Eugenio Curiel, di anni 33 – Un grande antifascista da non dimenticare

Eugenio Curiel, di anni 33.

Un grande antifascista da non dimenticare.

Gianni Fresu

A Sessantacinque anni dalla liberazione dal nazifascismo, in un contesto segnato da una inarrestabile emergenza democratica che ha molti punti di contatto con la capitolaziona dello Stato liberale negli anni Venti, è tutt’altro che retorico soffermarsi sul significato e sul valore della Resistenza. Tra le figure dimenticate di quella pagina di storia che riscattò il popolo italiano dall’infamia del fascismo si può annoverare quella del giovane partigiano Eugenio Curiel, che fu insieme scienziato e combattente per la liberta’. Curiel, nato a Trieste nel 1912 da una famiglia benestante di religione ebraica, dopo l’iscrizione in ingegneria a Firenze e il politecnico a Milano si laurea a Padova nel 1933 con il massimo dei voti in fisica e matematica con una tesi sulle disintegrazioni nucleari, a soli 21 anni, quindi inizia a lavorare all’Università come assistente. Nonostante la sua formazione e attività scientifica il giovane Curiel trova negli studi filosofici uno stimolo nuovo e totalizzante che lo porta prima ad avvicinarsi al materialismo storico e poi all’antifascismo militante, iscrivendosi al Partito comunista nel 1935. Nel 1936 avvenne la prima presa di contatto di Curiel con il Centro Estero del PCd’I grazie a un amico studente alla Sorbona, a Parigi, in un contesto segnato dai fermenti politici dell’antifascismo e dalla mobilitazione internazionale in difesa della Spagna repubblicana. Prima di partire discusse a lungo dell’organizzazione di una attività clandestina con i suoi compagni a Padova. Tuttavia, dopo il suo rientro da Parigi, orientò i suoi compagni ad un lavoro legale di massa attraverso la penetrazione nelle stesse organizzazioni sociali del regime tra lo sconcerto della cellula comunista composta di giovani che si aspettavano ben altro tipo di azione. Così, ricorda l’episodio Renato Mieli:

ci spiegò anzitutto il carattere di classe della dittatura fascista. Come avremmo potuto un giorno liberarcene, se non avessimo prima capito quali erano le energie reali, capaci di abbattere il fascismo nel nostro Paese, e se non fossimo riusciti poi ad organizzarle? Questa forza liberatrice non è rachiusa in una «élite» di intellettuali, essa è nella classe operaia e nelle sue alleanze con le masse nelle campagne e con quella parte di borghesia prgressiva. Chi vuole la liberazione dal fascismo, deve incominciare col volere la liberazione del di tutte queste forze dai vincoli che le soffocano. Esistono delle profonde contraddizioni che il regime di Mussolini non può assolutamente risolvere. Si tratta di non restare al di fuori di un processo storico e di inserirvisi, al contrario, attivamente per far fermentare dall’interno quelle energie che affretteranno la disfatta dei nemici del popolo1

