordine del giorno alcuni atti politici in grado di aprire realmente una vertenza durissima Stato-Regione: 1) staccare la spina al Governo Cappellacci; 2) dimettersi dai ruoli in Giunta e nelle Commissioni; 3) proporre le dimissioni dell’intero Consiglio regionale (e magari anche delle amministrazioni locali). Si è invece preferita la strada più semplice (quella che non fa perdere i “benefici” del ruolo istituzionale ricoperto) lasciando credere che (da questo momento!) la Regione Autonoma della Sardegna era pronta a intraprendere un percorso tanto grave da ridiscutere la propia appartenenza allo Stato italiano (nientepopodimenoche!). Detta brutalmente, mi sembra l’ennesima operazione politicista con cui si prendono per i fondelli i sardi, fare come “i ladri di Pisa” del famoso adagio popolare toscano, quelli che di giorno litigano e la notte vanno insieme a rubare

 

 

 

 

Sulle ceneri di Gramsci il ridicolo balletto dei soliti revisionisti (“La Nuova Sardegna”, 11-3-2012)

Sulle ceneri di Gramsci il ridicolo balletto dei soliti revisionisti,
“La Nuova Sardegna”, 11-3-2012

di Gianni Fresu
Ci risiamo: sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo alla storia del Pci. La bibliografia su un Gramsci tormentato e proteso a un approdo liberale o socialdemocratico è ampia. A questa si aggiungono altre tesi, sempre di taglio scandalistico, mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile eppure ambite dalle «grandi» testate giornalistiche e dai programmi tv di divulgazione storica. Le richiamo per sommi capi: 1) Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di Gramsci) agenti del Kgb assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3) Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di morte dell’intellettuale sardo.  Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano sulla rilettura forzata di carteggi, necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive, mai suffragate sul piano documentale; su letture parziali degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di documenti. Tutti ricordiamo la famosa lettera di Togliatti sugli alpini prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro da Franco Andreucci.  È strano, mentre in America, Asia e Africa alle categorie gramsciane sono dedicate pubblicazioni monografiche e persino corsi di laurea specialistica, in Italia si preferisce puntare al sensazionale, mostrare l’intima debolezza o il ravvedimento pentito del suo pensiero. Non sfuggono a quest’esigenza neanche «I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista» (Donzelli) di Franco Lo Piparo e «Gramsci e Turati, le due sinistre» (Rubettino Editore) di Alessandro Orsini, che ha entusiasmato tanto Roberto Saviano da spingerlo a scrivere un «Elogio dei riformisti» per «La Repubblica» del 28 febbraio scorso.  Nel caso di Lo Piapro abbiamo l’ennesimo tentativo, di presentare Gramsci come un recluso nelle carceri del Pci e del Pcus, non in quelle del regime fascista, costretto in una cella le cui chiavi erano in mano a Togliatti e non a Mussolini. Oltre a questo, nel saggio di Lo Piparo si cerca nuovamente di usare alcune pagine dei «Quaderni», omettendone volutamente altre, per dimostrare la svolta liberale di Gramsci. All’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica dell’intellettuale sardo nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive all’arresto, così come quella impegnata a distinguere il politico dal «pensatore disinteressato». In realtà, in Gramsci, la lettura analitica s’intreccia strettamente alla battaglia politica e la distinzione delle due fasi può essere riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della prima e nella maggiore libertà analitica, appunto «für ewig», delle riflessioni carcerarie. Tuttavia, tra esse la continuità concettuale è evidente e documentabile. Tra le pagine dei «Quaderni del carcere» e negli abusatissimi concetti di «egemonia» e «guerra di posizione», sono state ricercate le prove della «frattura» per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità assoluta, con il «demone del Novecento». A tal fine, queste riletture evitano accuratamente di fare i conti con le pagine nelle quali Gramsci studia e valorizza al massimo proprio Lenin come un teorico dell’egemonia. Così, anche Lo Piparo fa di tutto per non leggere le note a Lenin dedicate, per poi definire i «Quaderni» «un’opera di profilo crociano», una sorta di «ripensamento filosofico» di Gramsci nella sua transizione dal comunismo al liberalismo. Nei «Quaderni» Gramsci riconosce sicuramente a Benedetto Croce una grandissima statura intellettuale, e degli indubbi meriti filosofici, ma al contempo ne contesta radicalmente il profilo sociale e politico, mettendo persino in dubbio la buona fede del filosofo liberale.  Per quanto riguarda invece il saggio di Orsini, oggetto dell’entusiastica recensione di Roberto Saviano, abbiamo la comparazione tra alcune pagine degli articoli giovanili più polemici e immediatamente legati alla quotidiana lotta politica di Gramsci e quelli più «aulici» e riflessivi di Filippo Turati. Così commenta Saviano: «L’idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli». Gramsci per Saviano condisce con la volgarità la sua insopprimibile tendenza all’intoleranza: «Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato». Saviano forse dimentica, non sa, o magari non vuol ricordare, che a esaltare e salutare positivamente non un cazzotto, ma la «pioggia di pugni» riservati dal nascente movimento fascista verso il sovversivismo di operai e contadini riottosi fu il campione del liberalismo italiano per eccellenza, Benedetto Croce. Di Croce non si ricordano affermazioni e posizioni di questo tipo (molte), ma solo le grandi petizioni di principio su libertà, democrazia, rispetto della diversità. Ovviamente, passano in cavalleria tante cose, compreso il sostegno del mondo liberale al Partito fascista nella fase precedente e successiva all’ascesa al potere di Mussolini. Non sarebbe male ricordare che un manipolo di deputati fascisti potè entrare nel 1921 in Parlamento grazie alla cortese ospitalità delle liste elettorali di Giolitti. Saviano si serve del libro di Orsini – pazienza se passeggia sull’opera e la biografia di Gramsci senza aver mai letto la prima e conosciuto minimamente la seconda – per giungere alle sue conclusioni: la peggiore tradizione della «pedagogia dell’intolleranza» sta fuori dal Parlamento, nell’«estremismo massimalista» dei movimenti. Cito ancora testualmente la sua recensione: «I riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori», mentre «nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è un bene, perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria, è il famigerato tanto peggio tanto meglio». Per Saviano i riformisti sono «realisti e tolleranti», mentre Gramsci e la sue progenie sono per la «società perfetta», dunque utopistici e intolleranti.  Come ha scritto Domenico Losurdo, uno dei più autorevoli studiosi di Gramsci, buona parte della pubblicistica anticomunista basa le sue supposizioni sul «sofisma di Talmon» (in omaggio allo storico Jacob Talmon, tra i più assidui frequentatori di questo pregevole metodo): «I fatti e i misfatti del comunismo vengono messi a confronto non con i comportamenti reali del mondo che esso vuole mettere in discussione, ma con le dichiarazioni di principio del liberalismo, rispetto alle quali la vicenda iniziata con la rivoluzione bolscevica appare in tutta la sua abiezione». Da una parte si parla dei Gulag, della dittatura e delle violazioni della libertà, identificando tutto questo con il marxismo, dall’altra si usano le parole più infiocchettate di Tocqueville, John Locke, Adamo Smith per descrivere il liberalismo tacendo guerre, colonialismo, miseria e sfruttamento da esso generate. Gramsci ha subito, da vivo e da morto, una infinità di processi. Se nel primo processo l’auspicio era quello di «impedire a questo cervello di funzionare», nell’ultimo della serie l’imperativo punitivo – solo italiano, perché nel resto del mondo Gramsci viene letto e tradotto – potrebbe essere quello di «impedire l’utilizzo delle sue idee», delegittimarle, renderle contraddittorie, anticaglia inservibile». Non ci riuscirono la prima volta; non ci riusciranno, ne siamo certi, nemmeno adesso.

Processate Gramsci!

