Partitocrazia figlia della politica malata

Partitocrazia figlia della politica malata

Il pensatore sardo oltre 70 anni fa anticipò temi ancora attuali

Martedì 07 luglio 2009
La crisi della politica ha monopolizzato anche recentemente le pagine dei giornali interessando le stesse riflessioni del presidente della Repubblica. Il volume 16 in uscita domani riproduce i Quaderni 14, 16 e 17 nei quali questo argomento è ampiamente svolto a partire dalle considerazioni sul partito politico, lo strumento attraverso il quale il rapporto di rappresentanza dovrebbe superare la sua condizione di delega passiva. In realtà esso ha finito per convertirsi in luogo di occupazione e gestione oligarchica dei centri di potere e di perpetuazione esclusiva delle sue funzioni dirigenti. Non a caso è sorta ed è diventata di uso comune l’espressione partitocrazia. Il problema della degenerazione del partito politico riguarda anzitutto le relazioni che sussistono tra le sue parti costitutive – direzione nazionale, quadri intermedi, base di massa – e i suoi meccanismi di selezione e formazione dei gruppi dirigenti. Il rapporto tra questi elementi deve presupporre insieme disciplina e partecipazione; un rapporto organico tra governanti e governati tendente a generare una volontà collettiva, non l’accoglimento passivo e meccanico di ordini da eseguire senza discutere. Se concepita in questo modo, la disciplina non annulla la personalità e la libertà, ma diviene consapevole assimilazione di un indirizzo da realizzare.
Il problema non è la disciplina in quanto tale ma la fonte da cui proviene quell’indirizzo: se questa è democratica, non un arbitrio o un’imposizione esteriore, allora la disciplina diviene un elemento necessario. Per Gramsci il rapporto governanti governati è conseguente alla divisione del lavoro, alla distinzione tra funzioni intellettuali e manuali: «ogni uomo è un filosofo», è l’organizzazione tecnica a farne un diretto e non un dirigente, pertanto se lo scopo principale di un partito consiste nel formare dirigenti il suo dato di partenza deve risiedere nel non ritenere naturale e immodificabile quella distinzione. Il problema dell’assenza di un rapporto organico di rappresentanza in politica non riguardava solo i partiti di élite della tradizione liberale, dove la funzione di direzione era esercitata unilateralmente da uomini di cultura, ma anche i cosiddetti partiti di massa del movimento operaio. Se le masse in un partito non hanno altra funzione al di là della fedeltà militare verso i gruppi dirigenti il rapporto dualistico è esattamente lo stesso: «la massa è semplicemente di manovra e viene occupata con prediche morali, con pungoli messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate».
Un partito serio, non l’espressione arbitraria di individualismi, deve essere portatore di qualcosa di simile allo spirito statale, un sentimento di appartenenza che lega il presente e il futuro con la tradizione e rende i suoi cittadini solidali con l’azione storica delle forze spirituali e materiali nazionali. Allo stesso modo deve esistere uno spirito di partito, un senso di responsabilità generale, da non confondere con la “boria di partito”.
GIANNI FRESU

 

Gramsci contro l’ipocrisia delle regole

Gramsci: Naturale e contro natura. Il significato convenzionale dei valori morali.

