La sinistra italiana dopo le elezoni politiche. «La Nuova Sardegna», sabato 2 marzo 2013


La sinistra italiana dopo le elezoni politiche.

«La Nuova Sardegna», sabato 2 marzo 2013
Di Gianni Fresu

Tra i tanti segnali contrastanti di questa tornata elettorale, uno chiaro e inequivocabile c’è: la pesante sconfitta della sinistra italiana. In una fase di profonda crisi del capitalismo, nel Paese dove esisteva il più grande partito comunista dell’Occidente, la sinistra non omologata al liberalismo si è ridotta ai minimi termini. Politiche contraddittorie, scissioni, liti furibonde, tante le ragioni possibili, una cosa è certa, il mondo del lavoro e quello del disagio sociale guardano altrove. Non è servito accantonare i suoi simboli storici e presentarsi con la lista guidata da Antonio Ingroia, il Movimento di Grillo ha monopolizzato il malcontento verso le politiche di austerità finanziaria. Probabilmente, l’assenza di un progetto politico e la tendenza a trovare forme di composizione episodica con dei cartelli elettorali hanno contribuito a questo risultato. Ciò è accaduto alle elezioni del 2008, con la Sinistra Arcobaleno, alle europee con la lista poi divenuta Federazione della sinistra, ora con l’esperimento di Rivoluzione civile. In tutti e tre i casi, la sinistra nata dallo scioglimento del PCI, sembra aver smarrito identità e strategia, tanto da tirare fuori dal cilindro un coniglio nuovo ogni volta, con l’approssimarsi delle scadenze elettorali. Un tempo si diceva, prima i progetti politici poi le urne, in questi ultimi anni è però avvenuto l’esatto contrario e all’azione permanente dei partiti si è progressivamente sostituita quella occasionale dei comitati elettorali. Se Atene piange, Sparta non ride, e anche Sinistra e Libertà, a fronte di una ben maggiore esposizione mediatica, amplificata dalla campagna per le primarie, e disponibilità di risorse senza l’alleanza con il PD non avrebbe potuto eleggere propri rappresentanti in Parlamento. Se nel 2006 questi partiti esprimevano quasi il 15% dei voti, ora a stento si avvicinano al 6. Non servono ragionamenti troppo sofisticati per suggerire alle forze di questo campo di voltare finalmente pagina e dar corso a una nuova fase costituente, per un progetto unitario e credibile, almeno che non si vogliano lasciare battaglie e quel che resta del vecchio consenso nella società al Movimento di Beppe Grillo. Nei mesi precedenti al voto non sono mancate le polemiche e, in più di un caso, si sono levate voci che invocavano l’azzeramento non solo di organismi dirigenti, ma anche delle stesse organizzazioni della sinistra. L’invito non è stato accolto, si è preferito ripercorrere le strade già battute, mantenendo ben in sella gli stessi gruppi dirigenti protagonisti e responsabili delle sconfitte precedenti. Oggi il tempo dei bilanci non potrà essere nuovamente rinviato, così come quel cambio di gruppi dirigenti necessario ad aprire una fase nuova a sinistra. L’azzeramento sembra essere stato decretato dagli elettori. Del resto non si è mai visto un esercito guidato dagli stessi generali reduci da cocenti sconfitte militari e non si capisce perché questa regola non dovrebbe valere in politica, tanto più in un’area con ambizioni progressiste. C’è un intero campo da ricostruire, a partire però non dalle esigenze elettorali, bensì dai suoi contenuti economici, dalla sua ragion d’essere sociale. Nella realtà sono presenti tutti gli elementi su cui articolare un simile progetto a partire dalla scelta di campo rispetto al conflitto, oggi più che mai vivo, tra capitale e lavoro, ai temi dell’accumulazione e ripartizione delle ricchezze prodotte, della precarietà distruttiva imposta al mercato del lavoro dalle politiche liberiste del decennio passato, vere responsabili della crisi da cui stentiamo a uscire. Una ricomposizione di questo tipo potrebbe finalmente mutare i rapporti anche con il Partito democratico, andando oltre l’alternativa, comunque perdente, tra subalternità e isolamento minoritario.

Gramsci ridotto a una banale storia di spie. «La Nuova Sardegna», Cultura e Società, domenica 24-2-2013

Gramsci ridotto a una banale storia di spie.

Recensione del libro di Franco Lo Piparo, L’enigma del quaderno, Donzelli, 2013.

«La Nuova Sardegna», Cultura e Società, domenica 24-2-2013

Di Gianni Fresu

È oramai appurato, in Italia esiste una categoria di studiosi specializzati in indagini sulla presunta conversione politica, quando non anche religiosa, di Antonio Gramsci ai paradigmi del liberalismo. È il caso dell’ultima fatica di Franco Lo Piparo, incentrata sulla misteriosa sparizione di un quaderno del carcere. Lo Piparo emette un trittico di sentenze inappellabili su ragioni e responsabili della scomparsa: manca un quaderno; l’ha fatto sparire Togliatti; in esso Gramsci ripudia il comunismo e il suo partito. Non si tratta di un saggio storico, ma di una vera e propria spy story per la cui redazione l’autore afferma di essere ricorso a una «immaginazione sorretta da argomentazioni a loro volta ancorate a fatti reali». Ho letto tutte le 140 pagine, più appendice, ma francamente di fatti reali non ne ho trovati, in compenso ho riscontrato molta fantasia, associata a un ferreo pregiudizio di condanna che a mio modesto parere ha anticipato e guidato, non seguito, l’indagine.

Tutte le contraddizioni sul numero dei Quaderni, relative a documenti e testimonianze discordanti, assai plausibili tenuto conto della clandestinità sotto il fascismo e poi dalla disorganizzazione seguita alla guerra, sono qui utilizzate come prova di un reato per il quale esistono però solo indizi. L’intero lavoro si basa sull’interpretazione “creativa” di lettere e documenti: in alcuni casi si cerca un significato recondito ed equivoco ad affermazioni fin troppo evidenti, in altri, magari rispetto a lettere scritte con linguaggio cifrato, per ovvie ragioni di sicurezza, si da un’interpretazione certa e univoca. Paradossalmente anche l’assenza dei documenti necessari a fondare le tesi dell’autore sono utilizzate come prova della sua sentenza. La struttura logica del ragionamento è la stessa: se questi documenti non si trovano sono stati distrutti, dunque c’era qualcosa da nascondere, il responsabile è Palmiro. A dominare tutte le valutazioni sulle “stranezze” ci sarebbe la malafede del gruppo dirigente comunista e soprattutto di Togliatti, regista di tutti i depistaggi orditi con la complicità di moglie, cognata e amico strettissimo (Piero Sraffa) del povero Gramsci, tutti agenti del Kgb assoldati da Stalin per sorvegliarlo. Le contraddizioni però non mancano. Secondo l’autore, Sraffa e Tania avrebbero giocato una «partita a scacchi»: il primo «per venire in possesso dei quaderni prima che altri potessero leggerli e sfruttarne l’eventuale carica politica»; la seconda invece per «onorare l’impegno preso col cognato di fare pervenire i quaderni alla moglie per evitare qualsiasi perdita o intromissione di chicchessia». Anche quest’affermazione di Lo Piparo è assai strana. Se Tania era, come lui afferma, un agente segreto sovietico messo da Stalin alle calcagna di Gramsci per controllarlo, perché sarebbe stata interessata a «onorare l’impegno con il cognato» e non quello con i suoi superiori gerarchici di cui Sraffa sarebbe stato emissario? Eppure, in altre parti del libro, Lo Piparo non ha nessun dubbio su questo ruolo e arriva a scrivere: «Tania lavora nei servizi sovietici e non può non essere stata addestrata al lavoro di intelligence».