Processate Gramsci!
Di Gianni Fresu

Ci risiamo, sulle ceneri di Gramsci si consuma l’ennesimo processo alla storia del partito comunista italiano. La bibliografia tesa a presentare un Gramsci tormentato e proteso verso un approdo liberale, al limite socialdemocratico, è ampia e, sebbene di scadentissimo valore scientifico, molto apprezzata. A questa si aggiungono altre tesi strampalate, sempre di taglio scandalistico e mai fondate sullo straccio di una fonte attendibile, particolarmente ambite dalle “grandi” testate giornalistiche italiane e dai programmi televisivi di divulgazione storica. Per sommi capi le richiamo:
1)Togliatti spietato carceriere di Gramsci; 2) le sorelle Schucht e Piero Sraffa (cioè moglie cognata e amico strettissimo di Gramsci) agenti del KGB assoldati da Stalin per sorvegliarlo; 3) Mussolini e le carceri fasciste che difendono, anzi salvano, Gramsci dal suo stesso partito; 4) la conversione cattolica in punto di morte dell’intellettuale sardo (attendiamo con trepida attesa le prossime rivelazioni sul Gramsci devoto di padre Pio).
Se fosse attendibile il quadro di queste interpretazioni, ne verrebbe fuori un Gramsci non solo smarrito e perennemente tormentato, ma un uomo tendenzialmente ingenuo, vittima inconsapevole della perfida cattiveria doppiogiochista di tutte le persone che gli stavano più vicine. Tutte queste tesi ruotano sulla rilettura forzata (ovviamente mai provata) di carteggi necessariamente cifrati; su mere supposizioni soggettive non suffragate da alcun dato documentale; su letture banali e parziali degli scritti di Gramsci; sulla manifesta falsificazione di documenti d’archivio.
Tutti ricordiamo la famosa lettera di Torgliatti sugli alpini prigionieri in Russia pubblicata su «Panorama» nel febbraio del 1992, dopo essere stata falsificata in modo maldestro da uno storico imbroglione (nel senso che è entrato nella storia degli imbroglioni) come Franco Andreucci. Vi ricordate «il divino Hegel» e Achille Occhetto dichiaratosi da subito «agghiacciato» per le sconcertanti rivelazioni, senza neanche attendere la verifica della loro veridicità? Su questa colossale patacca, degna della banda dei “soliti ignoti”, furono riempite le pagine dei giornali (si propose persino di modificare tutta la toponomastica nazionale per cancellare il nome di Togliatti da vie e piazze), i dibattiti politici, i palinsesti televisivi. Ovviamente, una volta appurata la grossolana falsificazione, alla rettifica non fu dato altrettanto spazio. Bene, a questo filone possiamo ascrivere le ultime due fatiche del revisionismo nostrano, ovviamente già celebrate dai maggiori quotidiani nazionali e dai loro “intellettuali” di punta, pubblicate recetemente: I due carceri di Gramsci. La prigione fascista e il labirinto comunista (Donzelli, 2012) di Franco Lo Piparo e Gramsci e Turati. Le due sinistre (Rubettino, 2012) di Alessandro Orsini che tanto ha entusiasmato il re delle anime belle Saviano da spingerlo a scrivere un Elogio dei riformisti per «La Repubblica». Nel primo caso abbiamo l’ennesimo tentativo, sempre debolissimo sul piano delle fonti, di presentare Gramsci come un recluso nelle carceri del PCI e del PCUS, non in quelle del regime fascista, costretto in una cella le cui chiavi erano in mano a Togliatti e non a Mussolini. Oltre a questo, nel saggio di Lo Piparo si cerca nuovamente (senza alcuna novità rispetto al passato) di usare strumentalmente alcune pagine dei Quaderni, omettendone volutamente altre, per dimostrare con queste l’abbandono del leninismo e la svolta liberale di Antonio Gramsci. Sul primo tentativo non vale neanche la pena di perder troppo tempo, si tratta della solita costruzione priva di basi, condita però da una fervida e interessatissima fantasia (non molto più attendibile sul piano scientifico del Codice da Vinci di Dan Brown), per quanto riguarda il secondo, invece, ci troviamo di fronte ad un nuovo saggio scritto dopo una lettura creativa dei Quaderni con la consolidata tecnica “una pagina sì e una pagina no”. All’interno delle diverse riletture su opera e biografia politica di Antonio Gramsci, nel tempo, si è affermata una tendenza incentrata sulla presunta discontinuità tra le riflessioni precedenti e successive al 1926, così come quella impegnata a distinguere il politico dal «pensatore disinteressato». Tale tendenza, mossa più da esigenze politiche che da una reale necessità scientifica, si è rivelata sempre, e anche in questo caso, priva di qualsiasi rigore filologico. Eugenio Garin ha scritto che «Gramsci non intendeva fare opera di ricercatore erudito: la sua concezione del pensatore e dello storico lo impegnava in una situazione concreta, a scelte reali» . Gramsci era un politico e non un filosofo – e con ciò intendeva dire che era un filosofo e uno storico serio e non un professore – dunque «non si preoccupò di raccogliere in candidi mazzolini temi incontaminati perché a tutti estranei, ma combattè sul terreno reale, nella situazione reale»[1]. In Gramsci la lettura analitica si intreccia strettamente alla battaglia politica e la distinzione sulle due fasi può essere riscontrata al massimo nelle esigenze immediatamente politiche della prima e nella maggiore libertà analitica, appunto «für ewig», delle riflessioni carcerarie, tuttavia, tra le due la continuità concettuale è evidente e documentabile. Negli ultimi trent’anni, invece, lo sport più diffuso tra molti gramsciologi di professione è stato epurare l’opera di Gramsci dai legami con l’esperienza del leninismo e della III Internazionale. Tra le pagine dei Quaderni del carcere e negli abusatissimi concetti di «egemonia» e «guerra di posizione», sono state ricercate le prove di questa frattura per giustificare tramite essa la discontinuità, se non proprio l’incompatibilità assoluta, con il «demone del novecento». A tal fine, queste riletture evitano accuratamente di fare i conti con le pagine nelle quali Gramsci studia e valorizza al massimo Ilici come un teorico dell’egemonia[2]. Lenin non è un rivoluzionario idealista scontratosi con l’immodificabilità dell’ordine naturale delle cose, dunque sconfitto, ma colui che Gramsci ha definito nei Quaderni il protagonista di una «egemonia realizzata», ovverosia, «la critica reale di una filosofia, la sua reale dialettica», e questo è forse il boccone più amaro da digerire per tutti gli intellettuali arruolati nella battaglia per la difesa dello stato di cose esistenti.
Lo Piparo fa di tutto per non leggere le pagine dei Quaderni dedicate a Lenin, ma si dimostra ancora più spregiudicato nel definire i Quaderni «un opera di profilo crociano», una sorta di «ripensamento filosofico» di Gramsci nella sua transizione dal comunismo al liberalismo. Così, la tendenza a leggere una pagina sì e una no, lo porta a mille acrobazie per non fare i conti con le note dove Gramsci riconosce sicuramente a Croce una grandissima statura intellettuale, e degli indubbi meriti filosofici, ma al contempo ne contesta radicalmente il profilo sociale e politico, mettendo persino in dubbio la buona fede del filosofo liberale. Se Lenin è per Gramsci il protagonista di una «egemonia realizzata», a sua volta Benedetto Croce è il massimo studioso dell’egemonia nella filosofia italiana. L’opera di Croce ha cioè il merito di aver indirizzato l’interesse scientifico verso lo studio degli elementi culturali e filosofici come parte integrante degli assetti di dominio di una società, da ciò consegue la comprensione della funzione dei grandi intellettuali nella vita degli Stati nella costruzione dell’egemonia e del consenso, vale a dire del «blocco storico concreto». Nella concezione di «storia etico-politica», Benedetto Croce costruisce la storia del momento dell’egemonia. Nella storiografia crociana la giustapposizione dei termini etica e politica sta indicare due termini essenziali della direzione e del dominio politico: nel primo caso (etica) il riferimento è all’egemonia, all’attività della società civile; nel secondo caso (politica) il riferimento è all’iniziativa statale-governativa, alla dimensione istituzionale e coercitiva. «Quando c’è contrasto tra etica e politica, tra esigenze della libertà ed esigenze della forza, tra società civile e Stato-governo c’è crisi e il Croce giunge ad affermare che il vero Stato, cioè la forza direttiva dell’impulso storico, occorre cercarlo non là dove si crederebbe»[3] , al punto che, per quanto possa apparire paradossale, in determinati frangenti la direzione politica e morale del paese può essere esercitata anche da un partito rivoluzionario e non dal governo legale.
A queste considerazioni, tuttavia, Gramsci ne aggiunge altre, che Lo Piparo accuratamente evita di analizzare. Il limite maggiore di Croce consiste nel ritenere che il marxismo non riconosca il momento dell’egemonia e non dia importanza alla direzione culturale. Nella sua giustificata reazione al meccanicismo positivista e al determinismo economico Croce confonderebbe il materialismo storico con la sua forma volgarizzata. Al contrario, per la filosofia della praxis le ideologie non hanno nulla di arbitrario, ma sono strumenti di direzione politica. Per la massa dei governati esse sono strumenti di dominio attraverso la mistificazione e l’illusione, per le classi dirigenti un «inganno voluto e consapevole». Nel rapporto tra i due livelli emerge la funzione essenziale della lotta egemonica nella società civile e la natura non arbitraria delle ideologie:
esse sono fatti storici reali, che occorre combattere e svelare nella loro natura di strumenti di dominio non per ragioni di moralità ecc. ma proprio per ragioni di lotta politica: per rendere intellettualmente indipendenti i governati dai governanti , per distruggere un’egemonia e crearne un’altra, come momento necessario del rovesciamento della praxis. (…) Per la filosofia della praxis le superstrutture sono una realtà oggettiva ed operante [4] .
Del resto è nel terreno delle ideologie, della cosiddetta superstruttura, che gli uomini prendono coscienza del loro essere sociale ed avviene il cosiddetto passaggio dalla «classe in sé» alla «classe per sé», dunque per il materialismo storico tra struttura e superstruttura (tra economia e ideologie) esiste un nesso necessario e vitale, in ragione del quale si può parlare di movimento tendenziale del primo verso il secondo, la qual cosa non esclude un rapporto di reciprocità tra i due termini e comunque la funzione tutt’altro che secondaria delle superstrutture. Ma Gramsci non limita questa consapevolezza del materialismo storico all’opera dei due suoi fondatori, al contrario, gli sviluppi recenti della filosofia della praxis, il riferimento è a Lenin, pongono il momento dell’egemonia come essenziale della propria concezione statale e dell’opera di trasformazione dei rapporti sociali di produzione, valorizzano l’importanza dei fattori di direzione culturale, della creazione di un «fronte culturale», a fianco di quelli meramente economici e politici.
La proposizione contenuta nell’introduzione alla Critica dell’economia politica che gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura sul terreno delle ideologie deve essere considerata un’affermazione di carattere gnoseologico e non puramente psicologico e morale. Da ciò consegue che il principio teorico pratico dell’egemonia ha anche esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercare l’approccio teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis. Ilici avrebbe fatto progredire effettivamente la filosofia in quanto fece progredire la dottrina e la pratica politica. La realizzazione di un apparato egemonico, in quanto crea un nuovo terreno ideologico, determina una riforma delle coscienze e dei metodi di conoscenza, è un fatto filosofico[5].