Martedì 30 giugno 2009
Per Gramsci, se si vuole comprendere la storia dell’umanità bisogna evitare una sua rappresentazione per compartimenti stagni. La complessità della realtà è data dalle mille sfaccettature in cui si essa si compone, dallo stretto intreccio di elementi diversi che emergono nel movimento dialettico della storia. In tal senso “I Quaderni del carcere” indagano a 360 gradi senza fermarsi né davanti ai templi incensati dell’alta cultura, né di fronte a quegli aspetti della cultura popolare o del senso comune ritenuti frivoli o insignificanti. Trattano, infatti, con la stessa curiosità e assenza di pregiudizio la grande filosofia come i romanzi d’appendice. Il volume 15 in uscita domani contiene il quaderno 11 intitolato “Introduzione alla filosofia”, e il quaderno 16 “Argomenti di cultura”. Tra essi è possibile trovare temi che ancora oggi riempiono le pagine dei giornali. Oggi come allora, ad esempio, determinati comportamenti personali e manifestazioni del costume sono classificati come “naturali” o “contro natura”. Secondo Gramsci, naturale coincide con ciò che si considera giusto e normale sulla base della coscienza storica attuale, anche se noi tendiamo a rappresentarlo in termini assoluti e immutabili. Sulla base di quella coscienza storica, divenuta senso comune, vengono definiti contro natura determinati comportamenti, specie sessuali, riscontrabili invece nel mondo animale.
La natura dell’uomo è determinata dall’insieme dei rapporti sociali che formano una coscienza storica. I modelli culturali, gli stili di vita e i rapporti sociali non sono fissi e omogenei per ogni uomo, luogo e tempo, ma sono in rapporto contraddittorio e in continuo mutamento e soprattutto non hanno nulla a che vedere con la naturalità delle cose. Ciò che in un periodo storico si afferma come necessario e universale è determinato dal tipo di civiltà economica nel quale si è inseriti. Essa non solo definisce l’obiettività e la necessità di un determinato attrezzo per la produzione, stabilisce norme di condotta morale, gli stili educativi, le regole di convivenza di una determinata società. Nella storia capita che certe concezioni morali risultino invecchiate e non più corrispondenti alla realtà e la loro persistenza sia solo formale, esteriore, inducendo «a una doppia vita, all’ipocrisia e alla doppiezza». La facciata della rispettabilità, dell’ossequio ai valori religiosi e familiari parallelamente a una seconda vita all’insegna della trasgressione e dell’edonismo. Nuovamente, il problema non è la naturalità dei comportamenti ma la natura convenzionale dei valori morali e, se vogliamo, la sincerità con cui li si assume come norma di condotta.
Le fasi esasperate di libertinaggio e dissolvimento della morale tradizionale che in genere reagiscono contro questa condizione di doppiezza, annunciano per Gramsci una nuova concezione morale che si va affermando. Con questa chiave di lettura, ad esempio, la stagione di contestazione culturale del ’68 potrebbe essere compresa molto più razionalmente.
G. F.

Gramsci a Cagliari, gli anni difficili della giovinezza

MEMORIA.

Nessuna epigrafe oggi ricorda i luoghi che frequentò durante il periodo del liceo

