Actuel Marx
2° incontro su Gramsci militante comunista – Bari 10 Maggio 2010
International Congress “Universalism, national questions and conflicts concerning hegemony” – Lisbon, 28, 29, 30 May 2009
Eugenio Curiel, di anni 33 – Un grande antifascista da non dimenticare
Eugenio Curiel, di anni 33.
Un grande antifascista da non dimenticare.
Gianni Fresu
A Sessantacinque anni dalla liberazione dal nazifascismo, in un contesto segnato da una inarrestabile emergenza democratica che ha molti punti di contatto con la capitolaziona dello Stato liberale negli anni Venti, è tutt’altro che retorico soffermarsi sul significato e sul valore della Resistenza. Tra le figure dimenticate di quella pagina di storia che riscattò il popolo italiano dall’infamia del fascismo si può annoverare quella del giovane partigiano Eugenio Curiel, che fu insieme scienziato e combattente per la liberta’. Curiel, nato a Trieste nel 1912 da una famiglia benestante di religione ebraica, dopo l’iscrizione in ingegneria a Firenze e il politecnico a Milano si laurea a Padova nel 1933 con il massimo dei voti in fisica e matematica con una tesi sulle disintegrazioni nucleari, a soli 21 anni, quindi inizia a lavorare all’Università come assistente. Nonostante la sua formazione e attività scientifica il giovane Curiel trova negli studi filosofici uno stimolo nuovo e totalizzante che lo porta prima ad avvicinarsi al materialismo storico e poi all’antifascismo militante, iscrivendosi al Partito comunista nel 1935. Nel 1936 avvenne la prima presa di contatto di Curiel con il Centro Estero del PCd’I grazie a un amico studente alla Sorbona, a Parigi, in un contesto segnato dai fermenti politici dell’antifascismo e dalla mobilitazione internazionale in difesa della Spagna repubblicana. Prima di partire discusse a lungo dell’organizzazione di una attività clandestina con i suoi compagni a Padova. Tuttavia, dopo il suo rientro da Parigi, orientò i suoi compagni ad un lavoro legale di massa attraverso la penetrazione nelle stesse organizzazioni sociali del regime tra lo sconcerto della cellula comunista composta di giovani che si aspettavano ben altro tipo di azione. Così, ricorda l’episodio Renato Mieli:
ci spiegò anzitutto il carattere di classe della dittatura fascista. Come avremmo potuto un giorno liberarcene, se non avessimo prima capito quali erano le energie reali, capaci di abbattere il fascismo nel nostro Paese, e se non fossimo riusciti poi ad organizzarle? Questa forza liberatrice non è rachiusa in una «élite» di intellettuali, essa è nella classe operaia e nelle sue alleanze con le masse nelle campagne e con quella parte di borghesia prgressiva. Chi vuole la liberazione dal fascismo, deve incominciare col volere la liberazione del di tutte queste forze dai vincoli che le soffocano. Esistono delle profonde contraddizioni che il regime di Mussolini non può assolutamente risolvere. Si tratta di non restare al di fuori di un processo storico e di inserirvisi, al contrario, attivamente per far fermentare dall’interno quelle energie che affretteranno la disfatta dei nemici del popolo1