Tra i paradigmi di storia etico-politica presenti nella Storia dell’Europa nel secolo XIX di Benedetto Croce, Gramsci individua un uso politico delle categorie come «strumento di governo», specchio fedele di quell’autorappresentazione della ideologia borghese che Marx definiva «falsa coscienza». Il limite maggiore della rappresentazione compiuta da Croce dell’età liberale, risiederebbe nel mantenere due livelli nettamente distinti (uno per gli intellettuali e uno per le grandi masse popolari) di ciò che s’intende per religione, filosofia, libertà. «La libertà come identità di storia e di spirito e la libertà come religione superstizione, come ideologia circostanziata, come strumento pratico di governo». La presupposta eticità dello Stato liberale si scontra cioè con la sua poca propensione espansiva-inclusiva.
[Croce] crede di trattare di una filosofia e tratta di una ideologia, crede di trattare di una religione e tratta di una superstizione, crede di scrivere una storia in cui l’elemento di classe sia esorcizzato e invece descrive con grande acutezza e merito il capolavoro politico per cui una determinata classe riesce a presentare e a far accettare le condizioni della sua esistenza e del suo sviluppo di classe come principio universale, come concezione del mondo, come religione, cioè descrive in atto lo sviluppo di un mezzo pratico di governo e di dominio. (…) Ma per le grandi masse della popolazione governata e diretta, la filosofia o la religione del gruppo dirigente e dei suoi intellettuali si presenta sempre come fanatismo e superstizione, come motivo ideologico proprio di una massa servile. E il gruppo dirigente non si propone forse di perpetuare questo stato di cose? Il Croce dovrebbe spiegare come mai la concezione del mondo della libertà non possa diventare elemento pedagogico nell’insegnamento delle scuole elementari e come egli stesso da ministro abbia introdotto nelle scuole elementari l’insegnamento della religione confessionale. Questa assenza di «espansività» nelle grandi masse è la testimonianza del carattere ristretto, pratico immediatamente, della filosofia della libertà[6] .
Altro che Gramsci liberale, le note dei Quaderni analizzano la formidabile articolazione fortificata della società liberale, i suoi assetti di egemonia e dominio, rispetto alla cui complessità e resistenza invoca lo spirito di scissione delle classi subalterne:
Cosa si può contrapporre, da parte di una classe innovatrice, a questo complesso formidabile di trincee e fortificazioni della classe dominante? Lo spirito di scissione, cioè il progressivo acquisto della coscienza della propria personalità storica, spirito di scissione che deve tendere ad allargarsi dalla classe protagonista alle classi alleate potenziali: tutto ciò domanda un complesso lavoro ideologico, la prima condizione del quale è l’esatta conoscenza del campo da svuotare del suo elemento di massa umana[7] .
Ma di tutto questo Lo Piparo, chissà perché, non tiene conto. Per quanto riguarda invece il saggio di Orsini, oggetto dell’entusiastica recensione di Roberto Saviano, ci troviamo di fronte a un’operazione ancora più banale: la comparazione tra alcune pagine degli articoli giovanili più polemici e immediatamente legati alla quotidiana lotta politica di Gramsci e quelli più «aulici» e riflessivi di Filippo Turati. Un capolavoro che non merita neppure troppa attenzione, mentre qualche parola è giusto spenderla per le «disinteressate» riflessioni di Saviano, capace di sintetizzare l’obiettivo politico del lavoro di Orsini senza neanche un tantino di pudore:
Alessandro Orsini ci presenta due anime della sinistra storica italiana (esemplificate in Gramsci e Turati) e ci mostra come, nel tempo, una abbia avuto il sopravvento sull’altra. L’idea da cui parte Alessandro Orsini è semplice: i comunisti hanno educato generazioni di militanti a definire gli avversari politici dei pericolosi nemici, ad insultarli ed irriderli. Fa un certo effetto rileggere le parole con cui un intellettuale raffinato come Gramsci definiva un avversario, non importa quale: “La sua personalità ha per noi, in confronto della storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato”. Invitava i suoi lettori a ricorrere alle parolacce e all’insulto personale contro gli avversari che si lamentavano delle offese ricevute: “Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio”. Arrivò persino a tessere l’elogio del “cazzotto in faccia” contro i deputati liberali. I pugni, diceva, dovevano essere un “programma politico” e non un episodio isolato [8].
Saviano forse dimentica, non sa, o magari non vuol ricordare, che a esaltare e salutare positivamente non un cazzotto, ma la «pioggia di pugni» riservati dal nascente movimento fascista verso il sovversivismo di operai e contadini riottosi fu il campione del liberalismo italiano per eccellenza, Benedetto Croce. Come sempre di Croce, come di Turati, non si ricordano affermazioni e posizioni di questo tipo ma solo le grandi petizioni di principio su libertà, democrazia, rispetto della diversità. Ovviamente, passano in cavalleria tante cose, compreso il sostegno del mondo liberale al partito fascista nella fase precedente e successiva all’ascesa al potere di Mussolini. Non sarebbe male ricordare che un manipolo di deputati fascisti potè entrare nel 1921 in Parlamento grazie alla cortese ospitalità delle liste elettorali di Giolitti. Tuttavia, è bene riconoscerlo, Saviano si è impegnato tantissimo per scrivere questa recensione, purtroppo il risultato non è all’altezza delle aspettative dei committenti:
Il politicamente corretto non era stato ancora inventato. Eppure, in quegli stessi anni Filippo Turati, dimenticato pensatore e leader del partito socialista, conduceva una tenacissima battaglia per educare al rispetto degli avversari politici nel tentativo di coniugare socialismo e liberalismo: “Tutte le opinioni meritano di essere rispettate. La violenza, l’insulto e l’intolleranza rappresentano la negazione del socialismo. Bisogna coltivare il diritto a essere eretici. Il diritto all’eresia è il diritto al dissenso. Non può esistere il socialismo dove non esiste la libertà”. Orsini raccoglie e analizza brani, scritti, testimonianze, che mostrano come quel vizio d’origine abbia influenzato e condizionato la vita a sinistra, e come l’eredità peggiore della pedagogia dell’intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista sopravviva ancora[9].
Saviano si serve di questo libro, pazienza se passeggia sull’opera e la biografia di Gramsci senza aver mai letto la prima e conosciuto minimamente la seconda, per giungere alle sue conclusioni: la peggiore tradizione della «pedagogia dell’intolleranza» sta fuori dal Parlamento, nell’«estremismo massimalista» di quei movimenti che sono pronti a difendere i crimini delle peggiori dittature di qualsiasi regime antiamericano. Saviano accusa i comunisti di amare Cuba senza rispondere dei «crimini» del regime castrista e la cosa fa veramente sorridere perché a fare queste affermazioni è lo stesso individuo che esalta Israele, lo Stato protagonista del più alto numero di violazioni delle risoluzioni ONU nella storia, in barba ai più elementari diritti del popolo palestinese da esso violentemente calpestati (altro che «l’elogio del cazzotto»!). Saviano accusa gli «extraparlamentari» di avere la «verità unica» tra le mani, di essere «seguaci dell’unica idea possibile di libertà», al contrario per noi è lui a «vivere di dogmi», a essere ostaggio del «fondamentalismo democratico», «uno dei retaggi più disgustosi della propaganda profusa al tempo della guerra fredda». Esso «indica l’arrogante uso di una parola (democrazia) che nel suo attuale esito racchiude e copre il contrario di ciò che esprime; e, insieme, l’intolleranza verso ogni altra forma di organizzazione politica che non sia il parlamentarismo, la compravendita del voto, il mercato politico»[10] . È sconcertante la serie di luoghi comuni e rappresentazioni manichee della realtà in cui si lancia Fra-Saviano, senza supportare storicamente nessuna delle sue affermazioni. Cito testualmente, senza alcuna interpretazione soggettiva: «i riformisti cercano di migliorare le condizioni di vita dei lavoratori» mentre «nella cultura rivoluzionaria, il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è un bene perché accresce l’odio contro il sistema e rilancia l’iniziativa rivoluzionaria, è il famigerato tanto peggio tanto meglio». Per Saviano i riformisti sono «realisti e tolleranti», mentre i comunisti sono per la «società perfetta», dunque utopistici e intolleranti. Messaggio finale del sermone: riformismo buono, comunismo cattivo; liberalismo bello, anticapitalismo brutto! “Pensierini”, talmente elementari e semplificanti da essere degni della miglior produzione del Comitato per le attività anti-americane del senatore Joseph McCarthy. Come dicevo sopra, è sconcertante il ragionamento di Saviano e lo è in misura tanto maggiore quanto più si tiene conto del contesto presente, segnato drammaticamente dalla crisi strutturale non dell’anticapitalismo, ma di un sistema contraddistinto da scompensi economico-sociali sempre più macroscopici, da prevaricazioni senza limiti sia nel rapporto tra capitale e lavoro (all’interno delle potenze capitalistiche), sia nelle violente forme di dominio delle nazioni ricche su quelle povere. Come ha scritto in passato Losurdo, buona parte della pubblicistica anticomunista basa le sue supposizioni sul sofisma di Talmon, «i fatti e i misfatti del comunismo vengono messi a confronto non con i comportamenti reali del mondo che esso vuole mettere in discussione, ma con le dichiarazioni di principio del liberalismo, rispetto alle quali la vicenda iniziata con la rivoluzione bolscevica appare in tutta la sua abiezione»[11] . Da una parte si parla dei Gulag, della dittatura e delle violazioni della libertà, identificando tutto questo con il marxismo, dall’altra si usano le parole più infiocchettate di Tocqueville, John Locke, Adamo Smith per descrivere il liberalismo tacendo guerre, colonialismo, miseria e sfruttamento da esso generate. Nella lettura apocalittica sul Novecento e nella sua completa trasfigurazione, il revisionismo storico ha costantemente tentato di demolire l’empia progenie del socialismo, imputando a Marx e discepoli tutto il carico di lutti e orrori propri di un secolo insanguinato, fascismi compresi, che non sarebbero figli legittimi dell’ideologia borghese, con tutto il suo carico di tradizione coloniale prima e imperialistica poi, ma un prodotto (autocefalo e tutto sommato salutare) della reazione al bolscevismo. Il fascismo, nei suoi riferimenti ideali, nel suo affermarsi, nelle sue pratiche, fa parte a pieno titolo dell’album di famiglia della borghesia, è espressione organica dei suoi rapporti sociali di produzione, ciò nonostante il revisionismo storico tende a presentare l’orrore del Ventesimo secolo come un qualcosa che irrompe improvvisamente su un mondo di pacifica convivenza. Orrore estraneo alla tradizione della civiltà liberale e alla società borghese. Questa tendenza alla rimozione, mascherare ogni atrocità con i grandi principi della civiltà liberale [12] rientra appieno nell’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti di cui parlava Gramsci. Nella sua banale brutalità, l’articolo di Saviano è a suo modo emblematico dello schieramento di forze mobilitato in difesa del capitalismo agonizzante e di quanto sia però, al contempo, decadente questo estremo tentativo di autodifesa. Se un tempo il liberalismo in crisi poteva avvalersi della difesa d’ufficio di figure come Benedetto Croce oggi si fa scudo con le frasi fatte e ampollose di intellettuali come Roberto Saviano, cos’altro possiamo aggiungere a questo? Antonio Gramsci ha subito da vivo e da morto un’infinità di processi, forse, a differenza di Berlusconi, i reati a lui attribuiti dal bel mondo liberale non cadono mai in prescrizione. Se nel primo processo l’auspicio era «impedire a questa testa di funzionare», nell’ultimo della serie l’imperativo punitivo potrebbe essere “impedire l’utilizzo delle sue idee”, delegittimarle, renderle contraddittorie, anticaglia inservibile. Non ci riuscirono la prima volta, ne siamo sicuri, non ci riusciranno nemmeno adesso.