Gramsci a Cagliari, gli anni della difficile giovinezza

Dal caffè Tramer al Dettori, dal circolo Bruno alla trattoria di Stampace

“L’Unione Sarda”, martedì 30 giugno 2009
Nel 1891, quando nasce Gramsci, l’Italia era impegnata da alcuni anni nella guerra doganale con la Francia ingaggiata da Crispi per difendere la nascente industria nazionale e le grandi produzioni agricole dei latifondi. La Sardegna, travolta nell’87 dal crollo del suo sistema bancario, vide chiudersi improvvisamente il mercato della Francia verso cui era destinato la gran parte delle sue esportazioni, in particolare bestiame, agrumi, vino e olio. Ciò provocò l’ulteriore immiserimento e abbandono delle campagne dove l’unica alternativa era la pastorizia, azzoppata però dal costituirsi tra il 1885 e il 1900 delle prime industrie casearie che imponevano un prezzo del latte talmente basso da impedire qualsiasi ipotesi di sviluppo. L’altra alternativa alla fame erano le miniere, ma anche qui le condizioni di vita e lavoro erano disastrose e, a causa della crisi, a fronte di un costante aumento dello sfruttamento si registrava la diminuzione dei salari, enormemente più bassi rispetto al resto d’Italia. L’Isola era considerata dallo Stato una grande prigione a cielo aperto e così i funzionari statali coinvolti negli scandali venivano mandati qua ad esercitare le loro funzioni. L’insieme di queste condizioni creava in Sardegna una contesto potenzialmente esplosivo dato dalla difficile condizione sociale, dal risentimento verso le “ingiustizie subite”, dal bassissimo prestigio di cui godeva lo Stato italiano presso le masse popolari e i ceti medi, dalla convinzione di ricevere dalle autorità un trattamento da dominio coloniale. Anni segnati dall’eccidio di Buggerru, che non a caso originò il primo sciopero generale della storia d’Italia, e dai moti insurrezionali del 1906 partiti proprio da Cagliari.
Tutto questo è importante perché l’opera di Gramsci non è il grande piano “steso a tavolino” da un intellettuale brillante, si tratta semmai di un lavoro che nasce a tamburo battente nel vivo di lotte sociali, dall’esperienza diretta di una condizione di miseria ed emarginazione sociale. Gramsci arriva a Cagliari nel 1908, dopo gli anni nello “scalcinato” ginnasio di Santu Lussurgiu, e un’infanzia a Ghilarza resa difficile dai problemi di salute e da una condizione economica pesantissima conseguente alla carcerazione del padre. Complice l’isolamento geografico, Cagliari era allora in tutti sensi la capitale della regione, percorsa dai fermenti sociali, dalle prime manifestazioni di una politica di massa, da una certa vivacità culturale testimoniata dall’esistenza di ben tre quotidiani e diversi periodici di approfondimento e polemica politica.
A Cagliari, dove il fratello maggiore Gennaro diviene segretario della sezione socialista e tesoriere della Camera del lavoro, Gramsci si avvicina al socialismo ma non disdegna i temi della rivendicazione sardista. Come egli stesso ricorderà criticamente in seguito, negli anni cagliaritani non era inusuale sentirgli pronunciare la frase “a mare sos continentales”. Nel capoluogo Gramsci divide prima una camera in affitto in Via Principe Amedeo 24, poi si trasferisce in un’umida stanzetta nel Corso Vittorio Emanuele 149, e frequenta il Liceo Classico Dettori allora situato in piazza Dettori nel centro della Marina. Sembra impossibile, eppure in nessuno di questi tre luoghi della città esiste una lapide che ricorda il passaggio dell’autore italiano più studiato e tradotto al mondo insieme a Dante e Machiavelli. Potendo contare su una disponibilità economica che a stento gli consentiva di sopravvivere, solo raramente poteva permettersi un qualche tipo di evasione che comunque non andava mai oltre un caffé da Tramer in Piazza Martiri, o un pasto frugale con il fratello nella trattoria di Piazza del Carmine. Negli anni liceali Gramsci si fa promotore con i suoi compagni del circolo “i martiri del libero pensiero: Giordano Bruno”, dove assume anche il suo primo incarico come tesoriere, entra in contatto con le riviste e i giornali socialisti, compie le sue prime investigazioni filosofiche che lo portano dall’idealismo di Benedetto Croce al materialismo storico di Marx.
Cagliari dà a Gramsci anche l’opportunità di cimentarsi con il giornalismo con le prime corrispondenze per “L’Unione Sarda”. Si potrà obiettare che negli avvenimenti epocali che segnano la sua biografia quelli cagliaritani fossero semplici episodi, eppure è in quegli anni che Gramsci forma il suo carattere, inizia a forgiare le sue attitudini intellettuali e la sua propensione alla militanza politica. Anni importanti dunque, che forse meriterebbero di essere indagati più in profondità di quanto si sia finora fatto.
GIANNI FRESU