A partire da questa indicazione il gruppo si inserì nei GUF e già nel 1937 il giovane intellettuale assunse la responsabilità della pagina sindacale del “Bo”, il giornale universitario di Padova. Ciò favorì una penetrazione di giovani antifascisti nella redazione, lo svilpparsi di un fermento politico culturale nuovo e l’attivazione di energie vitali poi rivelatisi determinanti nel corso della Resistenza. Le lunghissime discussioni sui temi da trattare si spostarono dalla redazione alle fabbriche per l’intuizione di Curiel che propose di confrontare preventivamente le questioni con gli stessi operai. Iniziativa anch’essa importantissima per consentire a quel gruppo la costruzione di legami sociali solidi nel mondo del lavoro. Nel 1938 Curiel, estromesso dall’Università per la promulgazione delle leggi raziali, si trasferisce a Milano, dove prende contatti con il Centro interno socialista e con vari gruppi antifascisti. In clandestinità dedica oramai tutta la sua esistenza alla militanza, viene arrestato varie volte dalla polizia svizzera per la sua attività antifascista e comunista, a Milano il 23 giugno del 1939 viene arrestato da agenti dell’Ovra. Sconta qualche mese nel carcere di San Vittore, poi il processo e la condanna a cinque anni di confino a Ventotene dove mette in piedi una sorta di università popolare per i reclusi ed anche per alcuni abitanti del luogo. Di quell’esperienza rimangono gli appunti delle sue lezioni a molti futuri quadri della Resistenza. Tutti coloro che ebbero modo di conoserlo ricordano Curiel per lo spessore morale e intellettuale ma anche per l’instancabile impegno militante. Nella notte tra il 24 e il 25 luglio del ’43 il Gran Consiglio del fascismo vota l’ordine del giorno che porta all’arresto di Mussolini, un mese dopo Curiel viene liberato dal confino e torna in Veneto dove riprende i contatti con amici e compagni lavorando da subito all’organizzazione della Resistenza armata contro l’occupazione nazifascista. Rientrato a Milano ha un ruolo di primo piano nella redazione de «L’Unità» e della rivista «La nostra lotta», stampate e diffuse clandestinamente, diventa il «partigiano Giorgio» e fonda l’organizzazione antifascista “Fronte della Gioventù” che all’inizio del 1945 contava gia’ circa 15mila aderenti. Curiel cadde il 24 febbraio del 1945, a due mesi dalla liberazione di Milano e ad appena 33 anni, ucciso da una banda di fascisti che dopo avergli sparato per strada lo finì dentro un portone nel quale si era rifugiato. Dopo una medaglia d’oro al Valor militare, una lapide e un bellissimo inno partigiano a lui dedicato, nelle miserie dell’italietta della «concordia nazionale», l’oblio ne ha praticamente cancellato la memoria. Curiel, scienziato, comunista e combattente, nonostane la militanza, ebbe anche il modo di sviluppare una originale e matura riflessione politica, a lui si deve ad esempio l’elaborazione della «democrazia progressiva», una concezione Togliatti fece propria nell’immediato dopoguerra facendola divenire l’asse strategico del “partito nuovo”. Oggi nessuno si occupa più di questo giovane comunista morto per liberare il suo Paese, un militante determinante in una lotta di cui non ebbe la fortuna di vedere i frutti nella festa del 25 aprile. Bisognerebbe invece non solo ricordarlo ma riprendere gli studi dedicati alla sua vita e alla sua opera, personalmente mi impegno a farlo, nella convinzione che riportare alla luce questa straordinaria testimonianza di impegno e militanza non sarebbe semplice opera di “archeologia politica”.

1 Quaderni di Rinascita. Trenta anni di vita e lotte del PCI, Roma, Istituto Poligrafico, pag. 187.

 

Il tempo delle scelte di campo

Il tempo delle scelte di campo.

Di Gianni Fresu (Segretario regionale PRC) 16 marzo 2010

Delineare le prospettive politiche dell’attuale fase è complesso, perché gli esiti possibili di questa crisi sono molteplici e difficilmente prevedibili. Quella che investe il nostro paese e la nostra regione non è infatti solo una crisi economica ben lontana dall’esaurirsi, è una crisi delle classi dirigenti e degli assetti istituzionali. Possiamo tuttavia fare delle valutazioni su un’epoca che con questa crisi sembra al tramonto e da questo trarre delle valutazioni rispetto al futuro. La fine della cosiddetta “Prima Repubblica” era avvenuta sull’onda di due principi che avrebbero dovuto trasformare in positivo il paese: in primo luogo, si affermava che la trasformazione del sistema politico in senso maggioritario e bipolare avrebbe creato maggior efficienza legislativa, capacità di rappresentanza democratica e persino minor corruzione del sistema politico; in secondo luogo, si affermava che con le privatizzazioni, le liberalizzazioni e la deregolamentazione del mercato del lavoro si sarebbe ottenuta una maggiore democrazia economica e la liberazione di enormi risorse da investire in produzione e nuova occupazione. Per spiegare quanto la prima previsione si sia rivelata fallace basta affidarsi alla minuta cronaca politica e giudiziaria di questi giorni, mentre per mostrare i veri effetti delle politiche economiche perseguite ci vorrebbe un trattato. Per stare in Sardegna, se la stagione degli investimenti pubblici si chiuse con uno stato patologico, la successiva stagione dominata dal dogma dell’iniziativa privata e delle leggi di mercato si è rivelata ancora più fallimentare. I processi di apertura ai privati si sono limitati ad un vergognoso assalto ai finanziamenti e alle agevolazioni pubbliche per accaparrarsi quel che restava della piattaforma industriale dell’isola o per progettare effimere attività produttive mai decollate dopo aver incamerato tutti i sussidi immaginabili. Per ragioni di spazio non mi è consentito trattare dei risultati delle politiche de redditi, degli effetti del patto di stabilità, delle ipocrisie insite nelle norme europee sulla concorrenza, ma anche in questo caso basta guardarsi attorno per comprendere quanto il quadro complessivo sia deficitario sotto ogni punto di vista. A fronte di entrambi versanti, le forze democratiche e di progresso possono sperare di riassumere un ruolo propulsivo e invertire la tendenza, solo divenendo realmente alternative alle destre. Anziché seguire Berlusconi sul terreno a lui confacente del bipartitismo, è necessario favorire il pluralismo delle forze democratiche e di sinistra sforzandosi di costruire una base di valori e obiettivi comuni. Questo può avvenire attraverso scelte di campo finalmente chiare nelle quali la tutela degli interessi popolari, delle funzioni sociali dello Stato, della difesa della Costituzione non siano più in discussione. La crisi ha messo a nudo le iniquità dei dogmi liberisti e la malafede delle forze interessate a mantenerli in vigore, è dunque tempo per rilanciare senza timidezze il tema di una nuova stagione di intervento e programmazione del pubblico in economia, di controllo pubblico del credito, di revisione profonda delle politiche comunitarie. In un contesto segnato dal disfacimento della piattaforma produttiva sarda e dal disarmo dei suoi settori economici strategici, con il conseguente corollario di disoccupazione ed espansione delle fasce di povertà ed esclusione sociale, occorre porre da subito il problema di una alternativa seria, credibile e dal profilo sociale chiaro al peggior governo regionale che la storia autonomistica della Sardegna abbia mai conosciuto. Non ci convince affatto l’idea dell’unità indistinta di un fantomatico “popolo sardo” nel quale si trovino a fianco sfruttatori e sfruttati, speculatori e defraudati, forze di maggioranza e opposizione. Il solo bipolarismo che ci interessa è quello tra forze che rappresentano modelli sociali e culturali realmente diversi e distinti, senza trasformismi e senza ambiguità.

