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ASSEMBLEA REGIONALE FEDERAZIONE DELLA SINISTRA – Relazione introduttiva di Gianni Fresu

ASSEMBLEA REGIONALE FEDERAZIONE DELLA SINISTRA

CAGLIARI, 12, 12 2009

Relazione introduttiva di Gianni Fresu

 

Finalmente si parte, la Federazione prende vita e cessa di essere solo un’idea. Ciò avviene in un contesto oggettivamente difficile, nel quale sembra essere giunta a compimento l’opera di distruzione delle organizzazioni autonome di classe delle lavoratrici e dei lavoratori e con essa il progressivo restringimento degli spazi di democrazia politica, sociale ed economica conquistati in un secolo di lotte. Sicuramente tutto questo è il risultato di una lunga guerra che ha impegnato sul piano culturale e politico le forze del capitalismo mondiale, ma in esso rientra anche il carico di errori commessi dalla sinistra. Proprio in coincidenza con questo obiettivo storico delle forze conservatrici si è però determinata una gigantesca crisi del modo di produzione capitalistico, con proporzioni e profondità che non si vedevano dal periodo tra le due guerre.

 

La natura della crisi

Una crisi del capitalismo in quanto tale, con i suoi rapporti di produzione, sfruttamento e le sue modalità distorte di appropriazione delle ricchezze, non una semplice difficoltà del cosiddetto neoliberismo e del suo sistema finanziario. Ma la crisi ha radici remote, ben precedenti al crollo delle borse. L’attuale inabissarsi dei dati sui consumi, che tanto allarma Berlusconi, è il frutto dell’autentica rapina operata a danno dei redditi da lavoro dipendente nell’ultimo ventennio, con lo spostarsi del 4% della ricchezza prodotta dal monte salari ai profitti delle imprese. L’Italia è il sesto tra i paesi OCSE ad avere una distribuzione del reddito diseguale: tra il 1993 e il 2008 a fronte di una crescita della produttività del 14,3%, solo il 3,8% è stato ridistribuito al lavoro. A questa condizione catastrofica ci hanno condotto le scellerate politiche dei redditi gestite con continuità dai governi tecnici del 92-93, quelli di centro sinistra e quelli della destra. Una rapina che non è avvenuta solo attraverso la cancellazione della scala mobile e la compressione salariale coatta, nella fase 1993-2008 per risanare il debito dello Stato, il sistema fiscale ha drenato gran parte delle sue risorse proprio dai lavoratori dipendenti non certo dai profitti e dalle rendite. È stato calcolato che lo Stato si è avvantaggiato di una somma pari a112 miliardi di euro, tra maggiore pressione fiscale e mancata restituzione del fiscal drag. Tra il 1995 e il 2006 i profitti netti sono cresciuti di circa il 75% mentre i salari solo il 5,5%. Oggi assistiamo all’ennesimo scippo del TFR, 3,1 miliardi di euro versati da tre milioni di lavoratori sottratti dalle casse dell’INPS per coprire un terzo dell’intera manovra finanziaria. Questo ennesimo esempio di finanza creativa di Tremonti, in una finanziaria scandalosa che ha il merito di scontentare tutti, viene impiegato per mere spese correnti neanche per investimenti produttivi o grandi interventi generali. Ciò la dice lunga sullo stato delle Finanze nel nostro paese.


Ci dicono che tutto va bene, che abbiamo tenuto meglio degli altri, che ne siamo fuori, ma la crisi economica mostra in Italia e in Sardegna il suo volto ancora più brutale, proprio per effetto dello smantellamento del sistema di garanzie e tutele del mondo del lavoro sanciti dalla nostra Costituzione, di scelte politiche sempre orientate a vantaggio dei padroni e mai dei lavoratori. Ci hanno detto in tutti questi anni che la lotta di classe non esisteva più, in realtà la crisi mostra come essa fosse ben presente solo che era il capitale a condurla unilateralmente contro il lavoratore, disarmato e reso inoffensivo dalle fallimentari politiche della concertazione.