A partire da questa indicazione il gruppo si inserì nei GUF e già nel 1937 il giovane intellettuale assunse la responsabilità della pagina sindacale del “Bo”, il giornale universitario di Padova. Ciò favorì una penetrazione di giovani antifascisti nella redazione, lo svilpparsi di un fermento politico culturale nuovo e l’attivazione di energie vitali poi rivelatisi determinanti nel corso della Resistenza. Le lunghissime discussioni sui temi da trattare si spostarono dalla redazione alle fabbriche per l’intuizione di Curiel che propose di confrontare preventivamente le questioni con gli stessi operai. Iniziativa anch’essa importantissima per consentire a quel gruppo la costruzione di legami sociali solidi nel mondo del lavoro. Nel 1938 Curiel, estromesso dall’Università per la promulgazione delle leggi raziali, si trasferisce a Milano, dove prende contatti con il Centro interno socialista e con vari gruppi antifascisti. In clandestinità dedica oramai tutta la sua esistenza alla militanza, viene arrestato varie volte dalla polizia svizzera per la sua attività antifascista e comunista, a Milano il 23 giugno del 1939 viene arrestato da agenti dell’Ovra. Sconta qualche mese nel carcere di San Vittore, poi il processo e la condanna a cinque anni di confino a Ventotene dove mette in piedi una sorta di università popolare per i reclusi ed anche per alcuni abitanti del luogo. Di quell’esperienza rimangono gli appunti delle sue lezioni a molti futuri quadri della Resistenza. Tutti coloro che ebbero modo di conoserlo ricordano Curiel per lo spessore morale e intellettuale ma anche per l’instancabile impegno militante. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio del ’43 il Gran Consiglio del fascismo vota l’ordine del giorno che porta all’arresto di Mussolini, un mese dopo Curiel viene liberato dal confino e torna in Veneto dove riprende i contatti con amici e compagni lavorando da subito all’organizzazione della Resistenza armata contro l’occupazione nazifascista. Rientrato a Milano ha un ruolo di primo piano nella redazione de «L’Unità» e della rivista «La nostra lotta», stampate e diffuse clandestinamente, diventa il «partigiano Giorgio» e fonda l’organizzazione antifascista “Fronte della Gioventù” che all’inizio del 1945 contava gia’ circa 15mila aderenti. Curiel cadde il 24 febbraio del 1945, a due mesi dalla liberazione di Milano e ad appena 33 anni, ucciso da una banda di fascisti che dopo avergli sparato per strada lo finì dentro un portone nel quale si era rifugiato. Dopo una medaglia d’oro al Valor militare, una lapide e un bellissimo inno partigiano a lui dedicato, nelle miserie dell’italietta della «concordia nazionale», l’oblio ne ha praticamente cancellato la memoria. Curiel, scienziato, comunista e combattente, nonostane la militanza, ebbe anche il modo di sviluppare una originale e matura riflessione politica, a lui si deve ad esempio l’elaborazione della «democrazia progressiva», una concezione Togliatti fece propria nell’immediato dopoguerra facendola divenire l’asse strategico del “partito nuovo”. Oggi nessuno si occupa più di questo giovane comunista morto per liberare il suo Paese, un militante determinante in una lotta di cui non ebbe la fortuna di vedere i frutti nella festa del 25 aprile. Bisognerebbe invece non solo ricordarlo ma riprendere gli studi dedicati alla sua vita e alla sua opera, personalmente mi impegno a farlo, nella convinzione che riportare alla luce questa straordinaria testimonianza di impegno e militanza non sarebbe semplice opera di “archeologia politica”.
1 Quaderni di Rinascita. Trenta anni di vita e lotte del PCI, Roma, Istituto Poligrafico, pag. 187.
Il tempo delle scelte di campo
Il tempo delle scelte di campo.