Ecco il moderno principe del popolo

Ecco il moderno principe del popolo

Antonio Gramsci applica al marxismo la lezione di Machiavelli

Martedì 23 giugno 2009
Il volume 14 in uscita domani raccoglie i Quaderni 10, 12, 13 e 18, probabilmente tra i più significativi dell’opera carceraria. I primi due si occupano della filosofia di Benedetto Croce e degli intellettuali nella storia d’Italia; gli altri due analizzano gli scritti di Machiavelli attorno al problema della costruzione di un grande Stato nazionale in Italia, sul modello di quanto avvenuto in Francia e Spagna. Per quanto anche in Machiavelli fosse presente un richiamo al passato di Roma, l’esigenza dello Stato non era ricondotta alle glorie dell’antichità, non aveva significato retorico letterario, ma era desunta da specifiche necessità del presente. Il Segretario fiorentino ha il merito di aver pensato la politica come scienza autonoma con le sue leggi e problematiche peculiari. Sebbene ritenesse esagerate certe rappresentazioni di Machiavelli come scienziato della politica per eccellenza, attuale in ogni tempo, Gramsci nutriva nei suoi confronti un interesse che non era di semplice ricostruzione storiografica.
Come Il Principe aveva posto l’obiettivo della creazione di un moderno Stato unitario in Italia, in una fase di assoluta disgregazione nazionale, così Gramsci si proponeva allora di scrivere un Moderno Principe che affrontasse in termini politici il tema della fondazione di un nuovo Stato, quello dei lavoratori, in una fase di sconfitta e arretramento del movimento operaio. Gramsci ipotizzava la stesura di un Moderno Principe inteso non più come una singola persona ma come un organismo che incarna “plasticamente” la volontà collettiva delle masse popolari, egli pensava ad un moderno partito comunista di massa. Il Principe di Machiavelli non era una fredda utopia ma un “libro vivente”, perché riusciva a fondere l’ideologia e la scienza politica con il mito, perché in esso la concezione politica si impersonava in un condottiero ideale che pur non esistendo nella realtà storica immediata, rappresentava la volontà collettiva di un popolo disperso e polverizzato; un libro che attraverso la sua forma fantastica e artistica aveva la capacità di stimolare, persuadere, suscitare l’organizzazione di quella volontà collettiva. La modernità del Principe stava nella comprensione che senza l’irrompere delle grandi masse nella vita politica non era possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare. Questa intuizione era contenuta nell’idea della riforma della milizia per sostituire i mercenari con una milizia nazionale attraverso l’ingresso delle masse contadine. Dalla restaurazione del 1815 in poi tutta la storia mostrava invece lo sforzo delle classi dominanti per impedire questa irruzione.
L’idea gramsciana di un Moderno Principe, vale a dire l’edificazione di un partito reale espressione delle masse popolari, aveva quale suo intento principale proprio la rottura di questo “equilibrio passivo” tramite la realizzazione di una “riforma intellettuale e morale”, ossia una profonda riforma politica ed economica capace di porre fine alla condizione di subalternità, anzitutto sul piano economico-sociale, delle masse popolari.
GIANNI FRESU

 

Forza e consenso nello Stato etico

Forza e consenso nello Stato etico

Rinchiuso in cella Gramsci elabora il modello politico e sociale

Martedì 16 giugno 2009
Insieme all’ideologia, Gramsci ha condiviso con Marx la grande attenzione e ammirazione verso la borghesia e il suo modello politico-sociale. Entrambi aspiravano a fare del socialismo l’erede della borghesia più che il suo becchino. Così non è un caso se i due teorici del comunismo siano tra i più grandi studiosi della storia della borghesia e del capitalismo. I “Quaderni del carcere” sono una delle più alte manifestazioni di questa attenzione e il volume 13, in uscita domani, ne è una significativa testimonianza. Ciò che distingueva maggiormente la borghesia nella sua fase rivoluzionaria – scrive Gramsci -, era la sua capacità di includere altre classi sociali e dirigerle attraverso lo Stato, l’egemonia politica e sociale. Mentre nel feudalesimo l’aristocrazia, organizzata come “casta chiusa”, non si poneva il problema di inglobare le altre classi, la borghesia si rivela ben più dinamica e mobile puntando all’assimilazione del resto della società al suo livello economico e culturale. Questo muta profondamente la funzione dello Stato rendendolo “educatore”, anche attraverso la funzione egemonica del diritto nella società.
La borghesia storicamente opera a rendere omogenee (per costumi, morale, senso comune) le classi dirigenti e creare un conformismo sociale capace di consolidarne il potere, attraverso una combinazione di forza e consenso. In questo modo riesce a irreggimentare e dirigere con schemi culturali propri anche le classi dominate. Ogni Stato è etico nella misura in cui opera per elevare l’insieme della popolazione a un livello culturale e morale confacente allo sviluppo delle forze produttive e agli interessi delle classi dominanti. Tale importantissima funzione trova nella scuola e nei tribunali le attività statali fondamentali, anche se in realtà esse non sono le sole. Devono essere comprese nel concetto di Stato etico anche l’insieme delle iniziative private che formano l’apparato dell’egemonia politica e culturale delle classi dominanti. Così la definizione di Stato etico di Hegel, a cui si fa in genere riferimento nella storia delle dottrine politiche, è propria della fase nella quale la tendenza espansiva della società borghese appariva illimitata.
La natura universale dei valori della società borghese e l’eticità della sua organizzazione statuale si sarebbe potuta esprimere nella trasformazione borghese dell’intero genere umano. La capacità espansiva della borghesia però si ritrae nelle fasi di “crisi organica”, come nella prima recessione del capitalismo mondiale alla fine dell’Ottocento e nella crisi che ha preceduto e seguito la prima guerra mondiale. In queste fasi all’egemonia si sostituisce la forza. Gramsci parla di “rivoluzioni passive” per descrivere quelle fasi di modernizzazione autoritaria nelle quali le riforme vengono realizzate attraverso la passività coatta delle grandi masse popolari, con il preciso obiettivo di consolidare l’ordine sociale ed uscire dalla situazione di crisi. Il fascismo è uno degli esempi più emblematici di ciò, ma non il solo.
GIANNI FRESU