Quella attuale è una crisi organica e fasi di questo tipo, da che esiste il capitalismo, non danno luogo a momenti progressivi di ampliamento dei diritti e conquiste per il mondo del lavoro. Le crisi organiche producono rivoluzioni passive, vale a dire processi autoritari di involuzione delle relazioni sociali e politiche e ristrutturazioni violente del modo di produzione, finalizzate a ottenere sempre maggiori profitti ed una ancora maggiore condizione di subalternità delle classi sfruttate. E così da un lato assistiamo attoniti al quotidiano vilipendio delle regole democratiche sancite dalla costituzione, dall’altro vediamo giorno dopo giorno quanto la crisi stia favorendo un consolidamento e ampliamento dei rapporti di dominio da parte delle classi sfruttatrici. Oggi come ai primordi del Ventennio il conflitto è indicato come la causa della crisi e della perdita di competitività del sistema economico. Oggi come allora l’obiettivo è lo stesso: cancellare il conflitto dall’agenda politica e sociale del paese, eliminare l’idea stessa di un’autonoma rappresentanza di classe delle masse popolari attraverso il definitivo smantellamento del contratto collettivo nazionale di lavoro. È esattamente lì, invece, che deve incentrare la sua ragion d’essere la Federazione. L’unica uscita da sinistra alla crisi consiste nell’investire tutte le nostre energie e risorse nel conflitto, andando oltre le mistificazioni di un bipolarismo fasullo che spesso nasconde la tutela dei medesimi interessi di classe.

Il berlusconismo rappresenta una delle pagine più nere e reazionarie di modernizzazione capitalistica nel Paese, è una miscela che coniuga perfettamente le pulsioni insieme conservatrici ed eversive delle classi dirigenti italiane, che carsicamente scavano nel corpo della nazione e ciclicamente riaffiorano dalle fogne della storia d’Italia. È triste rilevare in questa giornata, a quaranta anni dalla strage di Piazza Fontana, quanto le trame nere del progetto di rinascita democratica della Loggia Propaganda 2 abbiano fagocitato le istituzioni nate dalla Resistenza antifascista fino a conquistare un diritto incontrastato al governo del Paese, all’immunità dalla legge, senza neanche il bisogno di colpi di Stato più o meno cruenti. In questi anni la vittoria strategica delle destre è non solo economica e politica, ma culturale, egemonica. Berlusconi ha saputo coagulare intorno a sé un nuovo blocco di potere reazionario tanto resistente da non essersi ancora frantumato, nonostante depressione economica, peggioramento delle condizioni di vita e lavoro dei cittadini, scandali e crisi internazionali di proporzioni impensabili solo qualche anno fa. Abbiamo di fronte una emergenza democratica che richiede un comune fronte di salute pubblica tra le forze interessate a difendere la Costituzione antifascista, l’impianto parlamentare delle nostre istituzioni rappresentative, la centralità del lavoro.

 

La Sardegna

 

