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Comitato politico regionale PRC del 9 settembre 2007

Comitato politico regionale PRC del 9 settembre 2007

Intervento sulla statutaria di Gianni Fresu.

 

Evito di perdermi in inutili locuzioni preliminari e cerco di andare al sodo della questione. Io credo che la nostra posizione dovrebbe essere a sostegno della riforma statutaria per due ordini di motivi, che attengono al merito e più complessivamente alle valutazioni politiche sul quadro di fondo.

Partendo dal merito non posso che concordare con la valutazione di quei compagni che individuano nella riforma elementi di presidenzialismo (l’elezione diretta, la nomina e la revoca degli assessori, lo scioglimento del Consiglio in caso di crisi), tuttavia, non concordo affatto con la tesi che interpreta la legge tout court come presidenzialista. Lo era senz’altro la prima bozza licenziata dalla Giunta, ma le modifiche apportate in commissione hanno prodotto il mutamento di alcuni capisaldi della proposta originaria, riaffermando la centralità del Consiglio e stabilendo un principio centrale che non fa parte del modello presidenziale: la possibilità che il Consiglio voti la sfiducia al presidente (art. 22).

Alcuni dei più accaniti detrattori della legge, interni al nostro partito, sorvolano su questo punto, oppure, come è accaduto in CPR, lo definiscono «automatico e scontato». Però bisogna intendersi, perché se si parla di presidenzialismo, in questo caso, di «automatico e scontato» non c’è proprio nulla. Nel sistema americano, l’idealtipo del modello presidenziale, non solo non esiste un simile istituto, ma addirittura esistono le elezioni di medio termine che hanno istituzionalizzato la possibilità di una maggioranza diversa nell’organo legislativo, senza che questo influisca sui rapporti di forza o limiti la potestà del Presidente e del suo esecutivo. Negli USA esiste semmai la messa in stato d’accusa, ma si tratta di un istituto estremo, che non ha natura politica, la cui origine risale alla dialettica tra ordini sociali e Corona britannica, quindi tutt’altra storia. Se proprio dovessimo etichettare dunque la legge statutaria dovremmo semmai parlare di semipresidenzialismo.

Tra le argomentazioni del fronte del No c’è poi il tema del “pesante condizionamento” gravante sull’attività dei consiglieri, per l’eventuale scioglimento del Consiglio in caso di crisi della Giunta e dimissioni del Presidente. Più o meno si dice: “tenuto conto di quanto sono attaccati alle poltrone, i consiglieri non voterebbero mai una sfiducia al Presidente senza la sicurezza di essere rieletti”. Ciò chiama in causa la qualità delle rappresentanze istituzionali, un problema reale che in più passaggi si è palesato, anche se il primo sentimento che una simile realtà mi suscita non è certo la solidarietà istituzionale. Mi verrebbe da dire, preliminarmente, una classe politica così piccola e meschina non solo meriterebbe di essere mandata a casa alla prima crisi, ma in Consiglio proprio non ci dovrebbe mettere piede. Certo, questo attiene alle modalità di selezione dei gruppi dirigenti e delle rappresentanze, più che alle forme istituzionali, tuttavia, è singolare che gli stessi compagni che invocano la ventata rinnovatrice e moralmente rivoluzionaria del “V day”, contemporaneamente facciano simili considerazioni. Io credo che se una forza politica ha il vigore politico e morale delle proprie convinzioni non ha paura di tornare alle elezioni, correndo eventualmente anche il rischio di vedere ridotto il suo numero di voti. La serietà di una forza e della dialettica negli organi legislativi si misura in primo luogo con le assunzioni di responsabilità, senza rete o paracadute.

A me sembra che con questa argomentazione, più che la centralità del Consiglio si finisca per tutelare il potere interdittorio, quasi sempre affaristico-clientelare, che contraddistingue una sotto-specie politica molto diffusa tra la classe dirigente sarda, che non brilla certo per la sua propensione ad assumersi le responsabilità delle proprie determinazioni politiche: i franchi tiratori. Aggiungo altro – sapendo di suscitare più di un sussulto nelle anime pure di tanti Braveheart della libertà e della democrazia parlamentare (mi vengono in mente le facce di alcuni paladini impavidi come Maninchedda, Vargiu e Mariotto Floris) – se questa norma sancisse l’estinzione di questa specie perniciosa e infida, i “franchi tiratori”, io farei festa!

C’è poi il fatto che questa legge è sicuramente meno presidenzialistica di quella attuale, derivante dalla modifica del Titolo V della Costituzione, che in caso di vittoria del fronte del No resterebbe in vigore. Insomma tutto, tranne che un miglioramento del quadro in senso parlamentare e proporzionale.