Anche ammettendo l’assenza di un quaderno, per quale ragione Gramsci avrebbe dovuto concentrare in esso tutte le sue critiche al comunismo – ipotesi contraddittoria rispetto alla struttura dell’opera e al metodo di lavoro da lui usato – mentre nel resto dei Quaderni nulla di tutto questo è rintracciabile, anzi vale l’esatto contrario? Secondo l’autore il quaderno mancante all’appello fu scritto nella clinica dopo la scarcerazione, ne è tanto convinto da affermare: «Sraffa, Gramsci vivo, sarà stato a conoscenza [del Quaderno] perché dei suoi contenuti i due amici avranno discusso nei colloqui dell’ultimo anno». Anche in questo caso non si comprende in base a quali documenti l’autore possa essere giunto a una tanto perentoria conclusione. Ecco un’altra affermazione contraddittoria di Lo Piparo: «È credibile un Gramsci che, fuori dal carcere e senza esplicite costrizioni censorie, non abbia sentito il bisogno di mettere per iscritto le sue riflessioni e deduzioni teoriche su quanto l’amico Piero gli andava raccontando degli sviluppi del comunismo?» Verrebbe da pensare che in carcere Gramsci non potesse scrivere criticamente del comunismo a causa della polizia fascista, mentre in clinica avrebbe avuto maggiore libertà. Forse Mussolini era sullo stesso fronte della barricata con Togliatti e Stalin per impedire a Gramsci di parlar male del comunismo? A suo dire, Togliatti, grazie alla «catena comunicativa» di Tania e Sraffa, sapeva della disistima nei suoi confronti di Gramsci, perché lo avrebbe ritenuto responsabile della famosa lettera di Grieco e delle «intempestive» campagne internazionali di stampa in suo sostegno. Anche in questo caso l’autore si guarda bene dal provare le sue affermazioni, limitandosi a dire «Togliatti era stato escluso dalla cura dei Quaderni». In realtà Gramsci, in carcere, aveva interrotto qualsiasi comunicazione diretta con i quadri del partito e del Comintern per non apparire più un dirigente comunista in attività e con alte responsabilità, per questo ritenne inopportuna la lettera di Grieco. L’accusa principale sarebbe riconducibile a un dissidio insanabile tra Gramsci e Togliatti rispetto alla linea assunta dal Comintern con il socialfascismo e all’«appiattimento» del partito italiano. In realtà l’autore dimostra di aver visionato le etichette dei Quaderni e studiato le incongruenze sulla loro numerazione, ma si è guardato bene dallo studiare dinamiche e storia del comunismo italiano e Internazionale. Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto ad esempio che l’appiattimento in realtà non era tale, e anche quando, dopo interventi pesantissimi da Mosca, si determinò il suo allineamento, ciò fu dovuto all’impossibilità di rompere i rapporti in una fase drammatica, con tutto il suo gruppo dirigente (compreso il capo) in carcere, il trionfo interno e internazionale della dittatura fascista, l’esilio dei superstiti. Quando, al VI Congresso del Comintern del 1928, fu adottata la linea del «socialfascismo» (criticata da Gramsci) e Bucharin venne liquidato per la sua opposizione, proprio Togliatti fu l’unico membro dell’Esecutivo a intervenire, nel gelo e nel silenzio più assoluto, gli tolsero addirittura la parola, in sostegno alla sua relazione. Nell’altrettanto famoso VII Congresso del luglio 1935, che portò alla condanna del socialfascismo e spianò la strada alla politica dei «Fronti popolari» (ossia la linea di Gramsci) proprio Togliatti, insieme a Dimitrov, fu il protagonista della svolta, anticipando una posizione poi perseguita con continuità fino al ritorno a Salerno nel ‘44. Tutte cose di cui uno studioso dovrebbe tener conto, nemmeno sfiorate da Lo Piparo, affaccendato com’è a cercare vanamente il corpo del reato. Sicuramente, questa la mia conclusione, egli trova tanto fumo ma nessuna pistola.

 

 

 

 

 

 

“La giornata di un ricordo parziale” . Da un articolo di Eugenio Curiel sul dominio italiano subito dai popoli slavi.

“La giornata di un ricordo parziale” .

Da un articolo di Eugenio Curiel sul dominio italiano subito dai popoli slavi.

 

Un articolo di Eugenio Curiel del 1944 sul riscatto dei popoli jugoslavi, dopo la violenta oppressione italiana subita  per più di 20 anni, mi da modo di tornare su un tema di scottante attualità politica, la cosiddetta “giornata del ricordo”.

Eugenio Curiel, scienziato e partigiano triestino morto a soli 32 anni nel febbraio 1945, aveva sempre dedicato molta attenzione, sin dall’adolescenza, al dramma umano e culturale delle popolazioni slave inglobate a forza nel regno d’Italia dopo la prima guerra mondiale. Se ne occupò nuovamente nell’ottobre del ’44, quando la vittoria contro i nazifascisti da parte dell’Esercito nazionale di liberazione jugoslavo (Belgrado fu liberata il 20 ottobre), determinò una situazione nuova di fondamentale importanza per la guerra a Hitler e soci in tutto il resto d’Europa. Insieme alla esigenza della lotta di liberazione, il cambio di passo della guerra fece esplodere anche il problema delle realtà nazionali violentemente menomate dalle mire di grandezza dello sciovinismo italiano prima e dopo l’avvento del fascismo, fino a quel momento occultate o dissimulate dalla propaganda del regime.

Come sappiamo, in tempi recenti, proprio gli accadimenti di questo periodo (1943-45) hanno suscitato l’attenzione del “nostro” mondo politico e culturale per le sorti degli italiani costretti alla fuga dalle terre occupate e soprattutto per quelli tragicamente finiti nelle “foibe”, un’esigenza ritenuta tanto forte da spingere le autorità governative a dedicargli una giornata commemorativa ufficiale. Senza voler entrare in dettaglio su questo argomento, sul quale del resto esiste una vastissima bibliografia, fa riflettere che nella gran parte dei casi la trattazione di questi fatti finisca per omettere o trascurare del tutto la durezza dell’occupazione italiana: i crimini compiuti negli anni del regime fascista a danno delle popolazioni slave, fino ai massacri compiuti con i rastrellamenti, le deportazioni, l’uso sistematico dei campi di concentramento prima e durante la guerra.

Su tutto ciò tornò invece Eugenio Curiel in un articolo, La nuova Jugoslavia, (pubblicato su «La Nostra Lotta», a. II, n.17, ottobre 1944), scritto proprio nella fase più calda di questa storia. Secondo il suo giudizio, con la fine della prima guerra mondiale, il regno jugoslavo fu il risultato di un compromesso deteriore tra le potenze occidentali interessate a spartirsi quanto più possibile i vecchi domini asburgici nei Balcani. Il piccolo regno, costruito attorno a Serbia e Montenegro, si vide privato di parte significativa del suo territorio a favore degli Stati confinanti, all’Italia venne assegnata la fetta più consistente di territorio. Per croati e sloveni iniziò da subito un periodo drammatico, ben più duro e disumano del già pesante dominio austriaco, segnato da violenze e prevaricazioni finalizzate a sradicare le tradizioni culturali slave dei territori appena assimilati.

L’italianizzazione forzata con l’avvento del fascismo si fece ancora più brutale, insieme alla proibizione dei partiti e la soppressione della loro vivacissima stampa, a croati e sloveni venne impedito l’utilizzo della loro lingua, nelle scuole come nei luoghi di culto. Alla massiccia occupazione militare e burocratica fascista si accompagnò la consapevole distruzione della struttura economico-sociale locale: annientato il «ricco patrimonio cooperativo», le casse artigianali e l’articolazione sociale e cultrale del mondo contadino, sulle regioni dell’Istria e della Carsia il capitale bancario italiano finì per stritolare ogni residuo di vivacità autonoma fino a fare di queste le regioni con il più alto debito ipotecario in Italia. Ma non fu solo questo, ecco le parole di Curiel in proposito:

“Chi non ricorda con orrore lo strazio che il fascismo ha fatto del popolo sloveno e del popolo croato, chi non ricorda la loro indomita volontà di liberazione che il regime di terrore non riusciva a fiaccare, chi non ricorda i martiri di Pola del 1929, i martiri di Basovizza del 1931 e tutti gli altri eroici caduti fino al compagno Tomasic e a tutti i fucilati di Trieste del 1941”.

Distrutta l’economia contadina, basata sull’allevamento zootecnico, strangolato il suo sistema di credito tradizionale a queste regioni fu imposta una condizione di miseria e abbandono resa ancora più intollerabile dalle vessazioni di un’occupazione militare e culturale conforme alle pagine più buie della peggiore tradizione coloniale. Con lo scoppio della guerra e la fine del debole regno jugoslavo la brutalità dei fascisti italiani e dei nazisti tedeschi si fece assoluta, ciò nonostante dal basso si formò da subito, con le divisioni partigiane guidate da Tito, una fortissima resistenza armata popolare capace di sconfiggere truppe di occupazione e fiancheggiatori, ancora Curiel:

“A decine di migliaia gli arditi combattenti del popolo, a migliaia le coraggiose donne del popolo jugoslavo venivano massacrati e seppelliti nei campi di concentramento. Le truppe d’occupazione, ma anche le truppe dell’esercito fascista, italiani vestiti dell’uniforme disonorante dell’aggressione e dell’infamia, distrussero villaggi, incendiarono case, decimarono intere regioni: ma per l’eroico popolo jugoslavo la brutalità, la barbarie scatenata furono la gran diana per la lotta di riscossa popolare”.