 

La crisi della politica vista da Gramsci

La crisi della politica vista da Gramsci

Nei Quaderni del carcere anticipò temi oggi sempre di attualità

Martedì 09 giugno 2009
Uno dei temi più ricorrenti in Gramsci riguarda il rapporto tra governanti e governati alla luce delle degenerazioni leaderistiche e carismatiche nella direzione politica. Un esempio in tal senso è contenuto nel Quaderno 6, riprodotto nel Volume 12 in uscita domani, che affronta una serie assai vasta di argomenti ma trova proprio su questo tema alcuni passaggi di assoluta attualità. In essi l’intellettuale sardo si sofferma sul significato negativo assunto dai termini “ambizione” e “demagogia” nel linguaggio politico, per il semplice fatto che si tende in genere a confondere la “grande” con la “piccola ambizione”. L'”ambizione” è così associata all’opportunismo arrivista, al tradimento dei propri ideali e del proprio gruppo sociale per ottenere un maggior guadagno immediato. In realtà queste sarebbero le “piccole ambizioni”, cioè un atteggiamento mentale che spinge alla fretta, ad evitare le difficoltà e i pericoli che l’impegno politico comporta, per conseguire subito un risultato anche se modesto o meschino.
Tuttavia la politica non è concepibile senza ambizione, così come non può esistere un “capo” che non miri all’esercizio del potere, però anche in questo caso il problema non è l’ambizione in sé ma la natura dei rapporti che intercorrono tra il “capo” e la massa con cui si persegue quella “grande ambizione”. Il problema è se l'”ambizione” del capo si eleva dopo aver fatto attorno a sé il deserto, o se questa ambizione è associata alla crescita di tutto uno strato sociale.
Le stesse osservazioni valgono poi per la cosiddetta demagogia, essa è infatti associata alla tendenza generale che porta servirsi delle masse suscitandone l’entusiasmo, sapientemente eccitato e nutrito, con il solo scopo di perseguire le proprie “piccole ambizioni”, che possono poi assumere le forme del parlamentarismo democratico o del bonapartismo plebiscitario e autoritario. Ma se il capo non considera le masse “carne da cannone”, uno strumento buono per raggiungere i propri scopi e poi gettare via, e invece le rende protagoniste storiche di un fine politico organico e generale, la demagogia assume una funzione positiva. La tendenza del demagogo deteriore è quella di rendere se stesso insostituibile, far credere che dietro di lui ci sia solo l’abisso, a tal fine egli elimina ogni possibile concorrente ponendosi direttamente in rapporto, strumentale, con le masse attraverso «il plebiscito, la grande oratoria, i colpi di scena, l’apparato coreografico fantasmagorico». Mentre per Gramsci il capo politico, non mosso dalla piccola ambizione, concorre a creare uno strato intermedio tra sé e la massa, «tende a suscitare possibili concorrenti ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo» in qualsiasi momento. È il grande tema della partecipazione e del rapporto di rappresentanza, vale a dire dei nodi che ancora oggi animano il dibattito sulla cosiddetta “crisi della politica”. Problematiche rispetto alle quali i Quaderni del carcere continuano ad essere, a tanti anni di distanza, un’opera insostituibile.
GIANNI FRESU