Di Gianni Fresu (Segretario regionale PRC) 16 marzo 2010
Delineare le prospettive politiche dell’attuale fase è complesso, perché gli esiti possibili di questa crisi sono molteplici e difficilmente prevedibili. Quella che investe il nostro paese e la nostra regione non è infatti solo una crisi economica ben lontana dall’esaurirsi, è una crisi delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali. Possiamo tuttavia fare delle valutazioni su un’epoca che con questa crisi sembra al tramonto e da questo trarre delle valutazioni rispetto al futuro. La fine della cosiddetta “Prima Repubblica” era avvenuta sull’onda di due principi che avrebbero dovuto trasformare in positivo il paese: in primo luogo, si affermava che la trasformazione del sistema politico in senso maggioritario e bipolare avrebbe creato maggior efficienza legislativa, capacità di rappresentanza democratica e persino minor corruzione del sistema politico; in secondo luogo, si affermava che con le privatizzazioni, le liberalizzazioni e la deregolamentazione del mercato del lavoro si sarebbe ottenuta una maggiore democrazia economica e la liberazione di enormi risorse da investire in produzione e nuova occupazione. Per spiegare quanto la prima previsione si sia rivelata fallace basta affidarsi alla minuta cronaca politica e giudiziaria di questi giorni, mentre per mostrare i veri effetti delle politiche economiche perseguite ci vorrebbe un trattato. Per stare in Sardegna, se la stagione degli investimenti pubblici si chiuse con uno stato patologico, la successiva stagione dominata dal dogma dell’iniziativa privata e delle leggi di mercato si è rivelata ancora più fallimentare. I processi di apertura ai privati si sono limitati ad un vergognoso assalto ai finanziamenti e alle agevolazioni pubbliche per accaparrarsi quel che restava della piattaforma industriale dell’isola o per progettare effimere attività produttive mai decollate dopo aver incamerato tutti i sussidi immaginabili. Per ragioni di spazio non mi è consentito trattare dei risultati delle politiche de redditi, degli effetti del patto di stabilità, delle ipocrisie insite nelle norme europee sulla concorrenza, ma anche in questo caso basta guardarsi attorno per comprendere quanto il quadro complessivo sia deficitario sotto ogni punto di vista. A fronte di entrambi versanti, le forze democratiche e di progresso possono sperare di riassumere un ruolo propulsivo e invertire la tendenza, solo divenendo realmente alternative alle destre. Anziché seguire Berlusconi sul terreno a lui confacente del bipartitismo, è necessario favorire il pluralismo delle forze democratiche e di sinistra sforzandosi di costruire una base di valori e obiettivi comuni. Questo può avvenire attraverso scelte di campo finalmente chiare nelle quali la tutela degli interessi popolari, delle funzioni sociali dello Stato, della difesa della Costituzione non siano più in discussione. La crisi ha messo a nudo le iniquità dei dogmi liberisti e la malafede delle forze interessate a mantenerli in vigore, è dunque tempo per rilanciare senza timidezze il tema di una nuova stagione di intervento e programmazione del pubblico in economia, di controllo pubblico del credito, di revisione profonda delle politiche comunitarie. In un contesto segnato dal disfacimento della piattaforma produttiva sarda e dal disarmo dei suoi settori economici strategici, con il conseguente corollario di disoccupazione ed espansione delle fasce di povertà ed esclusione sociale, occorre porre da subito il problema di una alternativa seria, credibile e dal profilo sociale chiaro al peggior governo regionale che la storia autonomistica della Sardegna abbia mai conosciuto. Non ci convince affatto l’idea dell’unità indistinta di un fantomatico “popolo sardo” nel quale si trovino a fianco sfruttatori e sfruttati, speculatori e defraudati, forze di maggioranza e opposizione. Il solo bipolarismo che ci interessa è quello tra forze che rappresentano modelli sociali e culturali realmente diversi e distinti, senza trasformismi e senza ambiguità.
ASSEMBLEA REGIONALE FEDERAZIONE DELLA SINISTRA – Relazione introduttiva di Gianni Fresu
ASSEMBLEA REGIONALE FEDERAZIONE DELLA SINISTRA
CAGLIARI, 12, 12 2009
Relazione introduttiva di Gianni Fresu
Finalmente si parte, la Federazione prende vita e cessa di essere solo un’idea. Ciò avviene in un contesto oggettivamente difficile, nel quale sembra essere giunta a compimento l’opera di distruzione delle organizzazioni autonome di classe delle lavoratrici e dei lavoratori e con essa il progressivo restringimento degli spazi di democrazia politica, sociale ed economica conquistati in un secolo di lotte. Sicuramente tutto questo è il risultato di una lunga guerra che ha impegnato sul piano culturale e politico le forze del capitalismo mondiale, ma in esso rientra anche il carico di errori commessi dalla sinistra. Proprio in coincidenza con questo obiettivo storico delle forze conservatrici si è però determinata una gigantesca crisi del modo di produzione capitalistico, con proporzioni e profondità che non si vedevano dal periodo tra le due guerre.