La giunta regionale Cappellacci è la più brutale dimostrazione di questa involuzione democratica anche da noi, è la sacra alleanza che unisce la vecchia borghesia compradora dell’Isola agli interessi internazionali della speculazione immobiliare ed energetica. Una giunta totalmente distante dai reali interessi della stragrande maggioranza dei sardi, integralmente concentrata nel conseguimento del proprio bottino e ciò nonostante saldamente in sella nel pieno divampare di una crisi di proporzioni drammatiche. Dopo le miracolistiche promesse della campagna elettorale questa Giunta si è distinta soltanto per il rapporto di servile vassallaggio alle esigenze del Premier Berlusconi, per la sistematica occupazione e lottizzazione delle funzioni di sottogoverno e delle amministrazioni pubbliche secondo logiche da basso impero democristiano. La Sardegna ha subito in sequenza una serie di schiaffi umilianti da parte del governo Berlusconi, la vergognosa misera entità nei trasferimenti statali prevista in finanziaria, i fondi scippati e destinati ad interventi in altre parti del paese elettoralmente più appetibili, le promesse eternamente reiterate di un intervento sempre rinviato, sono solo la dimostrazione della scarsissima considerazione che gode il popolo sardo nelle alte sfere del governo nazionale. In campagna elettorale la promessa era che “La Sardegna sarebbe tornata a sorridere”, dopo qualche mese di governo l’unico sorriso è quello degli speculatori che hanno ripreso a volteggiare più famelici che mai su quel che resta del nostro patrimonio pubblico. Scuola, sanità, ambiente, energia, trasporti, grazie ai provvedimenti di questa Giunta su tutto si sta estendendo la lunga mano del profitto privato, fino a consentire pericolose incursioni al riciclaggio di capitali per le organizzazioni malavitose. Il Piano regionale di sviluppo è il manifesto programmatico di questo scempio.

In un solo anno la Sardegna ha perso 33.000 posti di lavoro, con un incremento che alla fine dell’anno rischia di toccare il 6%, un andamento disastroso, persino peggiore del dato aggregato meridionale. Oltre 200 mila disoccupati rispetto a poco più di un milione e mezzo di abitanti, mentre per i “fortunati” che un lavoro ce l’hanno il valore delle retribuzioni è nettamente inferiore a quelle del resto d’Italia anche se il lavoro è lo stesso e la produttività persino più elevata. Lo stesso discorso vale per le pensioni erogate il cui importo medio è tra i più bassi d’Italia. In un contesto segnato dal vertiginoso impennarsi delle Casse integrazioni e delle domande di disoccupazione, quasi l’80% dei nuovi rapporti di lavoro creati sono a tempo determinato.

Un quadro impressionante che spiega più di ogni altro giro di parole quanto sia drammatico il restringimento della base produttiva nell’Isola. La Sardegna registra oramai da anni in Italia record negativi in termini di tasso di crescita medio del PIL pro-capite, ma ciò che da il senso di un’inesorabile declino è che di anno in anno il settore del terziario, servizi e commercio, costituisce di gran lunga e sempre più la parte preponderante dell’economia. L’unica eccezione è la Saras, ma sappiamo bene quanto ci stia costando in termini di devastazione ambientale e salute delle popolazioni residenti questa eccezione. Come stupirci dunque dei dati drammatici sulla povertà che coinvolgono oramai un quarto della popolazione sarda? 151.000 famiglie, 380 mila persone, o se preferite il 23%! Ancora nel 2003 questo problema riguardava il 13,1% delle famiglie, da allora anni 54 mila famiglie sono cadute al di sotto di questa soglia.

 

La stagione della Rinascita

Sicuramente è vero che è fallito il tentativo di industrializzazione forzata eredità delle lotte per la Rinascita, ma lo è altrettanto che quelle grandi battaglie popolari sono state disattese e stravolte nell’attuazione pratica fino a farne uno strumento di gestione clientelare di risorse malamente sperperate. Dal famoso Piano del commissario Pinna, all’indomani della liberazione, al Congresso del Popolo sardo del maggio 1950, fino ad arrivare alle proposte dei primi anni Sessanta l’idea della Rinascita non intendeva in alcun modo ridursi alla costruzione delle cattedrali nel deserto con i poli del petrol-chimico. Il Piano di Rinascita sarebbe dovuto partire dalla programmazione e dal coordinamento degli investimenti pubblici, realizzando un nuovo assetto nella proprietà fondiaria nelle campagne, con un intervento nel settore agro-pastorale teso alla cooperazione di agricoltori e pastori, sia nel momento della produzione che in quello della trasformazione e commercializzazione, per scardinare il monopolio degli industriali, che oggi come a fine Ottocento dominano incontrastati il mercato; prevedeva un grande intervento di riassetto idro geologico, bonifica e rimboschimento; la realizzazione di opere infrastrutturali e urbanizzazione; un investimento per la riqualificazione dei piccoli centri per evitare lo spopolamento delle zone interne; un processo di sinergia tra industria, servizi e commercio in modo da creare un vero e proprio distretto economico auto centrato. Il piano di Rinascita avrebbe dovuto condurre ad una programmazione economica integrata capace di mutare i rapporti sociali di produzione, anzitutto nelle campagne, e sbloccare i meccanismi di accumulazione e distribuzione delle ricchezze. La risposta dei Governi a guida democristiana si concentrò invece nella stagione, per molti versi effimera e dannosa, dell’industrializzazione forzata, attraverso la quale la gran parte delle risorse pubbliche vennero dirottate per favorire famiglie potenti come i Morati e i Rovelli e rinsaldare ulteriormente il blocco sociale tra classe politica e capitalismo parassitario del Nord Italia, o per foraggiare questa o quella corrente politica attraverso i carrozzoni delle vecchie partecipazioni statali.