 

Un paese senza sentimento nazionale

Un paese senza sentimento nazionale

Gramsci illustra le radici storiche della mancata unità d’Italia

Martedì 02 giugno 2009
Uno dei temi maggiormente indagato nei Quaderni, e presente nell’undicesimo volume in uscita domani, riguarda la mancata formazione di uno Stato italiano unitario nell’età moderna e la tradizionale assenza di un sentimento “nazionale” paragonabile a quello sviluppatosi con la nascita dei grandi Stati assoluti. Le radici storiche di questa assenza andavano ricercate indietro nel tempo. La funzione storica dei Comuni e della borghesia italiana, nella stagione della sua prima fioritura, fu per Gramsci disgregatrice dell’unità esistente e non seppe trovarne forme nuove e più avanzate. Quando gli altri paesi iniziarono ad acquisire una coscienza nazionale e ad organizzare proprie culture nazionali, l’Italia perse la sua funzione di centro internazionale di cultura senza dar luogo, a sua volta, ad un proprio processo di aggregazione nazionale. I suoi intellettuali non si nazionalizzarono e anzi finirono per staccarsi dal proprio territorio sciamando all’estero, per insediarsi nelle corti europee.
L’arresto nello sviluppo e la mancata integrazione nazionale della borghesia italiana, poi spazzata via dalle invasioni straniere, è stata imputata storicamente a fattori esterni: l’invasione turca nel vicino e medio oriente, con l’interruzione dei commerci con il levante; lo spostarsi dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico con la scoperta delle Americhe. In realtà queste non potevano essere considerate le cause della decadenza delle repubbliche italiane semmai l’effetto. La borghesia – sottolinea Gramsci – si sviluppò meglio negli Stati assoluti, esercitando un potere indiretto, piuttosto che in Italia, dove disponeva di tutto il potere. Machiavelli aveva compreso che né il Comune né la signorìa comunale potevano dirsi Stato poiché ad essi mancava un vasto territorio e una popolazione che consentissero una politica internazionale autonoma. Pertanto la borghesia italiana fu la prima a comparire e dar luogo a forme significative di accumulazione capitalistica, ma poi non seppe andare oltre la sua dimensione corporativa-municipale subendo un processo di involuzione che la portò ad abbandonare i commerci e il rischio degli investimenti produttivi in favore della rendita fondiaria.
La borghesia – scrive Gramsci – finì per assumere i tratti parassitari tipici delle vecchie aristocrazie, mentre gli intellettuali mantennero il loro carattere cosmopolita senza divenire mai nazionali. Il cosmopolitismo della tradizione istituzionale e intellettuale italiana – tramandatosi dall’Impero romano alla Chiesa – è una delle cause che portò la penisola a subire passivamente i rapporti internazionali durante il Medio Evo. In Italia la Chiesa, con il suo duplice ruolo di monarchia spirituale universale e principato temporale, non fu mai tanto forte da occupare tutta la penisola né tanto debole da consentire che altri lo facessero. «La tradizione dell’universalità romana e medievale impedì lo sviluppo delle forze nazionali (borghesi) oltre il campo puramente economico-municipale, cioè le forze nazionali non divennero forza nazionale che dopo la Rivoluzione francese».
GIANNI FRESU

 