La natura della crisi
Una crisi del capitalismo in quanto tale, con i suoi rapporti di produzione, sfruttamento e le sue modalità distorte di appropriazione delle ricchezze, non una semplice difficoltà del cosiddetto neoliberismo e del suo sistema finanziario. Ma la crisi ha radici remote, ben precedenti al crollo delle borse. L’attuale inabissarsi dei dati sui consumi, che tanto allarma Berlusconi, è il frutto dell’autentica rapina operata a danno dei redditi da lavoro dipendente nell’ultimo ventennio, con lo spostarsi del 4% della ricchezza prodotta dal monte salari ai profitti delle imprese. L’Italia è il sesto tra i paesi OCSE ad avere una distribuzione del reddito diseguale: tra il 1993 e il 2008 a fronte di una crescita della produttività del 14,3%, solo il 3,8% è stato ridistribuito al lavoro. A questa condizione catastrofica ci hanno condotto le scellerate politiche dei redditi gestite con continuità dai governi tecnici del 92-93, quelli di centro sinistra e quelli della destra. Una rapina che non è avvenuta solo attraverso la cancellazione della scala mobile e la compressione salariale coatta, nella fase 1993-2008 per risanare il debito dello Stato, il sistema fiscale ha drenato gran parte delle sue risorse proprio dai lavoratori dipendenti non certo dai profitti e dalle rendite. È stato calcolato che lo Stato si è avvantaggiato di una somma pari a112 miliardi di euro, tra maggiore pressione fiscale e mancata restituzione del fiscal drag. Tra il 1995 e il 2006 i profitti netti sono cresciuti di circa il 75% mentre i salari solo il 5,5%. Oggi assistiamo all’ennesimo scippo del TFR, 3,1 miliardi di euro versati da tre milioni di lavoratori sottratti dalle casse dell’INPS per coprire un terzo dell’intera manovra finanziaria. Questo ennesimo esempio di finanza creativa di Tremonti, in una finanziaria scandalosa che ha il merito di scontentare tutti, viene impiegato per mere spese correnti neanche per investimenti produttivi o grandi interventi generali. Ciò la dice lunga sullo stato delle Finanze nel nostro paese.
La Federazione della Sinistra, una risposta di classe alla crisi organica del capitalismo
Comitato Politico Nazionale PRC
Roma 28, 29 novembre 2009
Intervento di Gianni Fresu
La Federazione della Sinistra, una risposta di classe alla crisi organica del capitalismo.