 

Le illusioni sulla maggior efficienza del privato.

 

Va però anche detto che se la stagione degli investimenti pubblici si è chiusa con tante speranze e poche certezze, per l’inadeguatezza delle classi dirigenti che l’hanno promossa, la successiva stagione dominata dal dogma dell’iniziativa privata e delle leggi di mercato si è rivelata ancora più fallimentare. In Sardegna, e più in generale in Italia, c’è una lunga tradizione di capitalismo parassitario. L’isola per secoli è stata dominata da una nobiltà decadente e da una borghesia fondiaria assenteista che ha vissuto esclusivamente di rendite, che non è mai stata capace di accumulare e reinvestire produttivamente un proprio capitale originario, una borghesia cicala che come la come la vecchia aristocrazia terriera ha sempre preferito spendere tutta la sua rendita. A questa base passiva della borghesia autoctona si è aggiunto come una escrescenza lo sfruttamento coloniale di quella prima piemontese e poi italiana, che si è limitata a depredare l’Isola delle sue risorse con l’aiuto fattivo delle stesse classi dirigenti sarde. Ciò è avvenuto storicamente per le risorse minerarie, per quelle forestali, per quelle agro pastorali. Ciò è accaduto anche per il settore industriale.

La situazione attuale, mutati i tempi, non è cambiata gran che: i processi di apertura ai privati si sono limitati ad un vergognoso assalto ai finanziamenti e alle agevolazioni pubbliche per accaparrarsi quel che restava della piattaforma industriale dell’isola o per progettare effimere attività produttive mai decollate dopo aver incamerato tutti i sussidi immaginabili. Nel nostro paese il falso in bilancio non è una pratica consueta solo dei consigli d’amministrazione, è una norma strutturale della sua classe politica, perché non solo si truccano i dati per nascondere la realtà, ma anche quando si accertano gli errori e i fallimenti questo non porta mai all’individuazione di responsabili. In Italia esiste uno strano capitalismo che addossa il rischio d’impresa ai soli lavoratori ed è abilissimo nel privatizzare gli utili e pubblicizzare i debiti, ma esiste anche una strana politica che non si assume mai la responsabilità per le scelte fatte.

Oggi, dopo venti anni di ruberie mascherate da leggi di mercato, privatizzazioni, e di autentica rapina sui redditi da lavoro dipendente, i padroni prendono la palla al balzo per avviare le procedure di fallimento, delocalizzare le produzioni all’estero, licenziare per poi riassumere con contratti di lavoro precario. La crisi si sta rivelando un vero affare per i padroni e le vertenze che quotidianamente scoppiano in tutta Italia lo confermano. Pensiamo, solo a titolo di esempio, al caso della Rockwool che – a fronte di un attivo di bilancio, di un mercato consolidato, di impianti all’avanguardia e di finanziamenti e agevolazioni pubbliche di ogni sorta – dall’oggi al domani decide di chiudere, licenziare e trasferire la produzione nei Balcani.