In un contesto di guerra i torti si sommano ai torti e, per quanto possa essere più o meno condivisibile, prima o poi arriva il momento del “redde rationem”. E’ assolutamente corretto studiare storicamente e far conoscere politicamente quanto accaduto nelle Foibe, ma lo è altrettanto ricordare che prima quelle stesse Foibe furono utilizzate per le popolazioni slave sottoposte (dal 1918 al 1943) a deportazioni di massa, cancellazione della propria specificità culturale, linguistica ed economica, assoggettate a operazioni di pulizia etnica di massa e su larga scala. Portare in rilievo solo il tragico epilogo di una brutta pagina storica, omettendo tutto quel che l’ha preceduta e, soprattutto, cancellando la responsabilità del nazionalismo italiano (affermatosi in quelle terre ben prima dell’avvento fascista), significa fare opera di mistificazione dei fatti. Si è sentito spesso dire negli ultimi anni che l’Italia ha necessità di una “memoria condivisa”, tralasciando l’assurdità di una tale aspirazione (si può auspicare la condivisione del futuro e del presente ma la storia riguarda fatti già accaduti e vissuti, con relative scelte di parte, e condividerla significa riscriverla tendenziosamente), in realtà, anche in questo caso ciò che si vuole imporre non è una “memoria condivisa”, bensì un punto di vista parziale e unilaterale, quello italiano. Si sorvola con troppa disinvoltura sull’esistenza, ancora oggi, in quelle stesse regioni, di popolazioni slave oramai italianizzate ma che portano nel loro codice genetico le sofferenze, le violenze e le umiliazioni patite. Sarebbe questa la “memoria condivisa” che si vuole offrire? Quale “giornata del ricordo” potrebbe risultare credibile mettendo sotto i riflettori della storia solo i “torti subiti dagli italiani” e cancellando totalmente il “nostro” violento dominio  sui popoli slavi?

 

 

Recensione a “La prima bardana” realizzata da Walter Falgio

«La prima bardana»: storia di identità e conflitto

gennaio 2013 · collana Recensioni

di Walter Falgio

L’identità
Plurale, multiforme, complessa sono solo alcuni degli aggettivi che con buone ragioni possono essere associati al concetto di identità. Tanto più all’identità dei sardi, popolo portatore di una storia e quindi di una cultura millenaria[1]. L’identità sarda non è un monolite che ciascuno incide a suo modo o che ciascuno pretende di caratterizzare definitivamente e in maniera assoluta. Piuttosto si potrebbe ammettere che l’identità di un popolo sia la somma di tutte quelle “incisioni” che dalla letteratura all’arte alla politica, lasciano un segno significativo, sullo stesso piano, senza alcuna gerarchia e in continuo rapporto dialettico.

L’identità è una convenzione culturale che forse non è possibile definire con una modalità univoca e che si forma nella socialità, nel rapporto tra gli uomini. Il racconto di caccia di Emilio Lussu dove lui, nel 1938 a Parigi, riscopre quella «comunità patriarcale senza classi e senza Stato»[2]. Il sistema di regole della “vendetta barbaricina” ove, secondo la descrizione di Antonio Pigliaru, «l’offesa più che poter essere, deve essere vendicata»[3]. La struttura economica, il mondo agrario con le sue estensioni, gli oliveti, gli orti, il paesaggio pastorale con greggi e transumanze. Per esempio, sono anch’essi tutti elementi fondanti e costantemente richiamati nella costruzione dei profili dell’identità sarda.

Fernand Braudel in “Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II”[4] racconta che da Cagliari nel Cinquecento il formaggio sardo si esportava nel Continente. Evidentemente la Sardegna dell’epoca con la sua “economia arcaica”[5], con la “vita pastorale invadente”[6] riusciva a stabilire un collegamento con altri orizzonti commerciali pur vivendo “essenzialmente di sé”[7], pur essendo “un continente, un mondo a sé con la sua lingua, le sue usanze”[8]. Anche questa è identità, plurale, che disattende gli schematismi, che non è né chiusa né aperta ma costruita per accumulazione di fattori.

Il conflitto
L’identità di un popolo, dunque, nasce e si sviluppa all’interno di un contesto sociale caratterizzante le interazioni umane e, naturalmente, all’interno dei conflitti. Il libro di Gianni Fesu La prima bardana. Modernizzazione e conflitto nella Sardegna dell’Ottocento[9] prima di tutto porta un contributo per una definizione di ulteriori confini dell’identità sarda. Analizza la comunità, le relazioni e appunto i conflitti con un approccio preciso, dichiarato, utilizzando le categorie dei subalterni gramsciani, ricostruendo, inevitabilmente, una storia di uomini e di donne all’interno di processi economici dialettici. Fresu si occupa di uomini uguali, come suggeriva Carlo Ginzburg, di uomini come il mugnaio Menocchio de Il formaggio e i vermi[10], che contro l’Inquisizione romana coltivava attese di giustizia proponendo un modello del mondo diverso e alternativo. La richiesta di giustizia contro la spoliazione, contro l’asservimento, contro la violenza contro il sopruso è uno dei tratti (non certo l’unico e non certo in chiave dogmatica) comuni a diversi profili della storia sarda. Ne La prima bardana questa chiave di lettura è ben argomentata a partire dall’analisi del ribellismo e in un’ottica di lungo periodo. Un ribellismo che a volte assume dei connotati tragici che possono essere ricondotti a un modello di opposizione eterna tra la regola del diritto e una realtà sociale che non ne riconosce fondamento etico[11].

Ma Fresu ammonisce: attenzione a leggere questo conflitto esaltando esclusivamente e misticamente la “costante resistenziale” sarda, concetto che nel tempo si è prestato a innumerevoli strumentalizzazioni. Giovanni Lilliu scriveva:
«Chi guardi con serenità i fatti culturali della Sardegna e le sue possibilità attuali fuori da schemi utopistici e da preconcetti illuministici, potrà convincersi, dopo una certa riflessione, che resistendo nello spazio dei “moderni” pastori delle zone interne, l’antica struttura pastorale nuragica ha assolto una sua funzione storica e non ha mancato di offrire qualche prodotto positivo. Essa ha assicurato con la transumanza, nella divisione politica, l’unità e l’integrità etnica, culturale e storica dei Sardi, legando pastori a contadini e, da ultimo, a operai industriali […]. Ma bisogna anche ammettere che vista oggi, in un contesto di civiltà europea, tale struttura è diventata non dicesi da terzo mondo, ma è semplicemente fuori del mondo contemporaneo; è un meraviglioso oggetto etnografico. Nelle miriadi di Sardegne costituitesi in età nuragica è la spiegazione di fondo della caduta della civiltà antica “regionale”, della mancata “nazione sarda”»[12].

Un passaggio che forse fa il paio con le conclusioni di Giulio Angioni daRapporti di produzione e cultura subalterna, già richiamate da Fresu:

«Questa tradizione locale è a volte esplicitamente immaginata come una situazione che fa (e che soprattutto faceva) sì che siano (quando conservati genuini) laboriosi e pii e rispettosi e fieri e soprattutto naturali i contadini e i pastori, e i loro pari e fratelli generosi i padroni e i proprietari terrieri sardi, si badi bene: i cattivi erano e sono sempre gente di fuori!»[13].

In più e oltre l’esaltazione di un passato sensazionale, altre patologie sono tipicamente diffuse nelle manifestazioni culturali, o pseudo tali, dell’intellighenzia provinciale. Esse ben si associano alle riletture apologetiche del “grande passato” e sono rappresentate dal “Cosmopolitismo di maniera” e dal “regionalismo chiuso”. Qui, evidentemente, si introducono temi decisamente gramsciani puntualmente sottolineati da Fresu:

«Gramsci vi vede due deviazioni attive e operanti nella stessa lotta di classe sarda, sia in termini d’un avanguardismo esasperato che separa i potenziali gruppi dirigenti, e in primo luogo gli intellettuali, dal movimento di massa, sia sotto la forma del separatismo e dell’indipendentismo su base regionale, una versione appena più sofisticata di quell’istintiva ideologia dell’”a mare i continentali!” che lo stesso giovane Gramsci aveva conosciuto e praticato. In entrambi i casi il risultato politico consiste nella separazione dei contadini e dei pastori sardi dai loro “fratelli continentali”, nella frammentazione di un potenziale fronte di lotta anticapitalistico, in un vantaggio per l’avversario di classe»[14].

Un’analisi antidogmatica
La Questione sarda, e le letture del ribellismo, tuttavia, hanno una maturazione del tutto particolare all’interno della Questione meridionale e Fresu le analizza superando gli schematismi consolidati appena citati, vagliando criticamente gli studi filo sabaudi, quelli irrimediabilmente chiusi nella vulgata sardista identitaria, o perfino, le elaborazioni figlie delle visioni esotico folkloristiche o della retriva scuola positivistica dell’antropologia criminale.