Se oggi, a fronte della liquefazione di Sinistra e libertà, rinunciassimo ad esercitare un’egemonia più ampia a sinistra, riaffermando la semplice autosufficienza della rifondazione comunista faremmo un errore strategico madornale. La Federazione della sinistra coniuga la necessità dell’unità a sinistra con l’esigenza di evitare scorciatoie organizzative liquidatorie della nostra soggettività. Chi paragona l’esperienza fallimentare della Sinistra arcobaleno con la Federazione sbaglia profondamente per varie ragioni: 1) in questa esperienza i comunisti non sono una semplice “tendenza culturale” ma la forza prevalente, come conferma del resto lo stesso simbolo adottato; 2) la Federazione nasce e si struttura con un netto profilo di alternatività e autonomia dal PD; 3) essa ha un inequivocabile dna sociale anticapitalista. L’esigenza di una più ampia unità a sinistra, costruita a partire da chiari contenuti politici e programmatici, non dall’idea volontaristica di creare un unico e indistinto partito della sinistra senza aggettivi, è dettata dalle condizioni soggettive ed oggettive del nostro agire politico. Ci viene chiesta a gran voce dal nostro stesso popolo, ed è al contempo indispensabile per tornare ad essere incisivi e utili alle classi subalterne. Quella attuale è una crisi organica e fasi di questo tipo, da che esiste il capitalismo, non danno luogo a momenti progressivi di ampliamento dei diritti e conquiste per il mondo del lavoro. Le crisi organiche producono rivoluzioni passive, vale a dire processi autoritari di involuzione delle relazioni sociali e politiche e ristrutturazioni violente del modo di produzione, finalizzate a ottenere maggiori remunerazioni del capitale ed una ancora maggiore condizione di subalternità delle classi sfruttate. Da un lato assistiamo attoniti al quotidiano vilipendio delle regole democratiche sancite dalla costituzione, dall’altro vediamo giorno dopo giorno quanto la crisi stia favorendo un consolidamento e ampliamento dei rapporti di dominio da parte delle classi sfruttatrici. Dopo venti anni di rapina sui redditi da lavoro dipendente, a fronte della crescita di produttività del lavoro, fatturato e profitti delle imprese, i padroni prendono la palla al balzo per avviare le procedure di fallimento, delocalizzare le produzioni all’estero, licenziare per poi riassumere con contratti di lavoro precario. La crisi si sta rivelando un vero affare per i padroni e le vertenze che quotidianamente scoppiano in tutta Italia lo confermano. La Sardegna in particolare vive un processo di desertificazione industriale disarmante. Già oggi la parte preponderante della nostra economia è composta di commercio e servizi, ciò nonostante non c’è distretto produttivo che non sia caratterizzato da dismissioni che mettono in luce le ipocrisie e le acrobazie dialettiche dei profeti del liberismo. A Iglesias opera un’impresa, la Rockwool che – a fronte di un attivo di bilancio, di un mercato consolidato, di impianti all’avanguardia e di finanziamenti e agevolazioni pubbliche di ogni sorta – dall’oggi al domani decide di chiudere, licenziare e trasferire la produzione nei Balcani.
E che dire dell’atro caso del Sulcis che ha attirato l’attenzione nazionale? La Sardegna vive il paradosso di essere autosufficiente sul piano energetico ma di pagare un costo per l’erogazione del servizio maggiore di qualsiasi altro distretto produttivo. Così l’intervento pubblico per promuovere tariffe agevolate è ora sotto il giudizio delle istituzioni europee per infrazione delle norme sulla concorrenza, da ciò la scusa per chiudere tutto e mandare a casa gli operai. Viene spontaneo domandarci, per quale ragione è stato possibile utilizzare danaro pubblico per salvare le banche sull’orlo del baratro senza che l’Unione europea avesse nulla da dire in merito alle norme sulla concorrenza? Per quale ragione Germania e Francia sono state in grado di fare massicce iniezioni di capitali pubblici ad un sistema di grandi imprese traballante senza che nessuno opponesse le obiezioni oggi sollevate per l’Alcoa? Come mai per salvare Alitalia il governo non ci ha pensato un minuto ad usare fiumi enormi di danaro pubblico e ad esercitare tutto il suo potere in sede comunitaria per non avere problemi, mentre ora si limita ad un ridicolo quanto inutile balbettio? Tutto questo ci chiarisce senza infingimenti che quando sono in gioco forti interessi capitalistici e i rispettivi governi nazionali decidono di tutelarli non ci sono norme sulla concorrenza o patti di stabilità che tengano. La crisi mette a nudo le iniquità dei dogmi liberisti e la malafede delle forze interessate a mantenerli in vigore. La federazione può costituire l’alternativa capace di rilanciare senza timidezze il tema di una nuova stagione di intervento e programmazione del pubblico in economia, di controllo pubblico del credito, di revisione profonda delle politiche comunitarie. Un ruolo che non può certo essere assolto da PD o IdV che in Parlamento europeo hanno sempre votato a favore di tutte le normative liberiste. È dunque la realtà concreta, segnata dal costante peggioramento delle condizioni di vita e lavoro delle classi subalterne, a spingerci verso uno scatto in avanti per mutare i rapporti di forza. La Federazione tenta di farlo su presupposti politici, sociali e organizzativi che non annacquano la questione comunista nel nostro paese, semmai la rimettono in gioco facendola uscire dall’angolo in cui ci hanno e ci siamo cacciati negli anni passati.