29 febbraio 2012

 

note

[1] E. Garin, Con Gramsci, Editori Riuniti, Roma, 1997, pag. 48

[2] Per ragioni di spazio non mi posso dilungare oltre e rimando a quanto da me scritto altrove: G. Fresu, Lenin lettore di Marx. Determinismo e dialettica nel movimento operaio, La Città del Sole, Napoli, 2008.

[3] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1977, pag. 1302.

[4] Ivi, pag. 1319.

[5] Ivi, pp. 1249-1250.

[6] Ivi, pp. 1231, 1232.

[7] Ivi, pag. 333.

[8] R. Saviano, Elogio dei riformisti, «La Repubblica», 28 febbraio 2012.

[9] Ibid.

[10] L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Bari, 2002, pag. 17.

[11] D. Losurdo, Il peccato originale del Novecento, Laterza, Bari, 1998, pag. 55.

[12] D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, 2005, Bari.

 

Calendario presentazioni del libro “La prima bardana”.



Calendario presentazioni del libro “La prima bardana”.

Martedì 30 aprile 2013, Nughedu San Nicolò, festival “Piemontesos, Sardos, Bandidos e Bardanas”.

Venerdì 26 ottobre 2012, Fiera del libro, Macomer.

Venerdì 19 ottobre 2012, Arci- Società degli operai,  Salone della Società Operaia, Iglesias

Venerdì 17 agosto 2012, Casa Bandino, Esterzili

Sabato 8 agosto 2012, Festa del Partito Democratico, Ghetto degli ebrei, Cagliari

Sabato 19 maggio 2012, Centro sociale, Corso Vittorio Emanuele, Isili

Venerdì 11 maggio 2012, “Casa Gramsci”, Ghilarza

Venerdì 20 aprile 2012, Biblioteca “S. Satta”, Nuoro

Venerdì 6 aprile 2012, Biblioteca comunale di Carbonia

Lunedì 5 marzo 2012, Sala “Archivio storico del Comune” di Sassari (Comune di Sassari-Libreria Koinè)

Venerdì 24 febbraio 2012, ore 18:00, Biblioteca comunale “A. Gramsci”, Sadali

Mercoledì 14 dicembre 2011, Salone Società umanitaria/Cineteca Sarda, Cagliari

Sabato 10 dicembre 2011, Sala “I Sufeti”, S. Antioco.

 

Per info: fresugianni@tiscali.it

Per acquisti on line: http://www.cuec.eu/index.php/acquisti-on-line/; http://www.librisardi.it/

Crisi organica e sovversivismo reazionario. Coincidenze politiche di un binomio indissolubile.

Crisi organica e sovversivismo reazionario.
Coincidenze politiche di un binomio indissolubile.

Gianni Fresu

In più occasioni mi è capitato di affermarlo, l’opera di Antonio Gramsci è spesso percepita come materia buona giusto per l’archeologia politica o materiale liturgico-iconografico, preso in considerazione per gli anniversari di nascita e morte dell’intellettuale sardo. Al contrario, ritengo l’opera di Gramsci uno straordinario strumento per leggere alcune contraddizioni caratteristiche della società in cui viviamo. Certe dinamiche sociali e storiche tendono a ripresentarsi ciclicamente, con forme, modalità, spinte profondamente diverse, tuttavia, in filigrana è possibile leggere impressionanti elementi in comune. Quanto affermato sopra vale soprattutto per l’analisi di Gramsci sulla «crisi organica» della società capitalistica prima e dopo la guerra mondiale, una crisi non solo economica ma di civiltà, e la conseguente involuzione autoritaria del quadro politico-sociale. Un tema al quale Gramsci ha dedicato tutta la sua esistenza, dagli scritti giovanili alle ultime pagine di Lettere e Quaderni. Oggi ci troviamo esattamente in una condizione di «crisi organica» mondiale che investe sia le modalità di produzione, accumulazione e redistribuzione, sia i modelli politici e sociali fin qui prevalenti.

* * *

La prima guerra mondiale provocò nella società europea una profonda crisi economica, politica e culturale. La guerra era stata invocata come progresso e igiene dell’umanità ma, dopo la sbornia di retorica patriottica e militare, quel che restava era un quadro sociale profondamente disgregato segnato da alcuni fattori destinati a deflagrare tra loro: l’inefficacia e l’instabilità del sistema liberale, l’impoverimento e il ridimensionamento dei ceti medi, l’irrompere sulla scena delle grandi masse popolari mobilitate durante il conflitto. La situazione attuale ha come elemento profondo di diversità la passività o comunque la grande disgregazione delle masse popolari, tuttavia, se allora la crisi fu originata dalla disillusione per i miraggi del bottino bellico, oggi possiamo dire che essa scaturisce dal fallimento delle mirabili promesse della globalizzazione liberista. Con la fine della guerra fredda (la cosiddetta «fine della storia»), secondo gli apologeti delle leggi di mercato, grazie alla concorrenza e l’uniformarsi del mondo a un solo modello di sviluppo, si sarebbe dovuta aprire una fase nuova di prosperità e pace: più lavoro, opportunità e ricchezza per tutti.
Sia dopo la prima guerra mondiale, sia in questa crisi, a fronte del concentrarsi di ricchezze enormi sulle categorie sociali elevate, abbiamo un impoverimento generale della società che raggiunge le sue forme più fragorose nei ceti medi irrequieti. Allora si parlò di proletarizzazione dei ceti medi, oggi magari si usano altre terminologie ma la sostanza delle cose non muta troppo.
Peraltro, oggi come allora, proprio i ceti medi hanno vissuto il proprio declassamento come un tradimento. Se il principale megafono dell’«ideologia astratta e ampollosa della guerra» fu proprio la piccola e media borghesia, dagli anni Ottanta in poi la principale base sociale delle politiche liberiste si ritrova (in Europa come negli USA) tra i ceti medi. Pensiamo al caso italiano, dalla Marcia dei Quarantamila fino all’avvento del berlusconismo. Proprio come nel dopoguerra, la classe più mobilitata nella rincorsa della nuova frontiera è uscita dalla “trincea” con le ossa rotte e un ruolo politico, economico e sociale ridimensionato. In linea generale, secondo Gramsci, nelle fasi di «crisi organica» si hanno insieme un declassamento e una radicalizzazione dei ceti medi, per questo i rischi maggiori di «sovversivismo reazionario» vengono proprio dalle convulsioni di questa classe sociale.
Tutto questo fu descritto con grande capacità di sintesi nell’articolo Il popolo delle scimmie, pubblicato su «L’Ordine Nuovo», il 2 gennaio 1921, nel quale Gramsci descrive la parabola della piccola borghesia italiana: dall’avvento della “sinistra” al potere sino alla nascita del movimento fascista. Con lo sviluppo del capitalismo finanziario la piccola borghesia perde una sua funzione nella produzione divenendo «pura classe politica» che per Gramsci si specializza nel «cretinismo parlamentare». È questo un fenomeno che assume fisionomie diverse e che si esprime attraverso i governi della sinistra, il giolittismo, il riformismo socialista. A questa degenerazione della piccola borghesia corrisponde la degenerazione del Parlamento che diviene «bottega di chiacchiere e scandali, diviene un mezzo al parassitismo», un Parlamento corrotto fino al midollo che perde progressivamente prestigio presso le masse popolari. La sfiducia verso l’istituzione parlamentare porta le stesse masse popolari ad individuare nell’azione diretta dell’opposizione sociale l’unico strumento di controllo e pressione, l’unico modo per far valere la propria sovranità contro gli arbitri del potere. In tal senso Gramsci interpreta la settimana rossa del giugno 1914. Attraverso l’interventismo, l’avventurismo di D’Annunzio e il fascismo, la piccola borghesia «scimmieggia la classe operaia e scende in piazza».
La decadenza del Parlamento è massima nel corso della guerra e la piccola borghesia cerca di consolidare la sua nuova posizione barricadera attraverso un miscuglio ideologico di imperialismo nazionalista e sindacalismo rivoluzionario. Nella sua carica antiparlamentare secondo Gramsci la piccola borghesia cerca di organizzarsi attorno a padroni più ricchi, trova un punto di sostegno tra gli agrari e gli industriali. Così anche se l’avventura fiumana si pone come il «motivo sentimentale» di questa intensa iniziativa, il centro vero dell’organizzazione risiede nella difesa della proprietà industriale e agraria, contro le rivendicazioni delle classi subalterne e la loro crescente efficacia organizzativa. A sua volta la classe proprietaria commette l’errore di credere che si possa difendere meglio dagli assalti del movimento operaio e contadino abbandonando gli istituti del suo Stato e seguendo «i capi isterici della piccola borghesia».
Quando si verifica una condizione di «crisi organica», i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali non riconoscendo più nei propri gruppi dirigenti l’espressione politica dei propri interessi di classe. In situazioni di tale tipo si moltiplicano le possibili soluzioni di forza, i rischi di sovversivismo reazionario, le operazioni oscure sotto la guida di capi carismatici. Il determinarsi di questa frattura tra rappresentati e rappresentanti porta per riflesso al rafforzamento di tutte quegli organismi relativamente indipendenti dalle oscillazioni dell’opinione pubblica come la burocrazia militare e civile, l’alta finanza, la chiesa. Dietro alla crisi di egemonia del regime liberale in Italia c’era l’inutile sforzo per la guerra, con il suo carico di promesse millantate non mantenute, l’irrompere di soggetti sociali prima passivi.

E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente, che avviene o perché la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica per cui ha domandato o imposto con la forza il consenso delle grandi masse (come la guerra) o perché vaste masse (specialmente di contadini e piccoli borghesi intellettuali) sono passati di colpo dalla passività politica a una certa attività e pongono rivendicazioni che nel loro complesso disorganico costituiscono una rivoluzione. Si parla di «crisi di autorità» e ciò è appunto la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso .

In una fase di crisi organica sono le classi subalterne a correre i maggiori rischi, poiché le classi dirigenti tradizionali dispongono di quadri e personale dirigente più addestrato, esse sono capaci di modificare uomini e programmi riacquistando il pieno controllo di una realtà che gli andava sfuggendo, mantenendo il potere e utilizzandolo per rafforzare la propria posizione. Si ha così il passaggio della massa di manovra dei diversi partiti in un unico partito che riassume gli interessi dell’intera classe centralizzandone la direzione, ritenuta la sola capace di superare il pericolo mortale insito nella crisi. Sempre tenuto conto del riferimento italiano, sembra chiaro per Gramsci che l’avvento del fascismo avesse tra le sue cause sia i limiti del movimento socialista sia quelli delle classi dirigenti tradizionali.

Quando la crisi non trova questa soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere i più disparati, ma in cui prevale l’immaturità delle forze progressive) che nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone.