Fresu, attraverso le griglie interpretative del conflitto di classe[15], propone uno studio attento e per certi versi inatteso e non scontato del banditismo sardo. Uno studio che non indugia in dogmatismi di maniera ma piuttosto supera facilmente le stesse inclinazioni verso impostazioni del materialismo storico sterili e meccaniche[16]. Secondo Fresu gran parte delle contraddizioni sociali a cavallo tra moderno e contemporaneo ruotano attorno al mutamento di regime sociale di produzione rappresentato dalla privatizzazione fondiaria. A monte di questi processi ci sarebbe altresì la tradizionale dialettica tra agricoltura stanziale e pastorizia errante. Umberto Cardia annotava in proposito:

«Il brigantaggio sardo, forma peculiare di banditismo rurale, i cui rudimenti disgregati permangono nelle ultime vicende del nostro secolo, sgorga continuamente, oltre che da radici e motivi di carattere più generale e politico, da quella contraddizione come prodotto organico non della povertà endemica ma del sistema di appropriazione e di gestione della terra e del pascolo»[17].

Un brigantaggio che nelle sue origini storiche non può essere dissociato da aspirazioni di emancipazione e matrici di carattere politico volte a contrapporre una forma “sia pure degradata di libertà” a modelli importati dal continente. Uno spirito di rivolta contro l’oppressione feudale prima e capitalistica poi che nei secoli trascorsi ha registrato il consenso tacito o espresso di intere comunità montane della Sardegna[18].

Note
[1] Quale sintesi dell’amplissimo dibattito in proposito, si veda L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di), La Sardegna (Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi), Einaudi, Torino 1998, pp. XIX-XXIII: «L’identità della Sardegna contemporanea è costituita da una pluralità di fattori, che, come i cristalli di un caleidoscopio, si sono scomposti e ricomposti, offrendoci nel corso del tempo immagini di volta in volta diverse e talvolta contraddittorie».
[2] E. Lussu, Tutte le opere. Da Armungia al Sardismo 1890-1926, a cura di Gian Giacomo Ortu, Aìsara, Cagliari 2008, p. 539. La prima edizione italiana deIl cinghiale del diavolo: caccia e magia è del 1968 per Lerici, Roma.
[3] A. Pigliaru, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina, Il maestrale, Nuoro 2000, p. 139. La prima edizione dello studio è del 1959 per Giuffré, Milano.
[4] F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Einaudi, Torino 2002, v. I, pp. 146-148. La prima edizione italiana del grande lavoro di Braudel è del 1953 sempre per Einaudi.
[5] Ibid.,
[6] Ibid.,
[7] Ibid.,
[8] Ibid.,
[9] Cuec, Cagliari 2011.
[10] Einaudi, Torino 1976.
[11] Come il drammatico scontro sofocleo tra Antigone e Creonte.
[12] G. Lilliu, “Al tempo dei nuraghi”, in La società in Sardegna nei secoli, ERI-Edizioni RAI Radiotelevisione italiana, Torino 1967, p. 11. Passaggio citato anche in Prefazione a G. Lilliu, La costante resistenziale sarda, a cura di Antonello Mattone, Ilisso, Nuoro 2002, p. 79.
[13] G. Angioni, Rapporti di produzione e cultura subalterna: contadini in Sardegna, Edes, Cagliari 1982, pp., 15, 17.
[14] G. Fresu, La prima bardana, cit., n. 7, p. 27, ove è richiamato G. Melis,Antonio Gramsci e la questione sarda, Edizioni della Torre, Cagliari 1977, p. 14.
[15] Engels nella nota recensione a Per la critica dell’economia politica di Marx, scriveva: «L’economia non tratta di cose, ma di rapporti tra persone e, in ultima istanza, tra classi; questi rapporti sono però sempre legati a delle cose e appaiono come cose». In K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 201.
[16] Piuttosto che inverare immagini di uniformità e sacralità del conflitto, Fresu ribadisce una predisposizione antidogmatica che ne tratteggia le contraddizioni. In proposito l’autore richiama alla fine del testo una citazione di Engels tratta da una lettera scritta a Bloch il 20 settembre 1890: «Secondo la concezione materialistica della storia il fattore che in ultima istanza determinante nella storia è la riproduzione della vita reale. Di più non fu mai affermato né da Marx né da me. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l’unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda». In F. Engels, Sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 1949, p. 75.
[17] U. Cardia, Autonomia sarda. Un’idea che attraversa i secoli, Cuec, Cagliari 1999, pp. 37, 38.
[18] G. Fresu, La prima bardana, cit., pp. 42-43

Eugenio Curiel, i giovani e la Resistenza. La generazione che “rottamò” il fascismo.

Eugenio Curiel, i giovani e la Resistenza.

La generazione che “rottamò” il fascismo.

Gianni Fresu

 

I temi del rinnovamento anagrafico e della cosiddetta “rottamazione”, sembrano oggi monopolizzare l’attenzione del dibattito politico, sovente a prescindere dalla proposta avanzata. Nella storia non sono mancate fratture generazionali, tuttavia, i risultati più profondi in termini di rinnovamento si sono avuti quando tra vecchie e nuove generazioni si è determinata una saldatura incentrata sulle scelte di campo. La lotta di liberazione dal nazifascismo è un esempio in tal senso proprio per l’irrompere diffuso di giovani cresciuti nel regime che, nella clandestinità, trovarono un terreno d’incontro con i vecchi protagonisti dell’antifascismo sconfitto da Mussolini. Tra le figure dimenticate, eppure più significative, di quella pagina di storia si può annoverare quella del giovane scienziato e partigiano Eugenio Curiel di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Nato a Trieste l’11 dicembre 1912 da una famiglia benestante di religione ebraica, dopo l’iscrizione in Ingegneria a Firenze e il Politecnico a Milano, si laureò in fisica e matematica a Padova nel 1933 con il massimo dei voti e una tesi sulle disintegrazioni nucleari. Con la docenza universitaria, Curiel iniziò a partecipare anche ai seminari di studi dell’Istituto di filosofia del diritto. Ciò gli diede l’opportunità di curare l’altro versante delle sue passioni intellettuali, facendo i conti con la filosofia idealista di Croce e Gentile per arrivare attraverso Hegel al marxismo, secondo un percorso comune a tanti giovani della sua generazione. A questo periodo risalgono anche i suoi primi scritti e l’avvio di una più matura elaborazine politico-filosofica. Con altri giovani come Atto Braun, Renato Mieli (il padre di Paolo) e Guido Goldschmied costituì la cellula comunista di Padova, quindi nel ’36 stabilì un contatto con il PCI e partì per Parigi. Tra gli esiliati politici, l’arrivo di giovani italiani, che con l’entusiasmo e la voglia di fare si portavano dietro testimonianze dirette della situazione nel Paese, era atteso come una boccata d’aria fresca. Tornato a Padova con le direttive del partito, Curiel dovette fronteggiare la delusione dei suoi giovani compagni, desiderosi di passare all’azione e poco propensi a dedicarsi alle sole attività di penetrazione nelle organizzazioni fasciste indicate dal centro estero del PCI. In coerenza con le direttive ricevute, Curiel iniziò una stabile collaborazione con il giornale universitario fascista “Il Bò”, dove scrisse 54 articoli tra il 1937 e il ’38 curandone la pagina sindacale. Le lunghissime discussioni redazionali si spostarono alle fabbriche, per l’intuizione di confrontare preventivamente le questioni da trattare nel giornale con gli stessi operai. Ciò consentì al gruppo di costruire solidi legami sociali nel mondo del lavoro, poi rivelatisi fondamentali con lo sgretolamento del regime. Ottenuto nel dicembre del 1937 il passaporto per motivi di studio, riuscì tornare a Parigi dove per due mesi ebbe modo di rafforzare sempre più i rapporti con Donini, Grieco e Sereni. Curiel avrebbe voluto dedicarsi totalmente all’attività clandestina, ma il centro estero lo convinse a sfruttare fino all’ultimo gli spazi legalitari che ancora gli erano rimasti e di non rinunciare né al suo lavoro universitario, né all’attività nei GUF. Nel 1938, abbandonata la collaborazione con “Il Bò” ed estromesso dall’Università per la promulgazione delle leggi razziali, Curiel tornò a Parigi in una fase difficilissima per le forze antifasciste, con la Guerra Spagnola avviatasi verso una tragica sconfitta e dissidi sempre più grossi tra le forze della sinistra. Gli offrirono diverse sistemazioni lavorative sicure in Francia, Svizzera e persino negli USA USA – dove ebbe l’opportunità di partire per fare da insegnante al figlio di uno dei più importanti magnati dell’industria cinematografica, Luis Burt Mayer – ma li rifiutò tutti per non abbandonare la sua militanza e l’impegno antifascista nel Paese. Fermato dalla polizia svizzera nel maggio fu arrestato nel mese di giugno. Sottoposto a interrogatorio a San Vittore e mandato al confino a Ventotene, dal gennaio1940, Curiel si dedicò allo studio e alla formazione dei confinati antifascisti. Lasciata Ventotene, dopo tre anni, insieme agli altri confinati, Curiel tornò in libertà proprio alla vigilia dell’8 settembre. Trasferitosi a Milano, su indicazione della direzione Alta Italia del PCI, con il compito di creare il Fronte della Gioventù, curare l’edizione settentrionale de “l’Unità” e della rivista “La nostra lotta”, diventò il «partigiano Giorgio». Dopo una medaglia d’oro al valor militare, una lapide e un inno partigiano a lui dedicato, di questa singolare figura, tanto interessante da meritare una sceneggiatura cinematografica, rimangono alcune vecchie pubblicazioni e il ricordo degli ultimi testimoni di quella storia. La generazione di Curiel diede alla guerra di liberazione una parte consistente di quadri e la sua base di massa. Giovani cresciuti nel regime, ma capaci di emanciparsi dal fascismo, aderire all’opposizione e affiliarsi nelle formazioni partigiane. Tra le vecchie generazioni di antifascisti, in gran parte esuli sconfitti anche se non piegati dal fascismo, e questi giovani inquieti e insoddisfatti dal regime c’era un salto generazionale, ciò nonostante tra essi si determinò una saldatura fortissima destinata a costituire la spina dorsale della Resistenza. I leaders del vecchio movimento antifascista, costretti all’emigrazione dopo il carcere e le violenze subite, senza l’apporto delle nuove generazioni difficilmente avrebbero potuto raggiungere una tanto vasta mobilitazione contro il movimento di Mussolini. Le nuove generazioni allevate a “pane e fascismo” e non “contaminate” dal germe delle ideologie liberali, democratiche o marxiste, quelle su cui il regime tanto aveva puntato e da cui doveva venir fuori «l’uomo nuovo fascista», si rivelarono in definitiva il suo punto debole. Il 24 febbraio 1945, dopo aver pranzato in ufficio con la sua compagna, con Arturo Colombi e con altre due giovani collaboratrici e aver discusso il piano del numero de “l’Unità” in preparazione lasciò la redazione, riconosciuto sulla strada da un delatore, fu raggiunto e ucciso da una squadra fascista. Curiel morì a due mesi dalla liberazione di Milano, non aveva ancora compiuto 33 anni. Le cronache narrano che sul suo sangue un’anziana fioraia milanese gettò una manciata di garofani rossi. Tra tutti, per concludere, il ricordo dell’amico Giorgio Amendola: «Passammo, così, anche l’ultima notte del ’44, e salutammo con gioia il nuovo anno, quello della vittoria ormai certa. Ci vedemmo ancora una volta, qualche settimana dopo, e ci lasciammo in quel bar, all’angolo di Corso Magenta, da cui sarebbe uscito il 24 febbraio per andare in Piazzale Baracca incontro alla morte, alle pallottole dei fascisti. Anche la sua vita fu gettata nel rogo, come quella di tanti altri giovani. Ed il suo sacrificio, così crudele alla vigilia della liberazione, ha fatto di Eugenio Curiel, medaglia d’oro, un simbolo, il capo della gioventù della Resistenza». Quei giovani anteposero un ben preciso progetto, abbattere il regime e ricostruire da zero la democrazia, alla velleitaria pretesa di tagliare orizzontalmente ogni rapporto con le vecchie generazioni, non solo con quelle responsabili della dittatura, ma anche con chi lo aveva combattuto, seppur perdendo. Scelsero piuttosto di “rottamare” il fascismo.

