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Gianni Fresu, intervento CPN, 5-6 ottobre 2007.

Gianni Fresu, intervento CPN, 5-6 ottobre 2007.

 

Le difficoltà del partito in questa fase non sono riconducibili, esclusivamente, ai suoi limiti attuali; all’interno di questa coalizione di governo, i margini di movimento per la sinistra d’alternativa sono ora risibili se non totalmente inesistenti. Le cause di queste contraddizioni sono a monte, risiedono negli errori di linea politica che hanno preceduto e seguito le passate elezioni politiche e facilitato l’imposizione di una ipoteca moderata, se non proprio conservatrice, che sarà arduo scalzare in questa legislatura. La pagina più significativa sul terreno della sinistra d’alternativa è stata la costituzione dei Comitati referendari per l’estensione dell’articolo 18, che riuscì a catalizzare un significativo consenso attivo su un punto nodale. La cosa più logica sarebbe stata, all’indomani di quella battaglia, che si fosse intrapresa una fase di interlocuzione tra quei soggetti per individuare i temi programmatici fondamentali sui quali avviare il confronto con altre forze dell’Unione, ponendo prima, e non dopo, un limite preciso alle oscillazioni del governo. Al contrario, si è preferito arrestare qualsiasi interlocuzione seria e si è invece avviata una trattativa diretta ed individuale con quelle stesse forze che in occasione del Referendum invitarono gli italiani ad “andare al mare”. Poi si è intrapresa la scorciatoia delle Primarie, dando luogo ad una devastante competizione all’interno della sinistra d’alternativa, che si giocava tutta sul presunto «effetto dirompente della leadership». Risultato: la sinistra d’alternativa ne è uscita a pezzi, polverizzata e ridimensionata, mentre la parte più conservatrice del centro sinistra ha ottenuto un plebiscitario 80% di consensi. Non contenti di tutto ciò, dopo le elezioni, abbiamo proseguito una assurda competizione a sinistra per la definizione degli assetti di governo, peraltro spendendo malissimo il nostro peso elettorale per conseguire un ruolo sicuramente di prestigio, ma totalmente inutile sul piano della battaglia politica, come quello della Presidenza della Camera.

Ma fare le pulci al passato non è in questo momento particolarmente utile, anche se mi aspetto che al Congresso ci sia finalmente una riflessione seria e non autoassolutoria su tutto ciò. Con la scelta della manifestazione del 20 ottobre e con la sua piattaforma sembra ci sia la volontà per invertire la rotta e raggiungere finalmente una più stretta unità d’intenti a sinistra, nella salvaguardia dell’autonomia politica e organizzativa dei comunisti. Certo non si può pretendere che i rapporti di forza mutino con questa manifestazione, tuttavia, non appena verranno trovate le forme adeguate di coordinamento e azione, non si potrà sfuggire a lungo dalla richiesta di una svolta – ponendo seriamente in campo anche l’ipotesi della rottura – senza la quale il bilancio di questa esperienza di governo sarebbe totalmente negativa, e non tanto per noi, quanto per le classi sociali che abbiamo l’ambizione di rappresentare.

In diversi interventi ho sentito riecheggiare i temi del dibattito sulla cosiddetta «crisi della politica», senza però andare al fondo dei nodi che ci riguardano più da vicino, quelli sul funzionamento del nostro partito e sulle modalità di selezione dei suoi gruppi dirigenti e istituzionali. Personalmente ritengo essenziale un intervento teso a limitare i privilegi della politica e rilanciare una questione morale ad ampio raggio, capace di investire tutti gli aspetti della problematica, tuttavia, a me la tesi sulla «casta politica» non convince del tutto, o meglio, pare insufficiente. Nel nostro paese c’è un problema più ampio che riguarda le classi dirigenti, in cui rientra anche la politica, ma di cui fanno parte le burocrazie statali, il mondo accademico, quello industriale, quello giornalistico e dell’alta cultura. La vera casta si annida dietro la solidarietà tra cointeressati che si dispiega nelle funzioni dirigenti e in quelle intellettuali, dando a questa definizione l’accezione più ampia che Gramsci gli attribuiva. Pur in presenza di una forte stratificazione sociale, nel nostro paese esiste una netta frattura tra dirigenti e diretti, lo stipendio del parlamentare è solo il sintomo più superficiale e forse meno grave.

Dunque da comunisti credo che dovremmo avere la capacità da un lato di intervenire sulle distorsioni più macroscopiche della degenerazione nel rapporto di rappresentanza, ma dall’altra bisognerebbe andare più alla radice del problema. La nostra Costituzione nasce e disegna una struttura istituzionale che ha quale sua base d’attacco fondamentale le reti di partecipazione popolare rappresentate nell’immediato dopoguerra dai grandi partiti di massa. Nessuna opera di ingegneria istituzionale e marchingennio elettorale è in grado di ovviare alla scomparsa di quella base d’attacco, dopo un di lungo e inesorabile processo di decadenza che aveva fatto di quei partiti strumenti inadeguati, spesso in balia della legge ferrea delle oligarchie. Sinceramente non capisco perché certi compagni, anche su questo tema, continuino a scagliarsi contro le «grandi categorie della politica novecentesca». La crisi della politica non è dovuta alla loro persistenza, ma al fatto che già dagli anni Sessanta esse sono state progressivamente abbandonate e sostituite da rapporti fiduciari-oligarchici e da intrecci lobbystici tra politica ed economia. Dico questo perché non mi sembra affatto che le grandi categorie del XXI secolo, quelle dell’innovazione, del saper fare, della contaminazione, abbiano prodotto una svolta. Anzi, noi stiamo facendo i conti con gli stessi problemi di tutti gli altri partiti – seppur con intensità diverse – dopo una lunga stagione di smantellamento dell’idea del partito di massa. L’idea assembleare dell’agire politico, tipico della mistica movimentista, non ha portato a maggiore partecipazione, ha determinato semmai l’emergere di una concezione sempre più leggera, mediatica e carismatica dell’organizzazione politica. Ogni picconata all’idea del partito di massa è stata un contributo alla edificazione di nuove oligarchie politiche e non la liberazione di nuove energie democratiche. Una delle più grandi questioni nella storia dei partiti di massa risiedeva proprio nella costruzione dei suoi gruppi dirigenti e nel rendere sempre più diffuse e collettive le funzioni di direzione politica, non è un caso che l’attività della formazione fosse una funzione dell’organizzazione, e non di un indistinto dipartimento cultura-scuola-università. Io credo che da comunisti dobbiamo aggredire sia il problema del rapporto di rappresentanza, realizzando anzitutto al nostro interno una sempre maggiore diffusione nella elaborazione e direzione politica, sia quello più complessivo delle classi dirigenti nel nostro paese e con esse la condizione di dominio (economico e politico) imposto alle classi subalterne. È il settantesimo anniversario della morte di Gramsci, se oltre a celebrarne la figura facessimo fino in fondo i conti anche con il suo lascito teorico, primo tra tutti quello dell’«intellettuale collettivo», forse potremmo fare un passo in avanti.

 

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.