ASSEMBLEA REGIONALE FEDERAZIONE DELLA SINISTRA – Relazione introduttiva di Gianni Fresu

ASSEMBLEA REGIONALE FEDERAZIONE DELLA SINISTRA

CAGLIARI, 12, 12 2009

Relazione introduttiva di Gianni Fresu

 

Finalmente si parte, la Federazione prende vita e cessa di essere solo un’idea. Ciò avviene in un contesto oggettivamente difficile, nel quale sembra essere giunta a compimento l’opera di distruzione delle organizzazioni autonome di classe delle lavoratrici e dei lavoratori e con essa il progressivo restringimento degli spazi di democrazia politica, sociale ed economica conquistati in un secolo di lotte. Sicuramente tutto questo è il risultato di una lunga guerra che ha impegnato sul piano culturale e politico le forze del capitalismo mondiale, ma in esso rientra anche il carico di errori commessi dalla sinistra. Proprio in coincidenza con questo obiettivo storico delle forze conservatrici si è però determinata una gigantesca crisi del modo di produzione capitalistico, con proporzioni e profondità che non si vedevano dal periodo tra le due guerre.

 

La natura della crisi

Una crisi del capitalismo in quanto tale, con i suoi rapporti di produzione, sfruttamento e le sue modalità distorte di appropriazione delle ricchezze, non una semplice difficoltà del cosiddetto neoliberismo e del suo sistema finanziario. Ma la crisi ha radici remote, ben precedenti al crollo delle borse. L’attuale inabissarsi dei dati sui consumi, che tanto allarma Berlusconi, è il frutto dell’autentica rapina operata a danno dei redditi da lavoro dipendente nell’ultimo ventennio, con lo spostarsi del 4% della ricchezza prodotta dal monte salari ai profitti delle imprese. L’Italia è il sesto tra i paesi OCSE ad avere una distribuzione del reddito diseguale: tra il 1993 e il 2008 a fronte di una crescita della produttività del 14,3%, solo il 3,8% è stato ridistribuito al lavoro. A questa condizione catastrofica ci hanno condotto le scellerate politiche dei redditi gestite con continuità dai governi tecnici del 92-93, quelli di centro sinistra e quelli della destra. Una rapina che non è avvenuta solo attraverso la cancellazione della scala mobile e la compressione salariale coatta, nella fase 1993-2008 per risanare il debito dello Stato, il sistema fiscale ha drenato gran parte delle sue risorse proprio dai lavoratori dipendenti non certo dai profitti e dalle rendite. È stato calcolato che lo Stato si è avvantaggiato di una somma pari a112 miliardi di euro, tra maggiore pressione fiscale e mancata restituzione del fiscal drag. Tra il 1995 e il 2006 i profitti netti sono cresciuti di circa il 75% mentre i salari solo il 5,5%. Oggi assistiamo all’ennesimo scippo del TFR, 3,1 miliardi di euro versati da tre milioni di lavoratori sottratti dalle casse dell’INPS per coprire un terzo dell’intera manovra finanziaria. Questo ennesimo esempio di finanza creativa di Tremonti, in una finanziaria scandalosa che ha il merito di scontentare tutti, viene impiegato per mere spese correnti neanche per investimenti produttivi o grandi interventi generali. Ciò la dice lunga sullo stato delle Finanze nel nostro paese.