 

 

 

 

Anche a sinistra nella politica domina l’immagine (La Nuova Sardegna,21 ottobre 2012)

È evidente a tutti la profonda crisi del sistema politico italiano e dei suoi partiti, eppure non stiamo parlando di “partiti storici”, bensì di organizzazioni nate recentemente, al massimo venti anni fa. Paradossalmente l’Italia ha insieme il sistema di partiti più giovane e maggiormente in crisi tra le nazioni europee, dove invece sono in campo organizzazioni storiche che affondano le loro radici non solo nel tanto detestato Novecento (il cosiddetto “secolo delle ideologie”), ma persino nell’Ottocento. I vecchi partiti (socialdemocratici, cristiano-democratici, liberali, conservatori o della sinistra di classe) di Paesi come Francia, Germania, Inghilterra, Austria, Spagna, Portogallo, continuano a rinnovare le rispettive classi dirigenti, senza per questo fondare nuove organizzazioni a ogni sussulto storico, e hanno uno stato di salute ben maggiore dei giovani ma acciaccati partiti nostrani. Tuttavia questo non è il solo paradosso italiano. In questi mesi in tanti celebrano la fine del berlusconismo, inteso come forma moderna di populismo conservatore, imperniato sull’abile uso della comunicazione di massa, l’adozione spregiudicata di parole d’ordine accattivanti sul piano mediatico, l’idea dell’uomo solo al comando («ghe pensi mi!») capace di risolvere,  grazie a doti individuali e storia personale, tutti i problemi che affliggono i cittadini. A guardare bene, se anche fosse vera la fine politica di Silvio Berlusconi, dovremmo comunque parlare di una vittoria postuma del berlusconismo, e non solo nel suo campo politico. Questo discorso vale almeno per due aspetti: la spettacolarizzazione mediatica della politica; la personalizzazione carismatica del messaggio politico. Sul primo non ho modo di soffermarmi per ragioni di spazio, ma basta guardare lo scenario attuale (traversate a nuoto dello stretto di Messina, monologhi con piglio da telepredicatore del sindaco che sta attraversando l’Italia in camper per portare il verbo della “gioventù al potere”, autonarrazioni familiari nelle quali dovrebbero riconoscersi gli italiani, a fianco di una pompa di benzina, e via dicendo) per vedere come il fenomeno non possa più essere circoscritto solo al campo del centro destra. Sul secondo, invece, la “berlusconizzazione” della politica italiana è evidente in primo luogo per un fatto: oggi la gran parte dei partiti politici italiani reca o ha portato nei rispettivi simboli il nome del proprio leader.  Ma la manifestazione più plateale di questa vittoria postuma viene dalle modalità con cui si sta conducendo la campagna per le primarie, dalle quali sta emergendo una insopprimibile, e insopportabile, tendenza al “culto della personalità” dei diversi candidati. Questa incarnazione nominalistica di una linea nella figura e nella biografia personale del leader, è un carattere di semplificazione del messaggio politico tipicamente berlusconiano, sulla cui efficacia è legittimo nutrire più di un dubbio. Se si pensa di risolvere il problema del rapporto di rappresentanza con forme attualizzate di cesarismo, evidentemente, non si è compresa o non si conosce la lezione della storia e ben poco si è capito dell’attuale crisi. La politica, se realmente vuole ricomporre la frattura tra rappresentati e rappresentanti, deve ricostruire questo rapporto su altre basi, realmente collegiali, piuttosto che assegnare deleghe passive al demiurgo di turno. Personalmente alla politica in mano ai capi carismatici preferisco l’idea dell’intellettuale collettivo, nella convinzione che le due cose non sono solo diverse, ma incompatibili. Possiamo discurere a lungo sull’attualità o inattualità di un pensatore come Gramsci, ma siamo realmente convinti che quanto abbiamo sotto gli occhi in questi giorni sia il tanto invocato rinnovamento, la risposta “nuova” alla cosiddetta crisi della politica?

Un’isola in ostaggio.

Un’isola in ostaggio.

La trattativa Stato-mafia come pratica organica e permanente di autodifesa nella storia repubblicana.