Tanto più che il fronte abrogazionista, come del resto quello che sostiene la statutaria, è nella stragrande maggioranza favorevole al sistema presidenziale e maggioritario. C’è chi dice che con l’abrogazione della statutaria si avvierebbe una fase costituente per noi più avanzata. A me sembra che questa argomentazione non faccia minimamente i conti con la realtà e ciò per almeno tre ordini di motivi:

1) la schiacciante superiorità in entrambi i comitati delle posizioni presidenzialiste e maggioritarie più estreme;

2) una eventuale vittoria dei No innescherebbe una crisi politica che travolgerebbe tutto portandoci non ad una fase costituente ma alle elezioni, con la legge attuale;

3) rispetto alla fase in cui è stata strappata quella mediazione, oggi c’è un fatto in più: la nascita del partito democratico, le cui posizioni in materia sono arcinote. Oggi quell’accordo raggiunto in Commissione e in Consiglio non sarebbe già più possibile, e il risultato sarebbe ancora più regressivo.

Oltre a questo c’è poi un fatto di logica e coerenza politica, perché non si può lavorare per ottenere una mediazione, portando l’intera maggioranza a rinunciare ad una parte delle sue posizioni, votare in Commissione ed in Consiglio a favore del risultato ultimo, e poi, nel vortice della campagna referendaria, rispedire al mittente una legge che comunque si è contribuito a varare.

Infine c’è un altro versante di considerazioni che attiene alla sostanza politica di questo referendum, dietro cui si nasconde non la paura per la deriva presidenzialistica in atto, ma la necessità di dare una spallata a Soru per azzerare alcune delle scelte politiche più forti adottate in questa legislatura. Anche solo osservando il fronte mediatico sceso in campo con martellante continuità (nel quale i palazzinari sono editori e gli editori palazzinari), si intuiscono benissimo gli enormi interessi economici malcelati. Dietro questo referendum ci sono lobby e corporazioni che già si sfregano le mani per l’opportunità di azzerare tutto e rilanciare le più nobili tradizioni dell’imprenditoria sarda: abusivismo e sacco delle coste, sovvenzioni e delega di funzioni pubbliche alla sanità privata, cascate di finanziamenti alle confraternite della “de-formazione professionale”. Il tutto in nome della libertà di iniziativa economica, ovviamente. Non è del resto un caso che, contemporaneamente alla martellante propaganda referendaria, si raccolgono le firme per abrogare il Piano paesaggistico regionale. Insomma, la sostanza mi parla di un referendum pro o contro Soru. O meglio ancora, un referendum pro o contro alcune scelte del Governo Soru, e, badate bene, non contro gli aspetti che abbiamo fin qui criticato, ma in opposizione alle scelte di tutela dell’ambiente, smilitarizzazione, rilancio della sanità pubblica, modello di sviluppo.

A mio modo di vedere, stare con il fronte del No significa incrementare l’arsenale e lo sbarramento di fuoco del plotone di esecuzione. Mi e vi domando, avremmo un avanzamento o un arretramento del quadro con la vittoria dei No?

Al netto dell’intera esperienza in questa legislatura le luci prevalgono sulle ombre. In questa anni, pur tra diversi limiti, più volte ravvisati, si è intervenuto con una forza ed un coraggio, spesso inediti, su ambiti rispetto ai quali difficilmente si avrà eguale forza e coraggio in futuro. Mi riferisco alle politiche di tutela ambientale e al PPR, al Piano sanitario regionale, alla battaglia per una moralizzazione della pubblica amministrazione, a quelle sulle servitù militari e sulle entrate fiscali, alle tasse sul turismo di lusso e al progetto di redistribuzione delle risorse per le zone interne, alla volontà di porre fine al ladrocinio legalizzato della “de-formazione professionale”.

Esistono anche aspetti non positivi, ma nel complesso, a me sembra, questa legislatura verrà ricordata in futuro come una delle più produttive, sicuramente non paragonabile ad altre esperienze del passato, ricordiamoci il calvario dell’era Palomba, e neanche ad altre amministrazioni regionali di centro sinistra attualmente in attività in Italia.

I comunisti sanno fare le battaglie di principio, ma sanno anche operare tenendo conto del reale contesto oggettivo. Il grande Partito comunista, che ci ha liberato dal nazifascismo, era risolutamente a favore della netta separazione tra Chiesa e Stato ed ha usato tutti i suoi mezzi per riaffermare in Assemblea costituente la natura non confessionale della Repubblica, ciò nonostante, accettò l’articolo 7 che faceva salvi i Patti lateranensi. Era questa una contraddizione con la propria posizione di principio, un tradimento, o era semplicemente una scelta dettata dalla necessità di tutelare gli aspetti positivi di quella mediazione?

Le battaglie di principio sono sacrosante, ma di fronte alle scelte più difficili, specie nelle fasi di crisi, bisogna anche farsi una domanda fondamentale: con la mia scelta ottengo un avanzamento o un arretramento delle posizioni che sostengo?

Penso di avere già diffusamente spiegato come la penso in proposito.

 

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.