Oggi, una delle principali professione di fede di movimenti come i “forconi” è la loro contrapposizione alla politica in quanto tale e un odio viscerale vero i partiti, qua non mi interessa discutere su quanto siano profonde e giustificate le ragioni di questo atteggiamento, bensì riflettere sulla sua tipicità e tendenziale emersione nelle fasi di crisi. Gramsci rilevò tra i «caratteri del popolo italiano» un certo inidividualismo apoliticista, in ragione del quale ai partiti politici e al sindacato si preferiscono altre forme organizzate, le cricche, più di carattere malavitoso o camorristico che politico. Ogni livello di civiltà ha un suo tipo di individualismo, e questo corrispondeva alla fase nelle quale i bisogni economici non potevano trovare soddisfazione regolare e permanente a causa della miseria e della disoccupazione. Le origini di tale condizione erano profonde e le responsabilità stavano in capo alla classe dirigente nazionale.
All’apoliticismo delle masse popolari corrisponde una sorta di corporativismo settario negli strati superiori e dominanti, legato però non all’intransigenza su principi e valori (quindi non un settarismo giacobino alla francese o alla russa), bensì a meri interessi economici, allo spirito di consorteria. Espressione politica di questo «carattere del popolo italiano» è il «pressappoco» nella fisionomia dei programmi, delle ideologie, dei partiti. La natura di questo carattere spiega per Gramsci la deteriorità dei partiti politici italiani, sorti tutti non come frazione organica o avanguardie delle classi popolari ma sul terreno elettorale. Quei partiti furono «un insieme di piccoli intellettuali di provincia che rappresentavano una selezione alla rovescia», dato il livello di miseria del paese queste organizzazioni erano attrattive soprattutto per le possibilità economiche che sapevano offrire. Anche in questo caso non occorre troppa fantasia per trovare punti di congiunzione fortissimi con la situazione che abbiamo sotto gli occhi. Per far parte di un determinato partito bastava l’approssimazione del «pressappoco», «bastavano poche idee vaghe, imprecise, indeterminate, sfumate: ogni selezione era impossibile, ogni meccanismo di selezione mancava e le masse dovevano seguire questi partiti perché altri non ne esistevano». La passività e l’apoliticismo delle grandi masse, che facilitano il reclutamento di volontari, rendendole massa di manovra; la composizione sociale italiana, nella quale esisteva una presenza sproporzionata e «malsana» di borghesia rurale improduttiva, di piccola e media borghesia al cui interno si formano intellettuali irrequieti facilmente suggestionabili da qualsiasi iniziativa «anche la più bizzarra che sia vagamente sovversiva», dunque «volontari»; la grande presenza di sottoproletariato urbano e bracciantato agricolo. Tra gli elementi che hanno concorso alla popolarità di D’Annunzio e del fascismo Gramsci elenca: anzitutto, l’apoliticità del popolo italiano e soprattutto della piccola borghesia, una apoliticità, definita irrequieta e riottosa, facilmente seducibile da parte di qualsiasi avventura e avventuriero, specie se a essa le forze dell’ordine costituito si oppongono solo debolmente e senza metodo; l’assenza di una tradizione dominante e forte, riconducibile un partito di massa, capace di orientare le passioni popolari con direttive storico politiche, vale a dire l’assenza di un vero e proprio partito di massa della borghesia; il contesto successivo alla guerra, dove tutti questi fattori di apoliticità riottosa si moltiplicano. Quattro anni di guerra hanno disancorato da qualsiasi disciplina statale gli elementi più irrequieti della piccola borghesia rendendoli, ancora di più, «moralmente e socialmente vagabondi»; «quistioni sessuali, che dopo quattro anni di guerra si capisce essersi riscaldate enormemente».
Oggi ci troviamo in una situazione per molti versi simile, sicuramente diversa, non comprimibile nelle braghe dell’analogia storica, tuttavia, proprio dai drammi passati deve scaturire per le forze politiche della sinistra la consapevolezza che nulla va sottovalutato. Le crisi organiche sono dominate dalle «rivoluzioni passive», vale a dire, fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le “riforme” vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Il fascismo è uno degli esempi più emblematici di ciò, ma non il solo.
Siamo di fronte ad un gigantesco tentativo di ristrutturazione internazionele dei rapporti sociali e di produzione da parte delle classi dominanti, la cui portata potrà essere valutata appieno solo tra venti o trenta anni. Le scorciatoie per raggiungere questo risultato sono sempre in agguato. Le forze favorevoli alle svolte reazionarie tendono a utilizzare le categorie sociali irrequiete, come massa di manovra, e sovente si servono di movimenti più ambigui e bizzarri:

È questo un modo di procedere molto utile per facilitare le «operazioni» di quelle «forze occulte» o «irresponsabili» che hanno per portavoce i «giornali indipendenti»: esse hanno bisogno ogni tanto di creare movimenti occasionali di opinione pubblica, da mantenere accesi fino al raggiungimento di determinati scopi e da lasciar poi illanguidire e morire .

Riflettere e provare a mettere in relazione i tanti segnali contraddittori della situazione attuale non è per niente facile, ma penso sia un dovere impossibile da aggirare, salvo pentirsene amaramente in seguito per non averlo fatto.

Gramsci, dal congresso di Lione ai Quaderni: il partito e l’analisi della società italiana.

Gianni Fresu
Gramsci, dal congresso di Lione ai Quaderni: il partito e l’analisi della società italiana.

Convegno di studi
(1921- 2011) Nodi strategici, continuità e svolte nella storia del PCI
Roma, “La Sapienza”, Facoltà di lettere, 18-19 febbraio 2011.
(Atti in corso di pubblicazione)

Le Tesi di Lione sono state definite l’asse fondamentale di svolta nella storia dei comunisti in Italia, sia in rapporto alla concezione del partito, sia per l’analisi della società. In entrambi i casi si giunge al superamento completo delle Tesi elaborate per il Congresso di Roma, dopo il profondo mutamento nella direzione politica del Partito sotto la guida di Antonio Gramsci.
Prima, durante e dopo il Congresso si confrontarono e scontrarono due idee radicalmente opposte del partito, sinteticamente così riassumibili: su un versante, la visione del parito inteso come parte della classe, vale a dire, un’organizzazione articolata in cellule di fabbrica e innervata dalla formazione permanente di tutti i suoi quadri, che punta a realizzare una direzione/elaborazione diffusa delle stesse classi subalterne; sull’altro versante, il partito inteso come organo esterno alla classe, ossia, un’organizzazione ristretta di dirigenti rivoluzionari, temprati e incorruttibili, in grado di leggere nel quadro economico e sociale le contraddizioni fondamentali da cui far scaturire, al momento opportuno, le cause della detonazione rivoluzionaria .
Nel primo caso abbiamo l’idea di un partito con l’ambizione di aderire organicamente alla struttura produttiva – alla cui base sta una concezione molecolare della rivoluzione, metodologicamente avversa all’idea di una non ben identificata “ora X” – e intende articolare plasticamente la sua attività nell’azione quotidiana dei lavoratori. Nel secondo, un’elaborazione che ritiene lotta economica, per il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro, e quella politica per la conquista quotidiana di posizioni di forza nella società, veicoli di mentalità corporativa e di corruzione della purezza rivoluzionaria. Per tale impostazione la connessione tra partito e masse doveva avvenire solo nel momento topico del conflitto di classe.
Il periodo dall’estate del 1925 al Congresso del gennaio 1926 è cruciale per l’evoluzione del pensiero di Gramsci, in relazione al partito, al suo rapporto con le masse, alla funzione svolta in esso dagli intellettuali; un periodo nel quale giungono a completa maturazione le esperienze di direzione e orientamento politico compiute a partire dal 1923. Una fase nella quale la sua analisi si sviluppa fino a indagare in profondità il ruolo svolto nella società italiana dagli intellettuali, quale tessuto connettivo degli assetti sociali dominanti. Già in queste analisi è presente quella ridefinizione del concetto di Stato e di dominio anticipatrice della categoria egemonica. Le riflessioni di Gramsci in questa fase, sono la base essenziale della teoria sugli intellettuali sviluppata poi all’interno della Questione meridionale e delle riflessioni del carcere. Al contempo, essa è il punto d’arrivo di quella precedente e, nel complesso, affonda potentemente le sue radici nell’esperienza «ordinovista».
La piattaforma congressuale della sinistra fu pubblicata sull’«Unità» del 7 luglio del 1925, essa ribadiva su tre assi fondamentali le posizioni già più volte espresse dal suo leader Amadeo Bordiga : 1) il partito andava inteso come organo della classe che sintetizza ed unifica le spinte individuali, in modo da andare oltre il particolarismo di categoria e raccogliere gli elementi provenienti dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori delle classi borghesi; 2) veniva respinta la “bolscevizzazione” – avanzata al V Congresso e riproposta dal «gruppo di centro» guidato da Gramsci – vale a dire la ripartizione organizzativa del partito in cellule su base di fabbrica. 3) veniva stigmatizzata la lotta alle frazioni avviata dal Comintern.
Tale impostazione trovò espressione compiuta nel progetto di Tesi per il Congresso. Secondo Bordiga, era impossibile mutare la sostanza delle situazioni oggettive, riconducibili al quadro più generale dei rapporti sociali di produzione, attraverso una determinata forma organizzativa. Un’organizzazione «immediata di tutti i lavoratori in quanto economicamente tali» sarebbe risultata costantemente dominata dagli impulsi delle diverse categorie professionali a soddisfare i propri interessi economici particolari determinati dallo sfruttamento capitalistico. Da ciò la profonda diffidenza, manifestata già ai tempi della stagione consiliare , verso l’impegno del partito nelle vertenze dei lavoratori. Nello stesso numero del 7 luglio dell’«Unità», Gramsci s’incaricò di stendere una replica estremamente importante. In essa, già si può cogliere appieno la continuità con l’elaborazione degli anni dell’«Ordine Nuovo», sul tema dell’autonomia dei produttori, e trova un primo abbozzo l’idea dell’intellettuale come prodotto autonomo della classe, l’affermazione secondo cui ogni lavoratore entrando nel partito comunista ne diviene un dirigente e dunque un’intellettuale. Il «Comitato d’intesa» concepiva il partito come sintesi di elementi individuali e non come un movimento di massa e di classe, in ciò andava rintracciata la radice della teoria del partito di Bordiga:

In questa concezione c’é una tinta di forte pessimismo verso la capacità degli operai come tali, solo gli intellettuali possono essere uomini politici. Gli operai sono operai e non possono che rimanere tali fino a quando il capitalismo li opprime: sotto l’oppressione capitalistica l’operaio non può svilupparsi completamente, non può uscire dallo spirito angusto di categoria. Che cos’é allora il partito? È solo il ristretto gruppo dei suoi dirigenti che riflettono e sintetizzano gli interessi e le aspirazioni generiche della massa, anche nel partito. La dottrina leninista afferma e dimostra che questa concezione è falsa ed è estremamente pericolosa; essa ha, tra l’altro, portato al fenomeno del mandarinismo sindacale. (…) Gli operai entrano nel partito comunista non soltanto come operai (metallurgici, falegnami, edili, ecc.), ma entrano come operai comunisti, come uomini politici cioè, come teorici del socialismo, quindi, e non solo come ribelli in generale; e col partito, attraverso le discussioni, attraverso le letture e le scuole di partito, si sviluppano continuamente, diventano dirigenti. Solo nel sindacato l’operaio entra nella sua qualità di operaio e non di uomo politico che segue una determinata teoria .