Rileggendo le pagine più oscure della storia italiana nella seconda metà del Novecento, emerge come la Sicilia, tra strategia della tensione, Mafia, servizi segreti, si situi al centro di trame di cui è possibile comprendere il senso storico senza però conoscerne completamente la verità processuale. Oggi quelle pagine tornano di attualità, per l’inquietante coinvolgimento dei massimi vertici dello Stato in una trattativa scellerata con la mafia nel vivo della sua più efferata azione stragista. Più in generale, esiste un problema di verità storica e processuale, che riguarda il ruolo di apparati dello Stato e di servizi stranieri, in un arco temporale assai più ampio. Come oramai è noto a tutti, l’attività invasiva dei servizi segreti americani sul territorio italiano è nata con lo sbarco in Sicilia del 1943. Qui si ha anche l’inizio vero e proprio della strategia della tensione con la strage di Portella della Ginestra. L’antefatto della strage del primo maggio 1947 risiede nelle elezioni del 20 aprile per l’Assemblea regionale, segnate da un inaspettato successo del Blocco del popolo – (PCI, PSI, Partito d’Azione), passato dal 21% del 2 giugno 1946 al 30,4% – un arretramento della DC, che perse quasi il 13% dei voti, e il ridimensionamento di Monarchici, Uomo Qualunque e Movimento per l’indipendenza della Sicilia, vale a dire, le forze dietro cui si concentravano i gruppi di latifondisti e possidenti decisi a bloccare la strada a qualsiasi ipotesi di mutamento nei rapporti sociali delle campagne. Un risultato che s’inseriva in un generale processo di crescita politica e sindacale delle masse contadine siciliane, sfociato nelle occupazioni delle terre incolte e nel movimento rivendicativo per la riforma agraria. La manifestazione del primo maggio, con il comizio sul «sasso sacro in memoria di Nicola Barbato», riprendeva una tradizione le cui origini risalivano al movimento dei fasci siciliani, una festa popolare, e quell’anno assumeva un significato del tutto nuovo e particolare. Gli undici morti e cinquantasei feriti lasciati sul terreno erano il primo emblematico atto della guerra mossa ai movimenti di rivendicazione sociale in Italia nel dopoguerra. Questo episodio conteneva già gran parte delle chiavi utili a comprendere i successivi cinquant’anni di violenze e stragi impunite, con tutto il loro carico di complicità e coperture, provenienti dalle forze di sicurezza dello Stato italiano e degli USA. Una strage annunciata, preceduta dagli omicidi dei sindacalisti a Ficarazza, Partinico e Sciacca. Per uno strano gioco del destino, sempre in Sicilia sembra terminare, o forse intraprendere altri percorsi, la storia della rete operativa Gladio. Tra le tante anomale articolazioni di Gladio, che meriterebbero attenzione e ulteriori approfondimenti – specie ora che riemerge con consistenza l’ombra inquietante dei servizi segreti sulla strage del giudice Borsellino e della sua scorta – c’è sicuramente il Centro Scorpione istituito dalla struttura di Gladio a Trapani nel 1987, proprio nel periodo in cui si celebrava il Maxiprocesso alla mafia (sviluppatosi tra il 10 febbraio 1986 e il 16 dicembre 1987). Le anomalie mai chiarite di questo centro sono molteplici, tuttavia, nel periodo e nel territorio in cui operò il Centro Scorpione vi furono alcuni omicidi eccellenti ed emblematici insieme: Giuseppe Insalacco (per tre mesi sindaco di Palermo nel 1984), protagonista di clamorose denunce delle collusioni tra mafia e politica, ascoltato anche dalla Commissione antimafia. Insalacco fu ucciso insieme al suo autista il 12 gennaio 1988. Dopo la morte fu trovato un suo memoriale in cui accusava diversi esponenti della DC palermitana, per la commistione con la mafia nel sistema di gestione degli appalti e del potere cittadino; il giudice Antonio Saetta, impegnato in numerosi processi alla mafia. Saetta in particolare si trovò a presiedere il processo a Giuseppe Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonna, per l’uccisione al capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Il processo, conclusosi in primo grado con una sorprendente e molto discussa assoluzione, decretò, invece, in appello, la condanna degli imputati alla massima pena, nonostante i tentativi di condizionamento effettuati sulla giuria popolare, e, forse, sui medesimi giudici togati. Pochi mesi dopo questa sentenza, il 25 settembre 1988, il Giudice Antonio Saetta e il figlio Stefano vennero assassinati; Giovanni Bontate – fratello del boss Stefano, secondo i collaboratori di giustizia molto vicino ai vertici nazionali e regionali della DC, assassinato nel 1981 – coinvolto nel maxiprocesso e ucciso insieme alla moglie il 28 settembre 1988; Mauro Rostagno, impegnato nella lotta per il recupero dei tossicodipendenti in Sicilia e in prima linea nel denunciare gli intrecci tra mafia e politica, ucciso il 26 settembre del 1988. Ora, anche senza lasciarsi andare a troppe congetture, è quantomeno singolare che una struttura d’intelligencedotata di mezzi (persino un aereo e una pista d’atterraggio a propria disposizione), operante in quel territorio, non fosse stata in grado di reperire informazioni utili prima e dopo i diversi omicidi. Nella struttura peraltro operava un agente di spicco come Vincenzo Li Causi, coinvolto in diverse vicende poco chiare e dai profili decisamente illegali. Permangono insomma ampie zone d’ombra sulle effettive funzioni di questo centro operativo in una zona e in un periodo caldi, densi di avvenimenti drammatici. Dalla lettura degli atti sorgono spontanee quattro domande che ora, in una fase nella quale si discute con meno pudore della trattativa Stato-Mafia, sarebbe il caso di affrontare: la storia di Gladio, con la fine della guerra fredda, può dirsi realmente conclusa o semplicemente essa si è trasformata in altro? Può essere che la vicenda ad anello delle trame oscure in Italia in realtà non sia tale? Può essere che in Sicilia essa abbia avuto un primo ed un secondo inizio – conseguente al mutare dello scenario internazionale – piuttosto che un inizio ed una fine come in tanti hanno affermato? La storia italiana del dopoguerra è stata spesso interpretata con la chiave di lettura della «democrazia bloccata», in gran parte dei casi, ricondotta esclusivamente ai condizionamenti imposti dal fronteggiarsi sul piano internazionale dei due blocchi contrapposti. Se tutto questo trova puntuale conferma sul piano storico, non è comunque sufficiente a spiegare i limiti di funzionzmrnto democratico del Paese. Le pagine più oscure della «guerra a bassa intensità» combattute in Italia nell’epoca della guerra fredda avevano un concorso di cause solo in parte riconducibili a Roma, tuttavia, anche se si accettasse integralmente questa ipotesi, ciò chiamerebbe comunque in causa una debolezza congenita delle classi dirigenti italiane incapaci di resistere a sollecitazioni esterne di tale gravità. Una cosa è certa, l’utilizzo da parte dello Stato degli strumenti coercitivi legali e illegali e la pianificazione della strategia della tensione, per la difesa dello stato di cose esistenti, sono il segno evidente di un deficit di egemonia delle classi dirigenti in Italia.  La trattativa Stato-mafia non può certo essere circoscritta alla stagione stragista dei primi anni Novanta. Come è oramai appurata la sinergia tra apparati dello Stato ed eversione neofascista per difendere gli equilibri politico sociali, consolidatisi a partire dalle elezioni del 1948, così il rapporto con organizzazioni malavitose come la mafia è un dato organico della storia di questo Paese, specie nelle sue fasi di crisi. Come altre volte in passato, la magistratura ha iniziato a fare chiarezza su certe inconfessabili modalità, del tutto antidemocratiche, di autodifesa del potere politico in questo Paese. Chiarite le verita processuali, speriamo, su questo dovranno interrogarsi gli storici in  futuro, indagando senza blocchi e autocensure le storie individuali e collettive delle classi dirigenti italiane con tutte le loro contraddizioni. Il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia sarebbe potuta essere un’occasione propizia per iniziare a farlo, purtroppo, in gran parte, si è preferita strada dell’agiografia, la rappresentazione retorica e oleografica di un grande album di famiglia nel quale tutti gli italiani avrebbero dovuto riconoscersi.

 

Gianni Fresu

“L’autista aveva gli occhi chiusi”

“L’autista aveva gli occhi chiusi”
(In risposta all’articolo I miracolati della corriera, di Rosangela Erittu, “L’Unione Sarda” del domenica 29 luglio 2012, pagina 37)