Un comune fronte di difesa democratica
Un comune fronte di difesa democratica.
(Liberazione, 16 novembre 2009)
Di Gianni Fresu, Segretario regionale PRC.
Personalmente non nutro alcun entusiasmo verso le primarie poiché esse si risolvono nell’ennesima delega passiva agli “specialisti della politica”, senza ridurne la distanza dalla società. Non mi seduce l’idea di un rapporto puramente episodico di convergenza tra la vita dei partiti e quella dei cittadini. Pur tra tanti limiti, i partiti del secondo dopoguerra realizzavano una partecipazione costante delle masse popolari alla vita politica e favorivano una formazione di gruppi dirigenti non esclusivamente composta da “specialisti, avevano strutture associative culturali, sociali, e sportive, che favorivano una maggiore organicità tra cittadini e politica. Le primarie invece ripropongono il vecchio schema ottocentesco del comitato elettorale liberale nel quale solo i notabili avevano possibilità di competere. I grandi partiti di massa del movimento operaio e cattolico nascono storicamente proprio per porre fine a questo stato di cose e realizzare una reale partecipazione popolare a tutte le scelte fondamentali della politica: definizione della linea, battaglie da intraprendere, selezione dei quadri dirigenti. Gli apostoli delle primarie risolvono ogni problema attraverso le virtù taumaturgiche del leader e confondono la personale capacità persuasiva del candidato con la costruzione di una comunità politica. Penso si dovrebbe puntare ad una autoriforma dei partiti politici per renderli nuovamente lo strumento principe di una partecipazione democratica quotidiana delle grandi masse popolari, assegnando finalmente ai congressi la funzione alta di luogo collettivo di elaborazione e direzione politica. I partiti dovrebbero tornare allo spirito che li animò nella fase della liberazione nazionale, della Costituente, della ricostruzione del paese, piuttosto che scimmiottare i modelli d’oltreoceano. Del resto gli USA hanno i livelli più alti di astensionismo e disimpegno politico al mondo, pur vivendo le primarie con una carica emotiva, una sovraesposizione mediatica e un dispendio di risorse economiche da noi impensabili. Al di là delle mie valutazioni sullo strumento in sé, il risultato delle primarie manda in soffitta la pretesa autosufficienza del PD, l’idea di imporre con la forza un bipartitismo innaturale attraverso soglie di sbarramento e leggi elettorali su misura. Tra noi e il PD restano profonde differenze che sul piano nazionale pregiudicano una organica politica delle alleanze comune, tuttavia, oggi, si può quanto meno pensare ad una opposizione comune contro il processo di involuzione autoritaria e di smantellamento dei principi costituzionali nel nostro Paese. Il Governo Berlusconi è una delle pagine più buie di reazione antidemocratica nella nostra storia e le forze democratiche non devono aspettare il fallimento di un nuovo Aventino per unirsi in un comune fronte di salute pubblica. In Sardegna, alla vigilia delle elezioni amministrative, è invece urgente la convocazione di un tavolo regionale che a partire da alcuni punti programmatici chiari, dalla presentabilità dei candidati e della linea di condotta, provi ad unire il fronte democratico tenendo fuori quelle forze di “confine” (UDC e PSd’Az) rivelatesi determinanti per la vittoria di Ugo Cappellacci e a tutt’oggi impegnatissime a sostenerne l’azione concreta. L’emergenza sociale non consente distrazioni, con dati sempre più drammatici per innalzamento della soglia di povertà, distruzione di posti di lavoro, ampliarsi delle fasce di emarginazione. Dopo le miracolistiche promesse della campagna elettorale questa Giunta regionale si è distinta soltanto per il rapporto di servile vassallaggio alle esigenze del Premier Berlusconi. Una giunta totalmente distante dai reali interessi della stragrande maggioranza dei sardi, integralmente concentrata nel conseguimento del proprio bottino. Le istituzioni autonomistiche della Sardegna non hanno mai vissuto un livello tanto basso di degrado e assenza di autorevolezza politica, occorre una svolta radicale per disarcionare questa classe di governo arruffona e incapace.