Secondo Gramsci la concezione del partito di Bordiga era ferma alla prima fase dello sviluppo capitalistico, ancora nel 1848 si sarebbe potuto affermare che «il partito è l’organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppo provocati dalla lotta di classe», ma nella fase del maggior sviluppo capitalistico, l’imperialismo, il proletariato era profondamente rivoluzionario, assolveva già una funzione dirigente nella società. Sempre in questo periodo Gramsci scrisse un’Introduzione al primo corso della scuola interna di partito. In essa l’obbiettivo di rinforzare ideologicamente e politicamente i quadri e i militanti, era posto come obbiettivo primario di un partito che intendesse diventare di massa. La formazione era il modo per rendere l’operaio comunista un dirigente e non lasciare la lotta ideologica nelle mani esclusive degli intellettuali borghesi:

L’attività teorica, la lotta cioè sul fronte ideologico, è sempre stata trascurata nel movimento operaio italiano. In Italia il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari”. Servì da prezzemolo a tutte le salse più indigeste che i più imprudenti avventurieri della penna abbiano voluto mettere in vendita. È stato marxista in tal modo Enrico Ferri, Guglielmo Ferrero, Achille Loria, Paolo Orano, Benito Mussolini… .

In questa introduzione Gramsci contestò esplicitamente, la concezione del partito così come esposta nelle Tesi sulla tattica del Congresso di Roma:

[in esse] La centralizzazione e l’unità erano concepite in modo troppo meccanico: il Comitato centrale, anzi il Comitato esecutivo era tutto il partito, invece di rappresentarlo e dirigerlo. Se questa concezione venisse permanentemente applicata, il partito perderebbe i suoi caratteri politici e distintivi e diventerebbe, nel migliore dei casi, un esercito (e un esercito di tipo borghese), perderebbe cioè la sua forza d’attrazione, si staccherebbe dalle masse. Perché il partito viva e sia a contatto con le masse occorre che ogni membro del partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. (…) La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria .

Il compito di costituire le cellule di fabbrica era per Gramsci un’occasione di autoeducazione della classe operaia; le cellule, da semplice strumento organizzativo, si trasformano in organo principe nella formazione degli intellettuali «organici» della classe operaia, possono contribuire alla determinazione dell’autonomia della classe operaia dall’apporto esterno borghese: «La cellula trasforma ogni membro del partito in un militante attivo assegnando ad ognuno un lavoro pratico e sistematico. Attraverso questo lavoro si crea una nuova classe di dirigenti proletari, legati alla fabbrica, controllati dai compagni di lavoro, in modo cioè da non potersi trasformare in funzionari e mandarini, fenomeno che si verifica in larga parte in tutti i partiti che hanno conservato la vecchia struttura dei partiti socialisti» .
Nella sua relazione alla riunione della Commissione politica per il Congresso Gramsci provò a riassumere i punti di dissenso tra «la centrale del partito» e l’estrema sinistra» in tre livelli di rapporti: tra gruppo dirigente del partito e l’insieme degli iscritti; tra gruppo dirigente e classe operaia; tra classe operaia e resto delle classi subalterne:

La nostra posizione [scrive Gramsci] deriva da ciò che noi riteniamo si debba porre nel massimo rilievo il fatto che il partito è unito alla classe non solo da legami ideologici ma anche da legami di carattere fisico. (…) Secondo la estrema sinistra il processo di formazione del partito è un processo sintetico; per noi è un processo di carattere storico e politico, legato strettamente a tutto lo sviluppo della società capitalistica. La diversa concezione porta a determinare in un modo diverso la funzione e i compiti del partito. Tutto il lavoro che il partito deve compiere per elevare il livello politico delle masse, per convincerle e portarle sul terreno della lotta di classe rivoluzionaria viene, in conseguenza della errata concezione della estrema sinistra, svalutato e ostacolato, per via del distacco iniziale che si è creato tra il partito e la classe operaia .

La questione teorica dell’organizzazione per cellule, poneva in rilievo la necessità di «legami fisici» tra partito e classe nel suo complesso, mentre, nell’affermare la necessità di una «tutela» direttiva da parte del gruppo dirigente «specializzato», Bordiga poneva quale problema assoluto il rischio di corporativismo tra gli operai. Ciò, per Gramsci, lasciava trasparire una concezione paternalistica che svalutava fortemente la capacità di direzione della classe operaia, fino a ridurla a soggetto minorenne incapace di autodeterminazione politica.
Già nel corso del dibattito pre-congressuale, e in misura ancora maggiore al Congresso di Lione, Gramsci poneva la teoria sul partito della sinistra in continuità con tutta la storia degli intellettuali in Italia, con la filosofia crociana e le tradizioni elitarie ed oligarchiche della filosofia politica idealista e liberale. Un concetto poi ripreso nei Quaderni dove Gramsci mise sullo stesso piano l’atteggiamento intellettualistico, da «intellettuale puro», di Bordiga con quello di Croce.

Ciò che importa al Croce è che gli intellettuali non si abbassino al livello della massa, ma capiscano che altro è l’ideologia, strumento pratico per governare, e altro la filosofia e la religione che non deve essere prostituita nella coscienza degli stessi sacerdoti. Gli intellettuali devono essere governanti e non governati, costruttori di ideologie per governare gli altri e non ciarlatani che si lasciano avvelenare e mordere dalle proprie vipere. (…) La posizione di «puro intellettuale» diventa un vero e proprio «giacobinismo» deteriore e in tal senso, mutate le stature intellettuali, Amedeo può essere avvicinato al Croce .

Trattando il tema del rapporto tra la classe operaia e il resto degli sfruttati, e rendendolo pilastro delle tesi congressuali, Gramsci colse appieno il valore strategico attribuito da Lenin alla questione contadina e alla politica delle alleanze . Preparare a fondo la rivoluzione, «conquistare le grandi masse», «avere la simpatia delle masse», era per Lenin necessario se si aveva l’aspirazione non solo di iniziare una rivoluzione ma soprattutto vincerla e conservare il potere: «attrarre a noi non solo la maggioranza della classe operaia, ma anche la maggioranza della popolazione lavoratrice e sfruttata della campagna» . Un tema centrale, in un paese come l’Italia dove il proletariato era una minoranza senza carattere nazionale.
Più precisamente, Gramsci cercò di contestualizzare all’Italia il grande tema dibattuto tra il III e il IV Congresso dell’Internazionale comunista. In essi, preso atto delle difficoltà internazionali, e della complessità dei processi rivoluzionari in Occidente, Lenin e l’Esecutivo del Comintern lanciarono la parola d’ordine della conquista della maggioranza delle classi subalterne e dell’unità della classe operaia tramite la tattica del «fronte unico», essenziale per la definizione della categoria dell’«egemonia» in Gramsci .
Già nel Congresso di Lione si pongono tre ordini di problemi che finiranno per costituire la spina dorsale dello scritto su La questione meridionale: la questione meridionale intesa come questione contadina; il tema del partito politico della classe contadina; La funzione reazionaria svolta dal Vaticano.
L’atteggiamento verso il fascismo delle Tesi di Roma, e più in generale l’impostazione teorica di Bordiga, la sua tendenza a svalutare le differenze tra quadro democratico e reazionario, erano Gramsci esempi lampanti di un modo errato di concepire la tattica. Come già accennato in apertura, le Tesi di Lione segnano una completa svolta anche sul piano dell’analisi relativa alla società italiana, anticipando molteplici aspetti dell’elaborazione carceraria di Gramsci. Nel periodo di crisi successivo al delitto Matteotti non sarebbe stato sufficiente condurre una campagna di critica ideologica al regime e alle opposizioni, limitarsi a una propaganda capace solo di trattare allo stesso modo i due soggetti, era necessario incalzare le opposizioni ponendole sul terreno del rovesciamento del fascismo, come premessa preliminare a qualsiasi altra azione di comunisti.

È assurdo affermare che non esiste differenza tra una situazione democratica e una situazione reazionaria, e che, in una situazione democratica sia più disagevole il lavoro per la conquista delle masse. La verità è che oggi in una situazione reazionaria si lotta per organizzare il partito, mentre in una situazione democratica si lotterebbe per organizzare la insurrezione .

Quando il fascismo stava sorgendo e sviluppandosi il PCd’I si era limitato a considerarlo un organo di combattimento della borghesia e non anche un movimento sociale, questo non mise il partito nelle condizioni di arginarne l’avanzata e di opporsi alla sua ascesa al potere con un’azione politica appropriata; anzi lo spinse a lavorare contro gli «arditi del popolo», un movimento di massa dal basso che il partito avrebbe dovuto contribuire a sviluppare e dirigere.
Anche l’obiettivo della sconfitta del fascismo andava posto in relazione al problema dell’egemonia della classe operaia verso le masse contadine:

La situazione italiana è caratterizzata dal fatto che la borghesia è organicamente più debole che in altri paesi e si mantiene al potere solo in quanto riesce a controllare e dominare i contadini. Il proletariato deve lottare per strappare i contadini alla influenza della borghesia e porli sotto la sua guida politica. Questo è il punto centrale dei problemi politici che il partito dovrà risolvere nel prossimo avvenire .