Gramsci svela i segreti del potere

Gramsci svela i segreti del potere

Lo Stato, la società civile e l’egemonia della classe dirigente

Martedì 26 maggio 2009
Nella scienza politica Gramsci è universalmente riconosciuto come il teorico dell’egemonia per aver svelato la natura molteplice del potere. Una società moderna e avanzata dispone di forme stratificate di direzione politica articolate su due piani: il piano della “società civile” corrispondente alla funzione di egemonia esercitata dalla classe dominante sull’intera società, e il piano della “società politica” o Stato, relativo al dominio diretto, alle funzioni di comando e “governo giuridico”. Il concetto comune di Stato è per Gramsci parziale ed errato perché in genere lo si riduce solo a questo secondo aspetto del dominio, senza tenere conto dell’apparato privato dell’egemonia o società civile. In questo modo si sottovaluta la funzione politica della cultura, delle relazioni sociali e di quelle economiche. Società politica e società civile non sono separate e contrapposte, la seconda è una funzione della prima, la sorregge e alimenta.
La stessa idea di “opinione pubblica” riguarda l’egemonia politica, come punto di contatto della dialettica tra società politica e società civile, tra forza e consenso. «L’opinione pubblica è il contenuto politico della volontà pubblica». C’è una funzione del dominio politico che consiste proprio nel formare un’opinione pubblica preventivamente a determinate scelte impopolari dello Stato, essa consiste anzitutto nell’organizzare e centralizzare certi elementi della società civile. La lotta per il monopolio degli organi dell’opinione pubblica, attraverso il controllo di giornali, partiti e Parlamento, è proprio finalizzata ad evitare che si determini una divergenza e dunque una scissione tra i due livelli.
Diversamente da quanto accaduto in Russia, in Occidente, l’assalto allo Stato sarebbe stato inutile se non preceduto da una conquista egemonica della società civile. Questo è il senso delle celebri note su “guerra manovrata” (l’immediato assalto allo Stato) e “guerra di posizione” (la conquista della società civile). Per Gramsci Lenin fu il primo a comprendere il problema ma non ebbe modo di approfondirlo.
Queste riflessioni assumono un enorme rilievo per la scienza politica in quanto tale, non solo per la strategia di un partito rivoluzionario, perché aprono un campo di analisi del tutto nuovo sulle forme del potere politico. Il decimo volume , in uscita domani, riproduce il Quaderno 7 intitolato “appunti di filosofia”. Nella ricca trattazione di queste note il concetto di egemonia è sviscerato con un linguaggio chiaro e pregnante ben sintetizzato da uno dei più celebri brani dell’opera: «In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolìo dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale».
GIANNI FRESU

Nei Quaderni la profezia di Gramsci

Nei Quaderni la profezia di Gramsci

«Il vecchio mondo muore e il nuovo non può nascere»

Martedì 19 maggio 2009
La prima guerra mondiale provocò nella società europea una grave crisi economica, politica e culturale. La guerra era stata invocata come progresso e igiene dell’umanità ma dopo la sbornia di retorica patriottica e militare quel che restava era un quadro sociale profondamente disgregato segnato da alcuni fattori destinati a deflagrare tra loro: l’inefficacia e l’instabilità del sistema liberale, l’impoverimento e il ridimensionamento dei ceti medi, l’irrompere sulla scena delle grandi masse popolari mobilitate durante il conflitto. Gli storici hanno poi parlato di crisi morale e d’identità di una borghesia resa inquieta dalla crescita del movimento operaio e contadino e timorosa per l’esempio della rivoluzione dell’ottobre ’17. Un contesto drammatico e insieme esaltante, dove il vecchio mondo sembrava destinato a morire da un momento all’altro, che segnò Gramsci nelle scelte di vita, consacrata alla militanza politica, e nel percorso teorico, sempre problematicamente rivolto all’insieme di queste contraddizioni.
L’Italia costituiva un punto nevralgico della crisi di civiltà europea, non è un caso se qui si formarono le condizioni per la nascita e l’avvento del fascismo, e l’opera dei Quaderni dal carcere ne analizza sistematicamente cause ed effetti. Quando una classe perde consenso e cessa di essere dirigente, limitandosi ad essere dominante attraverso l’uso della forza coattiva, vuol dire che le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali e dai vecchi valori. La crisi del dopoguerra è sintetizzata in queste note, contenute nell’ottavo volume in uscita domani, da una celebre frase dell’intellettuale sardo: «il vecchio muore e il nuovo non può nascere».
A fronte di un decadimento irreversibile del vecchio ordine liberale non era corrisposto il suo superamento da parte di un ordine nuovo, il socialismo, per l’immaturità, il paternalismo e il dilettantismo del suo movimento. In situazioni di tale tipo si moltiplicano le possibili soluzioni di forza, i rischi di sovversivismo reazionario, le operazioni oscure sotto la guida di capi carismatici. Questa frattura tra rappresentati e rappresentanti porta per riflesso al rafforzamento di tutti quegli organismi relativamente indipendenti dalle oscillazioni dell’opinione pubblica come la burocrazia militare e civile, l’alta finanza, la chiesa. Dietro alla crisi di egemonia del regime liberale in Italia c’era l’inutile sforzo per la guerra, con il suo carico di promesse millantate non mantenute, e l’irrompere di soggetti sociali prima passivi. Il fascismo era la logica conseguenza di una condizione di stallo dove nessun gruppo, né quello conservativo né quello progressivo, aveva la forza necessaria per la vittoria definitiva. L’uso della forza, sia quella tradizionale dello Stato, sia quella illegale delle squadre paramilitari di Mussolini divengono allora per Gramsci il mezzo con il quale le vecchie classi dirigenti tentano di sopperire alla morte del vecchio mondo impedendo con ogni mezzo la nascita di quello nuovo.
GIANNI FRESU