E che dire dell’Alcoa? La Sardegna vive il paradosso di avere esigenze energetiche facilmente soddisfabili, visto il numero di abitanti in rapporto al territorio, eppure si trova a pagare un costo per l’erogazione del servizio maggiore di qualsiasi altro distretto produttivo. Così l’intervento pubblico per promuovere tariffe agevolate va sotto il giudizio delle istituzioni europee per infrazione delle norme sulla concorrenza, da ciò la scusa per chiudere tutto e mandare a casa gli operai. Viene spontaneo domandarci, per quale ragione è stato possibile utilizzare danaro pubblico per salvare le banche sull’orlo del baratro senza che l’Unione europea avesse nulla da dire in merito alle norme sulla concorrenza? Per quale ragione Germania e Francia sono state in grado di fare massicce iniezioni di capitali pubblici ad un sistema di grandi imprese traballante, senza che nessuno opponesse le obiezioni oggi sollevate per l’Alcoa? Come mai per salvare Alitalia il governo non ci ha pensato un minuto ad usare fiumi enormi di danaro pubblico e ad esercitare tutto il suo potere in sede comunitaria per non avere problemi, mentre ora sottopone i lavoratori dell’Alcoa ad una estenuante via crucis senza mai operare una svolta risolutiva? Tutto questo ci chiarisce senza infingimenti che quando sono in gioco forti interessi capitalistici e i rispettivi governi nazionali decidono di tutelarli non ci sono norme sulla concorrenza o patti di stabilità che tengano. La crisi mette a nudo le iniquità dei dogmi liberisti e la malafede delle forze interessate a mantenerli in vigore. La Federazione può costituire l’alternativa capace di rilanciare senza timidezze il tema di una nuova stagione di intervento e programmazione del pubblico in economia, di controllo pubblico del credito, di revisione profonda delle politiche comunitarie. È dunque la realtà concreta, segnata dal costante peggioramento delle condizioni di vita e lavoro delle classi subalterne, a spingerci verso uno scatto in avanti per mutare i rapporti di forza. La Federazione tenta di farlo su presupposti politici, sociali e organizzativi che non annacquano la questione comunista nel nostro paese, semmai la rimettono in gioco facendola uscire dall’angolo in cui ci hanno e ci siamo cacciati negli anni passati.

Il tema del lavoro e delle lotte alle modalità distorte di produzione e sfruttamento del capitalismo non può più essere disgiunto dal tema dell’ambiente. Ciò vale in termini generali ma assume un significato ancora maggiore in rapporto alla nostra Isola. In Sardegna, e lo vediamo quotidianamente, sui temi ambientali si giocano alcune delle fondamentali contraddizioni capitalistiche che inevitabilmente pongono in rapporto la produzione effimera della ricchezza con la distruzione di risorse naturali pregiate: speculazione edilizia e immobiliare, obsolescenza inquinante degli insediamenti produttivi, servitù militari, l’interesse verso la nostra regione da parte delle multinazionali dell’energia, il progetto di installazione di centrali nucleari in Sardegna e stoccaggio delle scorie radioattive nelle miniere dimesse, sono solo alcune delle voci su cui deve svilupparsi un’iniziativa specifica e intensa della Federazione. La nostra proposta di modello di sviluppo deve immancabilmente rendere l’ambiente risorsa positiva da valorizzare e non da depauperare. Questo è un terreno fondamentale di azione, analisi ed elaborazione che non è disgiunto dalla lotta al capitalismo ma ne è parte integrante e significativa.