L’elemento predominante della società italiana era una particolare forma di capitalismo nel quale convivevano un industrialismo ancora debole e incapace di assorbire la maggioranza della popolazione e un’agricoltura, ancora base economica del paese, segnata dalla netta prevalenza di ceti poveri (bracciantato agricolo) molto prossimi alle condizioni del proletariato e perciò potenzialmente sensibili alla sua influenza.
Tra le due classi dominanti – industriali e agrari – si poneva quale elemento di raccordo una media e piccola borghesia urbana abbastanza estesa. La debolezza del modo di produzione in Italia – privo di materie prime – spingeva gli industriali a varie forme di compromesso economico con i grandi latifondisti agrari, basate su «una solidarietà d’interessi» tra ceti di privilegiati a detrimento delle esigenze produttive generali. Anche il processo risorgimentale fu espressione di questa debolezza, perché la costruzione dello Stato nazionale si realizzò grazie allo sfruttamento di particolari fattori di politica internazionale e il suo consolidamento rese necessario quel compromesso sociale che ha reso inoperante in Italia la lotta economica tra industriali e agrari, la rotazione di gruppi dirigenti, tipici di altri paesi capitalistici. Questo compromesso a tutela di uno sfruttamento parassitario delle classi dominanti ha determinato una polarizzazione tra l’accumulo di immense ricchezze in ristretti gruppi sociali e la povertà estrema del resto della popolazione, ha comportato il deficit del bilancio, l’arresto dello sviluppo economico in intere aree del Paese, ha ostacolato una modernizzazione del sistema economico nazionale armonica e calibrata con le caratteristiche della nazione.
Anche i rovesci nella prima parte della guerra mondiale e lo stesso avvento del fascismo sono analizzati nelle Tesi alla luce di questa debolezza originaria dell’Italia, anticipando un canone interpretativo centrale nelle riflessioni sul Risorgimento dei Quaderni. Il compromesso tra industriali e agrari attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord industrializzato era come la metropoli capitalistica per la colonia; le classi dirigenti del Sud (grandi proprietari e media borghesia) svolgevano la stesa funzione delle categorie sociali delle colonie alleate con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al proprio sfruttamento. Tuttavia, nella prospettiva storica, questo sistema di compromesso si rivelò inefficace perché si risolveva in un ostacolo allo sviluppo dell’economia industriale e di quell’agraria. Ciò ha determinato in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato sulle masse.
Il periodo di maggior debolezza dello Stato italiano si era determinato per Gramsci nel decennio 1870-1890, soprattutto per l’azione svolta dal Vaticano di catalizzatore del blocco reazionario antistatale costituito dai residui di aristocrazia, dagli agrari, dalle popolazioni rurali dirette dai proprietari terrieri e dalle parrocchie. Il Vaticano aveva manifestato di voler operare su due fronti: da un lato esplicitamente contro lo Stato borghese unitario e liberale; dall’altra, nel tentativo di costituire, attraverso i contadini, una sorta di esercito di riserva per sbarrare la strada all’avanzamento del movimento operaio socialista.
L’equilibrio instabile del nuovo Stato, la distanza tra istituzioni e popolo, è uno dei temi fondamentali di indagine dei Quaderni del carcere. Basti pensare, ad esempio, alle note in cui Gramsci si sofferma sulla formula retorica (escogitata dai clericali) che tendeva a contrapporre un’Italia reale, composta dalla maggioranza cattolica avversa al nuovo Stato unitario, a un’Italia legale costituita da una minoranza di esaltati patrioti votati alla causa nazionale e all’idea liberale. Per quanto la formula fosse comparsa in un contesto politico editoriale da «insulso libello da sacrestia», essa era per Gramsci assai efficace dal punto di vista polemico perché indicava bene la separazione esistente tra il nuovo Stato e la società civile. Ovviamente, la società civile non poteva certo essere tutta compresa nel fronte clericale, poiché appariva largamente disomogenea e informe. E proprio per la sua natura disgregata, lo Stato non ebbe difficoltà a dominarla superando le contraddizioni e i conflitti che esplodevano in maniera episodica e localistica, al di fuori di ogni coordinamento sul piano nazionale e tendente a un fine determinato.
Dunque, al di là di una situazione oggettiva di separatezza tra Stato e società, lo stesso clericalismo non poteva considerarsi espressione reale della società civile, sulla quale mostrava difficoltà a esercitare una reale direzione efficace. La Chiesa, in realtà, temeva quelle stesse masse popolari, che pure controllava, perché intravvedeva la possibilità di una loro sollevazione. Anche la formula del «non expedit» era per Gramsci il segno di questa paura e incapacità politica: l’atteggiamento di boicottaggio del nuovo Stato che esso prefigurava risultava alla fine oggettivamente sovversivo. Questo spiega perché, con la crisi di fine secolo e i fatti del 1898, la reazione dello Stato si fosse abbattuta sia verso i primi vagiti di organizzazione socialista, sia verso quella clericale. L’abbandono della politica espressa dalla formula «né elettori, né eletti» da parte del Vaticano, che avrebbe portato prima al Patto Gentiloni e poi alla nascita del Partito popolare ebbe origine dalla constatazione di quel fallimento.
Una vera scissione tra paese reale e paese legale si ha per Gramsci nei fatti che lacerano il paese dall’inizio della crisi Matteotti fino al varo delle leggi fascistissime, quando la scissione tra paese reale e paese legale viene superata attraverso la soppressione dei partiti politici, delle libertà individuali e collettive, e l’inquadramento militare della società civile in un’unica organizzazione politica che faceva coincidere Stato e partito.
Il periodo che va dal 1890 al 1900 è il primo nel quale la borghesia si pone concretamente il problema di organizzare la propria dittatura. È un periodo contrassegnato da una serie di interventi politici e legislativi della svolta protezionista – a favore della grande produzione industriale (in particolare l’industria meccanica) e dell’agricoltura latifondista (grano, riso, mais) – che porta alla denuncia dei trattati commerciali con la Francia, all’ingresso dell’Italia nell’orbita della triplice alleanza a guida tedesca. In questa fase si salda ulteriormente l’asse tra industriali e proprietari terrieri strappando i ceti rurali al controllo del Vaticano in chiave antiunitaria.
Al saldarsi del blocco industriali-agrari corrispondono però i progressi delle organizzazioni operaie e la ribellione delle masse contadine. Nella definizione del fascismo le Tesi raggiungono il loro livello più elevato di analisi e concettualizzazione, introducendo un nuovo modello interpretativo del fenomeno destinato a fare scuola in sede storiografica e non solo all’interno del campo marxista.
Il fascismo rientrava appieno nel quadro tradizionale delle classi dirigenti italiane, esso assumeva la forma della reazione armata con il preciso scopo di scompaginare le fila nelle organizzazioni delle classi subalterne e per questa via garantire la supremazia dei ceti dominanti. Per questa ragione esso al suo comparire è favorito e protetto indistintamente da tutti i vecchi gruppi dirigenti, anche tra di essi sono soprattutto gli agrari a finanziare e lanciare le squadre fasciste contro il movimento dei contadini. La base sociale del fascismo però è composta dalla piccola borghesia urbana e dalla nuova borghesia agraria.
Il fascismo trova una unità ideologica e organizzativa nelle formazioni paramilitari che ereditano la tradizione dell’arditismo e la applicano alla guerriglia contro le organizzazioni dei lavoratori. Per le Tesi, il fascismo attua il suo piano di conquista dello Stato con una «mentalità di capitalismo nascente» in grado di fornire alla piccola borghesia un’omogeneità ideologica in contrapposizione con i vecchi gruppi dirigenti.

Nella sostanza il fascismo modifica il programma della conservazione e di reazione che ha sempre dominato la politica italiana soltanto per un diverso modo di concepire il processo di unificazione delle forze reazionarie. Alla tattica degli accordi e dei compromessi esso sostituisce il proposito di realizzare una unità organica di tutte le forze della borghesia in un solo organismo politico sotto il controllo di una unica centrale che dovrebbe dirigere insieme il partito, il governo e lo Stato. Questo proposito corrisponde alla volontà di resistere a fondo ad ogni attacco rivoluzionario, il che permette al fascismo di raccogliere le adesioni della parte più decisamente reazionaria della borghesia industriale e degli agrari .

Tuttavia, il metodo fascista di difesa dell’ordine, della proprietà e dello Stato non riesce a realizzare, immediatamente e totalmente, questo livello di centralizzazione della borghesia con la presa del potere. Anzi la traduzione politica ed economica dei suoi propositi produce varie forme di resistenza all’interno delle stesse classi dirigenti. I due tradizionali orientamenti della borghesia liberale italiana, quello riconducibile al giolittismo e quello riconducibile al «Corriere della Sera», non vengono subito assorbiti o piegati dalla presa del potere di Mussolini. In tal senso si spiega la lotta contro i gruppi superstiti della borghesia liberale e contro la massoneria, vale a dire contro il suo principale centro di attrazione e organizzazione in sostegno dello Stato.
Sul piano economico il fascismo agisce a totale vantaggio delle grandi oligarchie industriali ed agrarie disattendendo le aspirazioni della sua stessa base sociale, la piccola borghesia, che dall’avvento del fascismo sperava di trarre un avanzamento nelle condizioni sociali ed economiche. Ciò avviene sul piano delle politiche commerciali, con l’inasprimento del protezionismo doganale, su quello finanziario, con la centralizzazione del sistema del credito a beneficio della grande industria, così come sul versante della produzione, con un aumento delle ore di lavoro e la diminuzione delle retribuzioni. Ma il vero punto di approdo del fascismo si ha nella politica estera e nelle aspirazioni imperialistiche, rispetto alle quali le Tesi avanzano un’idea che si concretizzerà quattordici anni appresso.

Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell’azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all’imperialismo. Questa tendenza è l’espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l’espansione italiana ma nella quale in realtà l’Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialistici che si contendono il dominio de mondo .

Le Tesi di Lione rappresentano la consacrazione del «nuovo corso» nel PCI e in esso del gruppo dirigente guidato da Gramsci, nato attorno all’«Ordine Nuovo» nei tumultuosi anni del dopoguerra; in esse si ha la saldatura della nuova prospettiva politica con il percorso politico intellettuale del vecchio gruppo torinese. La svolta di Lione costituisce la premessa essenziale per comprendere il ruolo storico assunto dal PCI tanto nella Resistenza quanto nella fase successiva alla liberazione.
L’indicazione lanciata dai Congressi dell’Internazionale, costruire dei partiti di massa radicati nei luoghi di lavoro attraverso le cellule di fabbrica (la cosiddetta bolscevizzazione), è raccolta e sviluppata dal vecchio gruppo «ordinovista» attraverso la rielaborazione dei temi forti emersi nel «biennio rosso» dall’esperienza del movimento consiliare, alla quale del resto le Tesi fanno esplicito riferimento:

La pratica del movimento di fabbrica (1919-20) ha dimostrato che solo una organizzazione aderente al luogo e al sistema della produzione permette di stabilire un contatto tra gli strati superiori e inferiori della massa lavoratrice e di creare vincoli di solidarietà che tolgono le basi ad ogni fenomeno di aristocrazia operaia. La organizzazione per cellule porta alla formazione nel partito di uno strato assai vasto di elementi organizzativi (segretari di cellula, membri dei comitati di cellula, ecc.), i quali sono parte della massa e rimangono in essa pure esercitando funzioni direttive, a differenza dei segretari delle sezioni territoriali i quali erano di necessità elementi staccati dalla massa lavoratrice .

