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Comitato Politico Nazionale, 21 aprile 2008.

Comitato Politico Nazionale, 21 aprile 2008.

Intervento di Gianni Fresu

È difficile descrivere le sensazioni provocate da questo autentico terremoto politico che ha investito il nostro partito. Tuttavia, le valutazioni emotive non servirebbero a nulla e quella che ci ha investito non è una catastrofe naturale, un fenomeno ineluttabile, bensì un fatto politico le cui cause, concrete e razionali, vanno indagate con precisione se si vuole realmente cambiare registro. Partendo da questa semplice considerazione mi ha lasciato letteralmente interdetto la relazione del compagno Giordano. Non un cenno di autocritica, non un dubbio sul fatto che forse la trionfale storia di “innovazioni e contaminazioni” seguita nell’ultimo decennio dal PRC, in fin dei conti, non è stata tanto trionfale.

Tutta l’analisi di Giordano è incentrata sulle responsabilità del PD. Che le forze moderate del paese avessero un progetto di modernizzazione capitalistica, di «rivoluzione passiva», basata sull’espulsione del conflitto sociale dalla cittadella politica, è un dato acclarato sin dai “gloriosi anni” della “concertazione” (dai governi tecnici del 92-93 in poi), dunque perché stupirsi oggi dell’obbiettivo perseguito e raggiunto da Veltroni? Forse il nostro Partito ha fatto troppo affidamento sul quel quadro politico, smarrendo per strada la sua autonomia e la sua capacità di esistere a prescindere da quelle forze; probabilmente non è stata una gran trovata l’aver affermato che il movimento avesse spostato a sinistra il baricentro delle forze moderate e che dunque si poteva entrare nell’Unione senza preoccuparsi del come, perché e per fare cosa. Le elezioni si sono incaricate di dimostrare quanto tutto l’impianto tattico e strategico del Congresso di Venezia fosse fallimentare. Questa sconfitta non è un terremoto né un fenomeno attribuibile al caso, alla cattiveria di Veltroni o alla follia degli operai che votano Lega.

Ma il problema ha una radice ben più profonda e remota nel tempo. In tutti questi anni il leit motive “innovatore” della maggioranza è stato picconare, pezzo per pezzo, la ragione sociale della nostra organizzazione attraverso un percorso teorico e politico ingloriosamente inabissatosi nei flutti di un oceano ben più grande e complesso delle sue previsioni.

Se uniamo i punti fondamentali del percorso politico del PRC ne viene fuori una linea a zig zag. Abbiamo affermato tutto e il suo contrario, seguendo mode, vezzi e fenomeni puramente congiunturali. Nel nostro Partito abbiamo, di volta in volta, innalzato altari sacri ai vari Toni Negri e Marco Revelli, siamo stati zapatisti, disobbedienti, non-violenti, quindi “realisti iper-istituzionali”. Abbiamo demolito il Partito e i circoli, definendoli «polverosi musei dell’agire politico novecentesco», indicando sempre altrove il “nuovo” terreno dell’agire politico, per poi stupirci, alla conferenza d’organizzazione, che il partito si era volatilizzato. Tutto l’eclettismo ideologico, l’attualismo, la mistica del “saper fare” contrapposta agli «inutili ferrivecchi ideologici del Novecento», hanno avuto come unico obiettivo la demolizione dell’identità che ci portavamo in dote dalla vituperata storia del movimento operaio, salvo scoprire che in una società come quella odierna l’identità, se messa a frutto con intelligenza, è un patrimonio politico inestimabile. Pensiamo al caso della Lega.

Non solo, abbiamo condotto questa linea attraverso campagne annuali, sul modello del Partito radicale, sempre slegate tra loro e mai coordinate da un’idea forte capace di renderle progetto sociale e politico. Come stupirci se le classi subalterne del nostro paese non ci hanno capito? La nostra linea, fatta di svolte e contro-svolte, è stata guidata dall’intuizione intellettuale di un singolo leader dalle sue infinite «mosse del cavallo», dalla sua pervicace convinzione che, ogni volta, fosse possibile far saltare il banco attraverso i colpi di teatro, l’oratoria seducente, l’effetto dirompente e carismatico della sua leadership. A Rimini sembrava di essere alla vigilia di una rivoluzione, si affermava che tra centro destra e centro sinistra non vi fossero più gradazioni di differenza, che il movimento era tutto e il fine nulla! Appena due anni dopo, contrordine! «Entrare nell’Unione senza sé e senza ma», ecco il nuovo credo! Per chi non condivideva l’ottimismo enfatico del capo per le svolte c’era sempre la sua indicazione verso la porta e altri partiti ai quali iscriversi. Stessa schizofrenia nei rapporti a sinistra dove si è oscillato tra la competizione senza esclusione di colpi, (ingresso nell’Unione concordato con le forze moderate, primarie, assetti di governo, Sinistra europea), alla proposta di un partito unico all’interno del quale quella dei comunisti doveva essere solo una «tendenza culturale». Come stupirci della disaffezione verso il nostro Partito se è da otto anni che si ripropone il tema del suo «superamento», prima nei movimenti, poi nella Sinistra europea, quindi nella Sinistra Arcobaleno?

Si è tentato di trasformare la storia del PRC nella biografia, politica e persino interiore, del suo leader. Ciò che rimane nel guardare il timor panico di questo CPN è lo spettacolo di un gruppo dirigente che pare composto di tanti apprendisti stregoni orfani del loro grande sciamano, che cercano invano di evocarne lo spirito affidandosi alle stesse formule magiche di un tempo.

In tutti questi anni alle invocazioni per un Segretario di sintesi e una linea condivisa, si è risposto che «in politica la sintesi non esiste», che il Partito si governa a maggioranza, anche solo con un voto in più. Proprio per tutte queste ragioni è inaccettabile la litania ripetuta a sfinimento (anche da Giordano) sull’ «assunzione collettiva di responsabilità», le giaculatorie rassicuranti immancabilmente concluse con la proposizione “abbiamo perso tutti”. Non è così. In questi anni è stata condotta una crociata violenta e sistematica contro il dissenso interno, sono state agevolate e suggerite le scissioni, è stato fatto un uso spregiudicato delle strutture del Partito e dei ruoli istituzionali senza il minimo rispetto dei numeri congressuali, in base all’assurda logica maggioritaria “chi ha la maggioranza decide!”. Bene ciò valeva quando quella maggioranza aveva, o riteneva di avere, il vento in poppa e ciò deve valere anche ora nel momento del bilancio.

Bisogna voltare pagina. Ripartire dal processo della Rifondazione comunista, senza arrestare il processo di unità a sinistra ma avendo chiaro che due dei quattro soggetti della cosiddetta Sinistra Arcobaleno già non esistono più e guardano in direzione del PD. Personalmente ho rispetto per Paul Ginsbourg, Tortorella e Agnoletto, ma francamente non credo che costruire un soggetto unico con loro produrrebbe il cambiamento di cui abbiamo bisogno. In Italia abbiamo due partiti comunisti, da lì credo si debba partire nel consolidamento dei processi unitari. L’autonomia comunista resta, a mio avviso, il primo strumento per raggiungere l’unità della sinistra, compresa quella sommersa o annegata, senza gettare via il patrimonio di diciassette anni di militanza e lotte, senza rinnegare l’intuizione fondamentale che nel ’91 ci portò a rifiutare la Bolognina. Bene ora ripartiamo da noi, dalla Rifondazione comunista, senza avere l’illusione di essere autosufficienti ma al contempo senza ritenere che il meglio sia sempre altrove.

 

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.