 

Gramsci il più originale comunista

«Gramsci il più originale comunista»

Fuori dai dogmi individuò i limiti dell’ideologia marxista

Martedì 12 maggio 2009
Nel volume in uscita domani (Quaderno 4) Gramsci individua alcuni filoni di ricerca per lo studio di materialismo e idealismo e per costruire una storia del marxismo con due obiettivi: chiarirne processi evolutivi e limiti; delineare un nuovo quadro ideologico capace di incidere sulla realtà e trasformarla. Queste riflessioni filosofiche sul marxismo prendono le mosse dai criteri metodologici necessari a inquadrare l’opera del suo principale ispiratore. Se si intende studiare un autore, la cui concezione del mondo non è mai stata esposta sistematicamente e nella quale si intrecciano strettamente attività teorica e pratica, bisogna ricostruirne con attenzione la biografia attraverso l’analisi di tutte le opere, gli scritti minori e le lettere secondo una successione cronologica che ne colga il leit- motive.
Nello studio di un autore bisogna distinguere le opere da lui condotte a termine e pubblicate da quelle non compiute e inedite, poiché il contenuto di queste va esaminato con molta più cautela e attenzione, proprio per la loro natura di materiale provvisorio e in elaborazione su cui l’autore sarebbe probabilmente ritornato sopra. In queste note l’intellettuale sardo sembra delineare la mappa per inoltrarsi nel mare magnum del pensiero di Karl Marx ma fornisce insieme alcune bussole di orientamento per accingersi allo studio della sua stessa opera e dei Quaderni. Nelle note Gramsci si sofferma sul processo di involuzione e volgarizzazione filosofica del marxismo dopo Marx ed Engels. Se il marxismo originario costituiva il superamento della più alta manifestazione culturale del tempo, la filosofia classica tedesca, il marxismo successivo del passaggio tra Ottocento e Novecento si dimostra incapace di abbracciare e comprendere l’uomo in tutti i suoi aspetti e deve servirsi degli apporti di altre filosofie. Eric Hobsmawm, uno dei massimi storici del Novecento ha definito Antonio Gramsci «il più originale pensatore comunista che abbia operato in Occidente nel XX secolo» proprio per la ricchezza del suo approccio al marxismo e il rifiuto a rinchiudersi in letture meccaniche ed elementari della realtà economico-sociale, politica e culturale. Indagare le ragioni per le quali il marxismo è risultato assimilabile, per alcuni suoi aspetti non trascurabili, tanto all’idealismo quanto al materialismo volgare è secondo Gramsci un compito estremamente complesso, perché dovrebbe condurre non solo a chiarire quali elementi siano stati assorbiti “esplicitamente” dall’idealismo e da altre correnti di pensiero, ma anche svelare gli assorbimenti “impliciti” e non confessati, quelli dovuti al fatto che il marxismo è stato un momento della cultura, un’atmosfera diffusa che in quanto tale ha modificato, spesso inconsapevolmente, i vecchi modi di pensare. Avviare un’indagine di questo tipo, dunque, equivarrebbe a fare una storia della cultura moderna dopo Marx ed Engels e richiederebbe anche uno studio degli insegnamenti pratici che il marxismo ha dato ai partiti e alle correnti di pensiero ad esso avverse.
GIANNI FRESU