Mi chiamo Gianni (all’anagrafe Giovanni) Fresu, come mio padre, autista delle autolinee Satas, in tempi nei quali guidare “su postale” non era proprio la migliore delle occupazioni possibili: stipendi bassi, eufemismo per non dire da fame, ritmi di lavoro e turni massacranti, mezzi cui spesso era negata o limitata al minimo la manutenzione. Un’azienda privata perennemente in crisi, le cui prospettive fosche si accompagnavano a fasi nelle quali, con il futuro, era incerto anche il presente delle retribuzioni in arretrato. Bisognava porre fine a quella condizione, i lavoratori della Satas iniziarono una vertenza durissima per l’acquisizione pubblica dell’azienda e dei relativi servizi di trasporto: scioperi, agitazioni, la lunga occupazione della stazione autolinee di Cagliari, mesi e mesi di stipendi, già di per sé magri, in fumo, debiti insostenibili contratti dalle famiglie per far fronte all’emergenza, tra queste anche la mia. Passata la nottata, vinta la battaglia (il 9 giugno del 1970 fu istituita con legge regionale l’ARST) per i lavoratori Satas tornò il tempo del lavoro in una fase di transizione dal vecchio al nuovo comunque non ancora priva d’incognite, nella quale autisti, bigliettai e operai della ex Satas si trovarono costretti a lavorare senza sosta per recuperare quel reddito perso nei tanti mesi senza salario, in un contesto confusionario nel quale potevi essere chiamato in servizio senza alcun preavviso, buttato giù dal letto e messo su vetture spesso con i freni, e non solo, in disordine. Non a caso in quel periodo si moltiplicarono gli incidenti che vedevano coinvolte le linee ex Satas. Acadde così il quattro giugno 1972. Mio padre non doveva lavorare, anzi quel giorno avrebbe dovuto assistere al provino per il “Cagliari calcio” del suo figlio maschio più grande, 10 anni. Un giorno atteso da mesi, una gioia per entrambi, che li spinse la sera prima a fare le prove di dribling con le bottiglie disposte nell’andito di casa. Poi una chiamata improvvisa, bisogna sostituire un collega, presa di servizio la mattina presto per la tratta che da Cagliari conduceva per le tortuose strade dell’Ogliastra e addio ai sogni da coltivare a bordo campo, il piccolo Diego farà il provino da solo, senza il conforto e lo sguardo rassicurante del babbo, come per tutto il resto della sua vita dovrà abituarsi a fare lui, le due sorelle, i due fratelli, la mamma. Era una mattinata caldissima, soffocante, e la corriera con venticinque persone a bordo, tra un tornante e l’altro, terminò la sua corsa in una scarpata di Talana, dieci le vittime. Scrivo queste cose non perché voglio tediare con le vicende personali della mia famiglia, ma perché sono rimasto quanto meno amareggiato nel leggere l’articolo I miracolati della corriera, (“L’Unione Sarda” del 29 luglio 2012, pagina 37) dedicato a quell’evento tragico attraverso la testimonianza dei superstiti. Sì perché tutto quel che si può leggere di quell’evento è una frase di questo tenore: «prima che il pullman precipitasse l’autista aveva gli occhi chiusi». Nient’altro, nessuma precisazione, quasi che mio padre avesse gli occhi chiusi perché stesse dormendo, fosse ubriaco o chissà cosa. No, non andò così, mio padre, come tanti suoi colleghi, costretto a non rifiutare turni pesantissimi e straordinari, non era ubriaco, non stava dormendo. Prima del volo ebbe un malore e fu colto, come anche l’autopsia chiarì, da infarto alla guida del mezzo, su una strada infame, abbandonata, come lo è oggi, al suo destino sotto il sole di una caldissima giornata di giugno. A rendere ancora più triste il tutto, l’elicottero che lo trasportò in fin di vita atterrò proprio nel campo di calcio Coni, sede del provino del piccolo Diego. Giovanni Fresu morì dopo quattro giorni di agonia in stato comatoso, non aveva ancora compiuto 37 anni, aveva una moglie e quattro figli piccoli, io sono nato due mesi dopo. Con lui morirono il suo collega Bruno Corso e i passeggeri che ebbero la sventura di salire, come ogni giorno, su quella maledetta corriera. Come tutti gli incidenti sul lavoro, anche quello di mio padre, non fu una fatalità e nemmeno un evento causato da suo dolo o comportamento scorretto. Ci tenevo a precisare questi fatti non perché mi aspettassi di vedere “nero su bianco” i retroscena di quanto accadde (in casa nostra abbiamo ancora conservati tutti gli articoli usciti in quei giorni su “L’Unione sarda”, “L’Unità”, “Famiglia cristiana”) ma per ristabilire una verità storica, offuscata o resa poco comprensibile da una frase lapidaria, il cui significato può essere interpretato in qualsiasi modo. Per noi quel volo, giù per il burrone, non si è mai concluso, quasi a non voler sentire il frastuono dello schianto, quasi a non voler vedere la ferraglia contorta e tutto quel che essa conteneva. Da quel giorno abbiamo vissuto sospesi in attesa della fine del servizio, del suo rientro a casa da lavoro, e a volte bastano poche parole per farci ritornare tutto in mente. Sia chiaro, nessuna malafede, ma forse, quando si ha a che fare con le ferite mai ricucite e i drammi di famiglie come la mia, non una sagra o un banale fatterello di cronaca, un giornalista dovrebbe evitare le approssimazioni e magari approfondire meglio ciò di cui intende scrivere.
Cordiali saluti
Gianni Fresu, figlio di Giovanni Fresu.

Recensione a “La prima bardana” di Graziano Pintori, “Manifestosardo”.

 

Fonte:  “Manifestosardo”, numero 126, 16 luglio 2012 (http://www.manifestosardo.org/?p=14502)

“La prima bardana” è il risultato di uno studio serio e diligente di Gianni Fresu, il quale si è preso la briga di approfondire il periodo in cui furono aboliti gli ademprivi – ovvero l’uso civico dei pascoli, la raccolta del legnatico, l’utilizzo delle fonti ecc. – a vantaggio della proprietà privata. “La prima bardana” non è un titolo a caso, lo leggo come la denuncia di un atto criminoso, voluto e legalizzato dai piemontesi con il Regio editto sopra le chiudende; fu un atto che consentì l’appropriazione delle terre da parte di ex feudatari, da benestanti avidi e prepotenti, in combutta con la locale classe politica, sempre prona e sodale “chin sos imbasores”. Fu l’imposizione di un atto legislativo incongruente rispetto alle aspettative della vasta comunità dei poveri.
Da questa ingiustizia storica ebbe origine il banditismo, il quale, sotto certi aspetti, assunse caratteri politici/sociali: una rivolta armata “contra sa prepotentzia e sos malos usos ”. Dal lavoro di Fresu si coglie il continuum storico della Sardegna dal ‘700, lungo l’800 e tutto il secolo breve, con accentuazioni sociologiche ancora vive in questo scorcio del nuovo millennio. Sono tre secoli di storia sarda in cui cambiano personaggi, voci e suoni, ma il senso dello Stato, esattore e carabiniere, non muta nel rapporto con i sardi. Come pure l’economia isolana continua ad essere imposta dalle strategie dei mercati nazionali ed internazionali, senza trovare ostacoli di sorta da parte della rappresentanza politica regionale, che, in quanto a subalternità al potere costituito ed al trasformismo avrebbe poco da rimproverare a Depretis,. Non a caso gli avvenimenti narrati si snodano lungo il filo della imposizione di un nuovo modello di sviluppo, alternativo all’attività economica sociale radicata da millenni nella cultura resistenziale della pastorizia errante.
In questa pratica antica i piemontesi individuarono, a loro modo, l’origine di tutti i mali, il freno alla modernizzazione e al rifiorimento della Sardegna. Gli abitanti delle zone interne, dove questa pratica suggeva linfa e vitalità, furono identificati come il fulcro “reberde a sas mudassiones “, perciò sottoposti ad una continua repressione poliziesca, giustificata anche dal fatto che questi erano portatori di tare delinquenziali.
Oggi, nei tempi di Monti, BCE e mercato globale il termine colonizzazione può suonare un po’ obsoleto, però su quest’isola conserva tutta la sua efficacia e attualità. Partiamo dall’industria casearia, la quale, da qualche secolo e più, opera nell’isola indisturbata. Gli industriali impongono ai produttori il prezzo del latte stabilito dal loro cartello, da cui hanno origine le ragioni delle numerose lotte dell’odierno movimento dei pastori. Alla pari le attuali proteste contro Equitalia, ossia lo stato esattore, da parte del popolo delle campagne sono causate dalla vertiginosa lievitazione delle spese e degli interessi sui prestiti ipotecari, in cui si intravvedono le analogie con quelle che furono le imposte sabaude: molto più alte del valore della terra affidata.
La Chimica, lo sfruttamento energetico, l’occupazione militare, con tutti gli effetti devastanti sugli abitanti e sul territorio, sono il frutto di un regime coloniale barbicatosi prima con i piemontesi, poi con lo stato unitario e oggi pianificato dalle multinazionali, con l’assenso del governo centrale e quello dei mallevadori locali della RAS. “La prima bardana” arricchisce la storiografia sarda anche perché sottopone al lettore, in modo neutrale, i riferimenti al marxismo, relativamente all’accumulazione delle proprietà da parte dell’insaziabile borghesia; il libro suscita il giusto interesse perché cita Gramsci rispetto alla dialettica città-campagna, indica la questione meridionale come il mezzo più idoneo per addentrarci nelle origini della questione sarda.
Inoltre, il lettore può riflettere sulle interessanti analisi storiche e politiche di R. Laconi, U. Cardia, G. Sotgiu, I. Birocchi e altri. Per di più, se da un lato il Risorgimento Italiano storicamente inteso come ampio movimento per l’affermazione nazionale, per la libertà e l’unità d’Italia, in Sardegna si rivelò come un profondo disastro sociale ed economico. Per la Sardegna il Risorgimento non fu, sicuramente, un ritorno alla vita…anzi. L’antico detto sardo: “su nimicu benit dae su mare” non fu smentito dagli effetti del Risorgimento Italiano, ma contribuì a perpetuarlo nel tempo, tanto che ancora oggi è vivo in tutto il suo drammatico significato.
Sfidando i miei limiti sono voluto intervenire sul libro di Fresu semplicemente perché mi è piaciuto. Mi sono sentito coinvolto dall’opera perché certi temi ho già avuto modo di trattarli sul ‘manifesto sardo’ (numeri 114 e 115), in cui mettevo in rilievo come, ancora oggi, i possidenti terrieri assenteisti continuino ad arricchirsi, alla stregua di chi possiede una inesauribile e preziosa miniera a cielo aperto.
Il libro di Fresu l’ho letto come si legge la storia di una terra colonizzata, segregata non dalla geografia ma da scelte politiche ed economiche ben definite.
E’ un libro che non concede spazi al folclore, agli inutili e soliti piagnistei dei perdenti, non concede spazi all’eccessiva considerazione di se stessi, come popolo sardo, che, per citare Angioni, “ identifica il bene con la tradizione locale e il male con tutto ciò che non lo è”.

