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Gianni Fresu, intervento al Congresso Regionale del PRC Sardegna

Gianni Fresu, intervento al Congresso Regionale del PRC Sardegna

Quartu S.Elena, 8 novembre 2008

 

Richiamare la conclusione del Congresso di Chianciano non è un semplice atto formale, ma costituisce un indicazione di lavoro chiara ed inequivocabile che nessuna autonomia statutaria può mettere in discussione, a meno di non voler dar corso ad una qualche operazione di carattere scissionista. Il nuovo corso del PRC ha anzitutto un punto fermo ed irrinunciabile: Rifondazione comunista c’è per l’oggi e per il domani e nessuna ipotesi di Costituente della sinistra, o di nuovo soggetto politico che dir si voglia, ne può mettere in discussione l’autonoma soggettività. Da qui bisogna ripartire per rilanciare il processo della rifondazione comunista in Italia e favorire forme di unità a sinistra, senza precipitazioni organizzative e scorciatoie politiche liquidatorie della nostra storia ed identità.

Unitamente a questa indicazione, il PRC sardo deve fare proprie le valutazioni autocritiche sulle dinamiche degenerative della nostra organizzazione denunciate alla Conferenza di Carrara. Allora parlammo giustamente di una crisi politica e di un “sistema malato” che investiva anche noi. Anche in Sardegna la crescita del Partito si è così scontrata con una realtà che ricorda a volte più le camarille liberali che una moderna organizzazione di massa delle classi subalterne. In quale altro modo potremmo definire la tendenza a piegare l’essenza e la funzionalità delle nostre strutture partecipative alle esigenze di un grande comitato elettorale personale, che si articola dal livello più alto a quello più basso elargendo ruoli e prebende in ragione del rapporto di fedeltà militare? La tendenza a confondere la costruzione del partito con la semplice gestione del potere? L’idea malata in ragione della quale la presenza nei livelli istituzionali è intesa non come inveramento della nostra capacità di amministrazione e direzione politica, ma come semplice lottizzazione funzionale al consolidamento oligarchico dei rapporti di forza interni al Partito?

Tutto questo ha prodotto due conseguenze nefaste nella vita del Partito in Sardegna, che ne hanno minato fortemente la credibilità, sul versante sia interno sia esterno delle sue proiezioni.


Sul versante interno questa distorsione ha prodotto, in ultima analisi, il primato della sfera istituzionale su quella politica e la sistematica violazione delle nostre regole di funzionamento democratico. Le decisioni fondamentali sulla vita del Partito vengono prese in organismi extrastatutari dove conta più il capo corrente degli stessi rappresentanti del Partito eletti in sede congressuale. Il Gruppo Consiliare, o meglio la sua presidenza, si è sostituito alla Segreteria regionale e quest’ultima, per quanto in funzione subalterna rispetto al primo, si è sostituita al Comitato Politico Regionale, sempre più percepito come un inutile intralcio, svuotato di ogni funzione che gli è propria. De facto si è affermata una mutazione statutaria in ragione della quale organismi sovrani come il CPR vengono riuniti solo post factum, lasciando ad essi la mera funzione di organo consultivo o al massimo di organo chiamato a ratificare scelte già adottate altrove e in quanto tali già operative. Una contraddizione emerge in maniera chiara: siamo proporzionalisti nella società ma applichiamo il maggioritario puro al nostro interno; predichiamo la “democrazia partecipata” fuori ma pratichiamo l’unilateralismo dentro.

Nell’ultimo congresso si è palesata anche un’altra contraddizione, da un lato siamo una delle regioni più virtuose nel rapporto tesserati-abitanti, per un altro ci troviamo di fronte ad uno stato gravissimo di desertificazione politica ed organizzativa del Partito, con intere federazioni in macerie o in stato di smobilitazione (in un partito serio sarebbero commissariate senza battere ciglio), e circoli dall’esistenza effimera che compaiono e spariscono come funghi nelle brevi stagioni congressuali e nelle tornate elettorali. In alcuni paesi, quando non era in corsa il notabile di riferimento, ci siamo trovati ad avere più iscritti che votanti alle elezioni a conferma di uno squilibrio, quantomeno anomalo, che politologi e sociologi dell’organizzazione in genere spiegano con una modalità clientelare di radicamento.

Sul versante esterno invece, questa distorsione ci ha portato ad essere percepiti come tutti gli altri partiti politici, come parte costitutiva e integrante della cosiddetta “casta”. Per quanto possa non corrispondere al vero, è senso comune diffuso che in Sardegna nessuna delle forze politiche in campo, compresi noi, si sottragga all’espressione “sono tutti uguali”.

Al di là del qualunquismo di una simile affermazione, il consenso generale che essa raccoglie fornisce un’indiretta conferma della nostra incapacità a essere una reale e credibile alternativa politica. In questi anni ci siamo giocati uno dei patrimoni più significativi della nostra storia, quella concezione della “diversità comunista” che in passato ci ha reso parte organica della storia delle classi subalterne italiane, non un’escrescenza sovrappostasi artificiosamente e strumentalmente ad esse.