È giunto il momento di dar corso ad un lavoro di rilettura economica e sociale, per dare risposte che non siano per l’ennesima volta la rimasticatura di vecchie parole d’ordine come Autonomia e Rinascita. Bisogna saper fornire un’analisi e un’elaborazione sulla questione sarda che sia corrispondente a ciò che la nostra società rappresenta oggi e non a ciò che era negli anni Cinquanta e Sessanta. Ridiscutere in termini nuovi il tema dell’autogoverno del popolo sardo in rapporto ad un profondo programma di rinnovamento economico e politico. Se è vero che lo Statuto autonomistico non è mai stato applicato fino in fondo lo è altrettanto che esso, nato con limiti congeniti, appare oggi del tutto inadeguato e persino arretrato rispetto alle evoluzioni statutarie delle Regioni ordinarie. Su questi temi la Federazione in Sardegna deve giocare un ruolo propulsivo e protagonistico per coniugare le esigenze di autogoverno del popolo sardo perennemente mortificate, anche per il servilismo di parti significative delle sue classi dirigenti, con quelle di una profonda riforma intellettuale e morale che sia economica e sociale.

 

La Federazione della Sinistra

 

In un contesto tanto difficile, la prima buona notizia è che a fronte di un lungo processo di frammentazione a sinistra noi diamo invece corpo ad un percorso di aggregazione. Non è possibile avere l’ambizione di unire la sinistra attraverso le scissioni, né praticare l’unità attraverso una liquefazione delle precedenti esperienze politiche in un contenitore privo di identità. Gli errori devono servire a qualcosa, e la fallimentare esperienza della Sinistra Arcobaleno ci spiega a sufficienza una verità: in assenza di una identità definita e di un progetto vero d’alternativa, la semplice sommatoria delle sigle della sinistra non produce né un travaso automatico dei rispettivi elettorati, né, tantomeno, un ampliamento del loro consenso. Lo avevamo detto, la lista comunista e anticapitalista delle europee non era un cartello elettorale, bensì un progetto politico che ora attraverso la Federazione prende corpo. Se oggi, in una situazione come quella descritta, rinunciassimo ad esercitare un’egemonia più ampia a sinistra, riaffermando la semplice autosufficienza delle nostre rispettive esperienze pregresse, faremmo un errore strategico madornale. La Federazione della sinistra coniuga la necessità dell’unità a sinistra con l’esigenza di evitare scorciatoie organizzative liquidatorie delle nostre soggettività, indica una strada per verificare in concreto un percorso unitario. Chi paragona l’esperienza fallimentare della Sinistra arcobaleno con la Federazione sbaglia profondamente per varie ragioni: 1) in questa esperienza i comunisti non sono una semplice “tendenza culturale” ma forza prevalente, come conferma del resto lo stesso simbolo adottato; 2) la Federazione nasce e si struttura con un netto profilo di alternatività e autonomia dal PD; 3) essa ha un inequivocabile codice genetico sociale anticapitalista. L’esigenza di una più ampia unità a sinistra, costruita a partire da chiari contenuti politici e programmatici, non dall’idea volontaristica di creare un unico e indistinto partito della sinistra senza aggettivi, è dettata dalle condizioni soggettive ed oggettive del nostro agire politico. Ci viene chiesta a gran voce dal nostro stesso popolo, ed è al contempo indispensabile per tornare ad essere incisivi e utili a quelle classi subalterne che in questi anni ci hanno abbandonato, o forse sarebbe il caso di dire che noi abbiamo abbandonato.

Per descrivere lo stato di crisi organica seguito al dopo guerra Gramsci usava l’espressione «il vecchio muore e il nuovo non può nascere». A fronte di un decadimento irreversibile del vecchio ordine liberale non era corrisposto il suo superamento da parte di un ordine nuovo, il socialismo, per l’immaturità, il paternalismo e il dilettantismo delle forze che avrebbero dovuto costituire l’alternativa. Il fascismo è storicamente il risultato di questa condizione di stallo con il quale le vecchie classi dirigenti hanno sopperito alla morte del vecchio mondo impedendo con ogni mezzo la nascita di quello nuovo. Abbiamo una grave responsabilità sulle nostre spalle, non basta attendere passivamente la fine del vecchio ordine, sempre ammesso che essa ci sia, bisogna lavorare per crearne uno nuovo.

 

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.