Gramsci e il nascente americanismo
Gramsci e il nascente americanismo
Si conclude domani la pubblicazione dei Quaderni del carcere
L’americanismo, per attuarsi concretamente, necessitava che non esistessero classi numerose senza una funzione essenziale nel mondo produttivo. La civiltà europea era invece contraddistinta dal proliferare di “classi parassitarie” generate dalla ricchezza e complessità della storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del commercio di rapina e dell’esercito. Quanto più vetusta è la storia di un paese tanto più estese e dannose sono queste «sedimentazioni di masse fannullone e inutili che vivono del patrimonio degli avi, di questi pensionati della storia economica».
Questo processo di razionalizzazione necessitava la creazione di un nuovo tipo di lavoratore plasmato, in ogni suo aspetto, sulle esigenze della produzione e della catena di montaggio. L’espressione usata dall’ingegner Taylor “gorilla ammaestrato” esprime alla perfezione questo fine della società americana: «sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti macchinali ed automatici, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, della fantasia, dell’iniziativa del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale». Ma per quanto i tentativi di spersonalizzazione del lavoro, propri dell’industrialismo taylorista, potessero essere profondamente pervasivi, secondo Gramsci, l’obiettivo di trasformare l’operaio in “gorilla ammaestrato” era destinato a fallire. Come si cammina, senza il bisogno che il cervello sia impegnato su tutti i movimenti che il camminare comporta, allo stesso modo il lavoro dell’operaio “fordizzato” non avrebbe determinato l’annullamento delle sue funzioni intellettuali e quindi politiche. Il tentativo di brutalizzazione dell’industrialismo mirava a rendere invalicabile la separazione tra lavoro manuale e funzioni intellettuali, ma proprio in questa sua irrealistica aspirazione stava il suo maggior limite.
Risorgimento, la via all’unità nazionale
Risorgimento, la via all’unità nazionale
Gramsci critica l’interpretazione liberale del processo storico
L’idea che l’Italia sia sempre stata una nazione è per Gramsci una pura costruzione ideologica, un preconcetto, che ha portato la classe intellettuale italiana alle acrobazie più antistoriche per rintracciare questa unità nel passato pre-risorgimentale. In Italia nel XIX secolo non poteva esserci questa unità nazionale perché mancava ad essa l’elemento fondamentale del popolo-nazione e un collegamento stretto di questo con gli intellettuali nazionali. Per queste ragioni le ricostruzioni storiografiche erano in realtà propaganda che cercavano di creare quella Unità basandosi sulla letteratura più che sulla storia; per Gramsci quell’approccio all’unità era un “voler essere” piuttosto che un “dover essere”. Il susseguirsi delle diverse interpretazioni ideologiche sulla nascita dello Stato italiano, legate agli impulsi individuali di singole personalità, è specchio fedele della natura primitiva ed empirica dei vecchi partiti politici e quindi dell’assenza nella vita politica italiana di un movimento organico e articolato potenzialmente capace di favorire uno sviluppo politico-culturale permanente e continuo. Al di là delle valutazioni critiche, il Quaderno 19 introduce una gran quantità di strumenti analitici per comprendere approfonditamente l’evento che più di ogni altro ha segnato la storia moderna e contemporanea del nostro Paese.