Politica e morale sono termini inscindibili della dialettica comunista, morale e politica non devono essere intesi come sinonimo di moralismo, ma lo specchio più fedele della corrispondenza tra teoria e prassi, tra quel che si dice e quel che si fa. L’intreccio di queste distorsioni si è tradotto nella totale inefficacia del nostro operato sul piano politico e istituzionale: nel primo caso abbiamo perso per strada ogni rapporto organico con le classi che abbiamo l’ambizione di rappresentare; nel secondo, continuiamo a ruminare parole d’ordine come Rinascita, piano per il lavoro, rinaturalizzazione ma in concreto non abbiamo fornito alcuna risposta reale. La nostra presenza in questa legislatura regionale è stata significativa, arrivando a controllare l’Assessorato al Lavoro, e ciò nonostante non abbiamo lasciato alcun segno tangibile della nostra presenza nelle istituzioni, al di là dei bizantinismi consiliari nella gestione dei nostri rapporti interni e di quelli con il resto della sinistra.

Così per mezza legislatura il Partito è rimasto impigliato nelle diatribe interne su Capogruppo e Assessore. In questa “dialettica”, la parte che poi è arrivata a controllare Partito, Gruppo e Assessorato, fino a che non ha ottenuto quel che anelava, ha fatto le barricate contro il Presidente e la Giunta, trovando spesso imbarazzanti convergenze con la peggiore opposizione della destra, poi, ottenuto quel che pretendeva, ai cavalli di frisia delle barricate ha sostituito i tappetini scendiletto. Risultato, non abbiamo ottenuto nulla, né prima, né dopo. Anzi, possiamo dire che gli aspetti più significativi di questa legislatura (smilitarizzazione, tutela ambientale, riordino del sistema sanitario, moralizzazione della pubblica amministrazione regionale, taglio delle spese clientelari) sono stati ottenuti non grazie a noi ma, almeno in certi casi, addirittura, malgrado noi.

Il Congresso regionale è la naturale conclusione di un processo politico che ha dimensione nazionale, ma è anche la sede più legittima nella quale fare un bilancio serio su quel che siamo stati capaci di realizzare attraverso le politiche regionali. Al bilancio non si può sostituire per l’ennesima volta la predicazione sterile, come se in questi anni fossimo stati all’opposizione, dei Piani di Rinascita, delle Rinaturalizzazioni, delle marce per il lavoro, dell’autonomismo.

Riteniamo necessaria una svolta nella vita del Partito in Sardegna; un rinnovamento profondo della sua linea politica e dei suoi gruppi dirigenti. Occorre un mutamento nei costumi, nell’agire politico, nella considerazione che si deve avere dei compagni e delle funzioni dirigenti democraticamente espresse. Il Comitato Politico Regionale deve tornare ad essere il reale luogo di elaborazione e di scelta delle linee tattiche e strategiche del Partito in Sardegna. La valorizzazione di tutti gli organismi partecipativi deve essere il primo necessario passo per un pieno rispetto delle regole statutarie.

Le emergenze della precarietà e i problemi della povertà e dell’esclusione sociale, connessi allo sfruttamento capitalistico, si dipanano tutti dal dato che costituisce la ragion d’essere del PRC: la centralità del conflitto capitale-lavoro e la necessità storica del superamento degli attuali rapporti sociali di produzione.

Questo dato, che può dirsi per noi naturale, si sta imponendo alla generalità del senso comune in una fase di crisi finanziaria ed economica internazionale drammatica come questa. Qua non siamo di fronte a una crisi dovuta agli eccessi del cosiddetto neoliberismo, è il modo di produzione capitalistico in quanto tale, con tutti i suoi rapporti di sfruttamento, dominio e rapina a mostrare il suo volto.

Partendo da questo dato, ed avendo ben chiaro ragione e fine del nostro Partito, diviene altrettanto chiaro come entrambi debbano farsi “carne e ossa”, plasmarsi ed articolarsi in una organizzazione che non abbia semplicemente l’ambizione di rappresentare burocraticamente le classi subalterne attraverso il voto e la delega passiva dell’iniziativa politica ai suoi gruppi dirigenti e alle rappresentanze istituzionali. Il Partito non deve solo rappresentare lavoratori, disoccupati e sfruttati in genere, bensì ne deve essere costituito; deve incentrare la sua iniziativa nel vivo del conflitto sociale e saper suscitare una elaborazione e direzione politica che sia il più possibile diffusa, orizzontale e collettiva. In ciò risiede la differenza tra l’idea di un partito di massa comunista e l’idea del partito d’opinione e d’immagine, che riproduce in sé le modalità tipiche del rapporto passivo di rappresentanza sociale della tradizione liberale e borghese.

Vogliamo costruire un partito sardo nel quale le funzioni dirigenti non si riducano alle rappresentanze istituzionali, ai vertici di direzione politica, alle virtù carismatiche della leadership, ma divengano costruzione molecolare di massa dell’elaborazione e dell’iniziativa. In questo senso, deve essere affermato il primato del partito sulle rappresentanze istituzionali.

Un partito comunista capace di organizzare conflitti; capace di suscitare, sviluppare e star dentro i movimenti; radicato nel territorio e nel mondo del lavoro; un Partito culturalmente autonomo dalle ideologie dominanti; che tenga aperta la prospettiva del superamento del modo di produzione capitalistico, della lotta per il comunismo.

Nel 1991 abbiamo rifiutato l’idea di un semplice partito di sinistra, nell’ultimo congresso nazionale lo abbiamo ribadito. Dai tempi della Bolognina qualcuno può aver cambiato idea, nulla di strano, e allora non abbia timore, si disfi pure del nostro amato simbolo, abbandoni l’indicibile aggettivo comunista, ma non pretenda di farlo portando nella fossa la nostra organizzazione. Nessuna unità della sinistra sulle macerie del PRC, nessun nuovo soggetto che ne cannibalizzi storia e identità. Viva la rifondazione comunista!

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.