Graziano Pintori.

 

Eutanasia delle cattive abitudini. Andare oltre l’esistente, per una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti.

Eutanasia delle cattive abitudini.

Andare oltre l’esistente, per una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti.
G. Fresu

La storia è segnata da fasi lunghe e rettilinee, contraddistinte da una certa uniformità, e da improvvisi tornanti, sovente premessa di radicali cambiamenti nei modi di produzione, negli assetti delle relazioni sociali e politiche. Il senso progressivo o regressivo di queste svolte non è inscritto deterministicamente nelle leggi dell’economia, nei processi di evoluzione sociale e, meno che mai, nel destino ineluttabile dell’umanità. Come il primo, vittorioso, assalto al cielo nella storia del Novecento sta a dimostrare, le contraddizioni oggettive dell’attualità possono dar luogo a grandi salti storici se, sul piano soggettivo, esistono realtà sociali e politiche capaci non solo di leggere il presente, bensì dare una prospettiva alle grandi masse popolari, facendole irrompere nella scena politica. Mi è già capitato di dirlo, in assenza di ciò, in fasi di crisi organica come questa, sono le classi subalterne a correre i maggiori rischi, poiché le classi dirigenti tradizionali dispongono di quadri e personale dirigente più addestrato, sono capaci di modificare uomini e programmi riacquistando il pieno controllo di una realtà che gli andava sfuggendo, mantenendo il potere e utilizzandolo per rafforzare la propria posizione. Le crisi organiche sono generalmente dominate dalle «rivoluzioni passive», vale a dire, fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le “riforme” vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Oggi siamo di fronte ad un gigantesco tentativo di ristrutturazione internazionale dei rapporti sociali e di produzione da parte delle classi dominanti, la cui portata potrà essere valutata appieno solo tra venti o trenta anni. La crisi organica del capitalismo mondiale, il susseguirsi di una serie infinita di guerre imperialistiche legate alla lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche, l’intensificarsi nel nostro Paese dell’offensiva padronale contro il mondo del lavoro, hanno fornito più di una conferma oggettiva all’esigenza di un Partito non solo genericamente di sinistra, bensì di un’organizzazione che fondasse la sua ragion d’essere su una inequivocabile scelta di campo all’interno del conflitto capitale lavoro. Alle conferme oggettive si sono sommate quelle soggettive: a dispetto di chi per trent’anni ha preconizzato la fine del conflitto sociale e l’inutilità di un’organizzazione autonoma delle classi subalterne, in questi due anni è salita quasi spontaneamente, dal mondo del lavoro e dalle realtà del disagio sociale, la richiesta di una salda rappresentanza sociale e politica, seria e credibile, capace di andare oltre la classica oscillazione schizofrenica tra settarismo e opportunismo. Nonostante la presenza simultanea di questi fattori, a tutt’oggi, manca un soggetto politico in grado di incarnare questa enorme esigenza di protagonismo sociale delle classi subalterne. Bisogna fare un’analisi disincantata, franca e senza indulgenze: quel soggetto non è e non può essere la Federazione della sinistra, né, tanto meno, i singoli partiti che la compongono. La Federazione è nata all’interno di un lungo processo dialettico nella sinistra, con la felice ambizione di porre fine alle lacerazioni e al processo inesauribile di scissioni, più o meno significative. A questo processo dialettico, però, è mancato il salto decisivo, il mutamento dalla mera quantità, puramente sommatoria, alla qualità nella natura dei rapporti federativi. L’infinita transizione verso il nuovo soggetto si è trasformata in una stasi paludosa, capace di mortificare l’entusiasmo di qualsiasi spinta volontaristica all’impegno militante. Tra rallentamenti, fughe in avanti e ripiegamenti repentini, nei fatti, non siamo stati capaci di trasformare il Progetto della Federazione della Sinistra in un soggetto organico con strutture dirigenti, intermedie e di base, e una proposta politica sottoposta a verifica democratica. Abbiamo preferito una costante mediazione su tutto, la ricerca dell’unanimismo, con il risultato di minarne la credibilità, la capacità attrattiva e, in ultima analisi, la tenuta elettorale. A partire dalla presentazione della lista comunista e anticapitalista alle ultime elezioni europee, il progetto della Federazione della Sinistra ha suscitato diverse speranze e molteplici aspettative, via via deluse dal prevalere di logiche che si speravano superate. Il congresso della Federazione, in realtà poco più di un attivo nazionale dei quadri, è stata un’occasione mancata, perché la scelta di determinare organismi dirigenti pletorici, sulla base di quote predeterminate, senza vagliarne il peso a tutti i livelli con congressi veri, ha impedito di risolvere il problema prioritario che la Federazione vive a livello nazionale e locale: la sovranità e l’effettiva capacità decisionale degli organismi federativi rispetto ai soggetti fondatori; la capacità di operare delle scelte politiche andando oltre la drammatica alternativa tra unanimismo e separazione. Se vogliamo essere sinceri fino in fondo, allo stato attuale, la Federazione è poco più di un cartello elettorale, perennemente impastoiato in micro conflitti interni. Tra i soggetti fondatori, rispetto alla reciproca lealtà e alla solidarietà attiva, hanno finito per prevalere deteriori mire egemoniche e controegemoniche. Se il Congresso (non congresso) della FdS è stata un’occasione mancata, i due recenti congressi nazionali di PRC e PdCI, ognuno, a suo modo, autoreferenzialmente ripiegato su sé stesso, sono la logica traduzione di quel fallimento. Il 2010-’12 sarebbe dovuto essere il triennio della svolta e non solo non lo è stato, nonostante il contesto oggettivo di crisi del capitalismo, ma ha rappresentato una fase di ulteriore ripiegamento. Alla Federazione è mancata con una strategia la solidarietà tra i soggetti fondatori, e così il criterio ispiratore del suo agire ha finito per essere una sorta di pilatesca “mano invisibile”: non potendo fare di meglio, ci siamo limitiati a lasciare campo alle libere fluttuazioni tra i soggetti fondatori, nell’assurda speranza che la competizione internatra PRC e PdCI potesse essere tutto sommato positiva. Oggi la Federazione non ha forza attrattiva, non è capace di raccogliere il voto di protesta, né quello alla cui base sta una coerente visione del mondo, così come non riesce a essere elemento catalizzatore del profondo malessere nella costruzione di una seria opposizione sociale. Esistono al di fuori di noi tantissimi soggetti collettivi impegnati sul piano sociale o culturale, milioni di singoli individui costretti alla solitudine politica potenzialmente interessati a un progetto di classe. Sono tanti gli italiani che non trovano seducente né la permanente vocazione al compromesso privo di riferimenti sociali del PD, né le allucinazioni carismatiche di una sinistra senza aggettivi, edificata per cooptazione attorno alle narrazioni immaginifiche del suo leader. Molti di questi sono transitati nelle nostre organizzazioni, o magari hanno guardato a noi con simpatia, ma si sono allontanati senza trovare, poi, nella Federazione un progetto credibile e organico capace di riattivarne la partecipazione. Personalmente ho creduto profondamente alla nostra aspirazione federativa e ho ritenuto i partiti fondatori un valore aggiunto di questa processualità. Oggi non la penso più allo stesso modo, al contrario, ritengo un ostacolo, alla ricomposizione di un quadro sociale più avanzato, la persistenza delle singole organizzazioni. Occorre andare oltre i nostri partiti e la stessa federazione, azzerare tutti gli organismi dirigenti, per dar corso a una nuova costituente dei comunisti e degli anticapitalisti nel nostro Paese: non si tratta solo di rimettere in moto, con l’entusiasmo e il senso di appartenenza, un ingranaggio inceppatosi, occorre con coraggio costruirne uno nuovo perché quello attuale è oramai inadeguato. Non può più bastare la militanza per inerzia, lo sforzo individuale, spesso ingrato e faticosissimo di dirigenti e militanti del PRC e del PdCI, occorre raccogliere la sfida di una fase ricca di incognite e insieme potenzialità come questa e, da comunisti, saper rilanciare abbandonando “boria di partito” e posizioni consolidate. Serve, con umiltà e apertura, un approccio disinteressato verso tutti quei comunisti e anticapitalisti attualmente non attratti dalle nostre organizzazioni, per questo un processo di questo tipo deve avere come sua premessa essenziale l’azzeramento degli organismi dirigenti esistenti, l’eutanasia di tutte le cattive abitudini che hanno contraddistinto il nostro operare.