In questa definizione trovava piena e compiuta collocazione il tema del rapporto tra dirigenti e diretti, tra intellettuali e masse, secondo i termini classici dell’elaborazione gramsciana. Per Gramsci, nello scontro interno al partito, la distinzione tra i due diversi modi di intendere la rivoluzione era netta: da una parte le masse sono considerate massa di manovra, strumenti della rivoluzione; dall’altra le si intende soggetto protagonista e cosciente di essa. Nei Quaderni questo argomento è ampiamente svolto proprio a partire dalle considerazioni sul partito politico, lo strumento attraverso il quale il rapporto di rappresentanza dovrebbe superare la sua condizione di delega passiva caratteristica della società borghese. In realtà esso ha finito per convertirsi in luogo di occupazione e gestione oligarchica dei centri di potere e di perpetuazione esclusiva delle sue funzioni dirigenti. Per Gramsci il rapporto governanti governati è conseguente alla divisione del lavoro, alla distinzione tra funzioni intellettuali e manuali: «ogni uomo è un filosofo», è l’organizzazione tecnica a farne un diretto e non un dirigente, pertanto se lo scopo principale di un partito consiste nel formare dirigenti il suo dato di partenza deve risiedere nel non ritenere naturale e immodificabile quella distinzione. Il problema dell’assenza di un rapporto organico di rappresentanza in politica non riguardava dunque solo i partiti di élite della tradizione liberale, dove la funzione di direzione era esercitata unilateralmente da uomini di cultura, ma anche i cosiddetti partiti di massa del movimento operaio. Se le masse in un partito non hanno altra funzione al di là della fedeltà militare verso i gruppi dirigenti il rapporto dualistico è esattamente lo stesso: la massa è semplicemente di manovra e viene occupata con prediche morali, con pungoli messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate». Il supermento del «cadornismo» doveva pertanto avvenire attraverso il sostituirsi nella funzione direttiva di organismi politici collettivi e diffusi ai singoli individui, ai «capi carismatici», fino a sconvolgere i vecchi schemi «naturalistici» dell’arte politica. L’antidoto al «capo carismatico», tema questo di grandissima attualità, doveva essere l’intellettuale collettivo, il ruolo protagonistico e non delegato delle classi subalterne. Un partito serio, non l’espressione arbitraria di individualismi, deve essere portatore di qualcosa di simile allo spirito statale, un sentimento di appartenenza che lega il presente e il futuro con la tradizione e rende i suoi cittadini solidali con l’azione storica delle forze spirituali e materiali nazionali. Allo stesso modo deve esistere uno spirito di partito, un senso di responsabilità generale, da non confondere con la «boria di partito». Rispetto a tutti questi temi le Tesi di Lione rappresentanto uno spartiacque essenziale, sicuramente il punto più alto nel quale l’elaborazione teorica e la direzione politica di Gramsci trovano un punto d’intesa elevatissimo. Nella biografia di Gramsci sono un punto di continuità tra le battaglie pre 1926 e le riflessioni carcerarie, la testimonianza più vivida di quanto sia impossibile separare il Gramsci politico e militante dal “disinteressato” «uomo di cultura» tanto caro alle recenti vulgate di molti studiosi, forse eccessivamente disinvolti nel servirsi della sua biografia per perseguire fini ben diversi dalle sbandierate esigenze di ricerca scientifica.

G. Fresu, Nell’analisi di Gramsci la rivoluzione passiva di Benito Mussolini. 25 ottobre 2011, la Nuova Sardegna.

di Gianni Fresu

Nellanalisi di Gramsci la rivoluzione passiva di Benito MussoliniA Gramsci il fascismo appariva per sua natura in profonda contraddizione con i coevi tentativi di razionalizzazione fordista […]. «Lo Stato fascista – scriveva nei Quaderni – crea nuovi redditieri, cioè promuove le vecchie forme di accumulazione parassitaria del risparmio e tende a creare dei quadri chiusi sociali. In realtà finora l’indirizzo corporativo ha funzionato per sostenere posizioni pericolanti di classi medie, non per eliminare queste e sta sempre più diventando, per gli interessi costituiti che sorgono dalla vecchia base, una macchina di conservazione dell’esistente così come è e non una molla di propulsione. Perché? Perché l’indirizzo corporativo è anche in dipendenza della disoccupazione: difende agli occupati un certo minimo di vita che, se fosse libera la concorrenza, crollerebbe anch’esso, provocando gravi rivolgimenti sociali; e crea occupazioni di nuovo tipo, organizzativo e non produttivo, ai disoccupati delle classi medie».  Attraverso la trasformazione dello Stato e la creazione del corporativismo, il fascismo produceva trasformazioni nella struttura produttiva tendenti alla socializzazione e alla cooperazione nella produzione, senza intaccare però le modalità individuali e private di appropriazione dei profitti. In concreto questo significava che attraverso il fascismo si cercava uno sviluppo delle forze produttive industriali senza sottrarne la direzione alle classi tradizionali, per consentire al capitalismo italiano di uscire dalla sua crisi organica e competere con le potenze capitalistiche detentrici del monopolio delle materie prime e con capacità di accumulazione maggiore. Lo schema di questa rivoluzione passiva per Gramsci aveva ben poche possibilità di riuscita pratica, tuttavia dal punto di vista della mobilitazione e della capacità egemonica del regime, ciò era di importanza relativa: «Ciò che importa ideologicamente è che esso può avere realmente la virtù di prestarsi a creare un periodo di attesa e di speranze, specialmente in certi gruppi sociali italiani, come la massa dei piccolo-borghesi urbani e rurali, e quindi a mantenere il sistema egemonico e le forze di coercizione militare e civile a disposizione delle classi dirigenti tradizionali» (dai «Quaderni dal carcere»).  In coclusione, le riflessioni sul fascismo di Gramsci sfuggono a troppo rigide classificazioni storiografiche. Il materialismo storico è il dato di partenza, tuttavia, anche i termini soggettivi, compresa la crisi morale della borghesia – hanno un ruolo determinante e centrale. Anche Gramsci interpreta il fascismo come reazione a una fase di profondi rivolgimenti sociali legati alla prima guerra mondiale e soprattutto alla rivoluzione d’ottobre, tuttavia, non giunge mai a considerare la borghesia e il suo modo di produzione come un unico blocco omogeneo. Egli legge all’interno del blocco sociale dominante differenziazioni e contraddizioni palesatisi proprio in rapporto alla nascita e all’avvento del fascismo. Gramsci, come gran parte dei suoi coevi compagni di lotte, ha analizzato il tentativo di centralizzazione degli interessi borghesi dietro al fascismo, ma lo riteneva un fenomeno sociale sorto tra la piccola e media borghesia urbana, sviluppatosi grazie agli apporti degli agrari e quelli, non sempre lineari e armonici, del grande capitale industriale.  Infine, l’intellettuale sardo ha interpretato storicisticamente il fascismo in rapporto alla debolezza delle classi dirigenti e ai limiti nel processo di unificazione politica e modernizzazione economica dell’Italia, ma non lo ha mai inteso un esito inevitabile di quel processo. In tutto questo, un ruolo peculiare è attribuito al ruolo di alcune categorie ampiamente operative in quel dato frangente storico: il cesarismo, il bonapartismo, la fede verso le virtù taumaturgiche del «capo carismatico», cui Grasmci dedica numerose riflessioni e che meriterebbero una trattazione separata per la vastità dei contenuti trattati e delle implicazioni analitiche.  Tutto questo insieme di valutazioni porta a un’ultima conclusione: il fascismo non può certo essere ritenuto una parentesi irrazionale in una storia per il resto segnata dall’inarrestabile progressione liberale e democratica, un’improvvisa malattia morale, capace di obnubilare le menti degli italiani, che ha aggredito un corpo sano per poi sparire senza lasciare traccia. A centocinquanta anni dall’Unità d’Italia, le riflessioni di Gramsci suggeriscono di evitare accuratamente ogni lettura agiografica di quella storia. Senza trasformarla in un’opera di teratologia intellettuale, è opportuno interrogarsi problematicamente sulla totalità e organicità dei processi storici, sui limiti congeniti dell’intera vita politica italiana. Proprio questa problematicità ha spinto Gramsci a evitare qualsiasi lettura storiografica e politica manichea. Il fascismo costituisce la negazione più completa per valori e prospettive del campo marxista, ciò nonostante l’intellettuale sardo lo ha analizzato come fenomeno razionale e reale, scaturito da precise cause storicamente determinate.

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Gianni Fresu, “La prima bardana”. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento.


Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell'Ottocento

G. Fresu

“La prima Bardana”

Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento.

(CUEC, Cagliari, 2011)

L’Ottocento è un secolo emblematico per la storia d’Italia, non solo per i processi politici che preparano e conducono in porto un evento tanto complesso e difficile a realizzarsi come l’Unità d’Italia, ma anche perché in esso si determinano significative tensioni dialettiche connesse alla modernizzazione, destinate ad avere importanti riflessi anche sulla storia del Novecento. Ciò riguarda in primo luogo la storia della Sardegna oggetto di un profondo processo di trasformazione ricco di contraddizioni. In Sardegna la tradizionale dialettica città-campagna assume una sua connotazione peculiare come dialettica incrociata tra borghesia urbana e comunità dedite alle attività pastorali e, allo stesso tempo, tra agricoltura stanziale e allevamento errante. Tutti i problemi economici, culturali e politici connessi alle riforme sulla proprietà perfetta e l’eversione del vecchio regime feudale, così come le fasi più acute di malessere sociale sfociate nelle ondate di banditismo, sono connesse strettamente a questa dialettica. Negli stessi anni in cui assume connotati di massa il fenomeno del Brigantaggio meridionale raggiunge punte estreme di intensità il banditismo sociale in Sardegna. La peculiarità, e se vogliamo l’elemento di maggior interesse scientifico, è che in Sardegna abbiamo un’anticipazione di alcuni tratti essenziali nelle forme di egemonia e dominio dei governi sabaudi che finiranno per contraddistinguere, per diversi aspetti, anche la successiva presa di possesso delle regioni meridionali dopo l’Unità. Ciò vale anche per le forme di resistenza che in diverso modo si manifestano, rispetto alle quali assumono particolare interesse le riflessioni sui subalterni, e sulla natura «episodica e disgregata» della loro storia, di Antonio Gramsci.

 

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