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“NO” alle servitù militari, “SI” alla pace e alla civiltà.

NO” alle servitù militari, “SI” alla pace e alla civiltà.

Intervista al Presidente della Regione Autonoma della Sardegna Renato Soru.

A cura di Gianni Fresu.

«l’ernesto», Anno XIII – N.4 Luglio/Agosto 2005

Proprio nel sessantesimo anniversario del più grande atto terroristico che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, è tornato sotto la luce dei riflettori un problema che ci riguarda da vicino ma di cui si è fino ad oggi ignorata la gravità: nel corso degli ultimi tre decenni nel mar Mediterraneo è andata sempre più ad aumentare la concentrazione di immensi arsenali con armamenti a testata nucleare in palese violazione del Trattato di non proliferazione del 1970.

Anche su questo versante – come da tradizione oramai – la Sardegna si trova a subire, suo malgrado, un ruolo di assoluta centralità con la presenza sul suo territorio di due porti destinati all’attracco e alla sosta di navi a propulsione nucleare. Il primo è quello della base di Santo Stefano nell’Isola di La Maddalena – istituita nel 1972 attraverso un Trattato segreto mai ratificato dal Parlamento di cui dopo 32 anni ancora non sappiamo nulla – all’interno della quale il Governo Berlusconi ha dato il via libera al raddoppio delle volumetrie a terra (52000 metri cubi di cemento armato in una parco con vincoli di inedificabilità assoluta), nonostante il parere contrario di Consiglio Regionale, Giunta e COMIPA (il Comitato paritetico sulle servitù militari) e nonostante l’opposizione di un movimento che in questi anni è andato via via ad ingrossare le sue fila.

Il secondo è invece il porto di Cagliari nel quale la situazione è se vogliamo ancora più paradossale. Le norme internazionali di sicurezza sottoscritte dal nostro paese vieterebbero l’ormeggio nel porto militare di Cagliari di navi e sottomarini a propulsione nucleare perché i suoi moli sono adiacenti alle condotte di trasporto di combustibile che si diramano nel cuore della città concludendo il loro percorso nei depositi sotterranei del colle di “Monte Urpinu” (il parco cittadino più importante e frequentato dai cagliaritani) e del promontorio della “Sella del Diavolo” che domina l’affollatissima spiaggia del “Poetto”, non a caso chiamata “la spiaggia dei centomila”. Ma nonostante tutto ciò il porto nucleare esiste, mentre manca invece un qualsiasi piano di emergenza in caso di incidente.

La normativa vigente1 impone che i piani di emergenza siano conosciuti dai soggetti a cui sono rivolti, i quali vanno informati, sia dei rischi potenziali sia delle misure adottate per “avvertire, proteggere e soccorrere la popolazione”, così come prevede il coinvolgimento di autorità, rappresentanti della comunità scientifica, tecnici e via dicendo, all’interno di un comitato appositamente creato. I Piani di emergenza così elaborati dovrebbero poi essere sottoposti a verifica ed esercitazione periodica. Nella realtà dei fatti non solo non c’è traccia di tutto questo, ma abbiamo assistito in proposito ad un indecoroso balletto da parte delle autorità competenti che ha dell’incredibile.

Infatti se l’11 e il 21 aprile del 2005 il Prefetto di Cagliari ha categoricamente escluso, in via formale, che Cagliari sia uno scalo militare per navi nucleari, appena due mesi dopo, il 7 giugno, il Ministro Martino – confermando del resto i pronunciamenti dei Ministri della difesa che lo hanno preceduto – lo ha smentito rispondendo in Parlamento ad una interrogazione di Mauro Bulgarelli. Martino ha infatti ribadito che Cagliari è inserita tra gli undici porti militari nei quali è prevista la sosta di unità militari a propulsione nucleare. Solo dopo una seconda interrogazione parlamentare il Prefetto ha ammesso lo “status particolare” del porto di Cagliari senza rendere noto però alcun piano di emergenza.

Al di là dei due casi specifici la Sardegna ha già pagato nel corso di tutta la guerra fredda il peso di una presenza militare invasiva che non ha paragoni con nessuna regione italiana, è stata deprivata di una parte consistente e preziosissima del suo territorio, è stata imbrigliata ed anestetizzata contro qualsiasi ipotesi di sviluppo di quelle realtà. Capo Frasca, Salto di Quirra, Teulada sono altri esempi lampanti in questo senso: le terre e il mare da destinare alla fruizione delle comunità sono state circondate dal filo spinato e dopo essere state sottratte ad un qualsiasi utilizzo produttivo, sono diventate teatri di guerra per le esercitazioni o immensi show room per le fabbriche di armi. Risultato: territori di straordinario valore naturalistico sono diventati immense discariche belliche sottoposte a sperimentazione con armi di ogni genere e mai bonificate. E come già abbiamo avuto modo di sottolineare in passato la fine della guerra fredda anziché generare il progressivo disarmo nell’area Mediterranea ha finito per rendere ancora più frenetica l’attività operativa delle basi militari2. Contro tutto questo però si è mobilitato e si mobilita con forza una parte consistente del popolo sardo non più disponibile a subire in silenzio l’utilizzo dell’isola in chiave militare. Questa mobilitazione, che negli anni è cresciuta conquistandosi il sostegno convinto e consapevole dell’opinione pubblica sarda, ha trovato lungo la strada una sponda istituzionale fondamentale nel Presidente della Regione Renato Soru il quale già nel programma elettorale – che portò il centro sinistra più Rifondazione comunista alla netta affermazione elettorale del giugno 2004 – aveva previsto proprio il progressivo smantellamento delle basi militari in Sardegna tra i suoi punti qualificanti. Tutto ciò ha fatto sì che questa battaglia divenisse non solo una bandiera dei soggetti del movimento che tradizionalmente hanno lavorato in quella direzione (Comitato sardo gettiamo le basi, PRC, Social Forum, forze politiche indipendentiste, comitati spontanei di cittadini), ma bensì oggetto di scontro con il Governo nazionale sulle prerogative dell’Autonomia regionale, in materia di governo del territorio e scelte sui modelli di sviluppo adottabili facendo compiere alla rivendicazione contro le basi un notevole salto di qualità. Lo stesso discorso varrebbe poi per le politiche di tutela ambientale che hanno portato il Governo Berlusconi – anche in questo caso colto da un flagrante conflitto d’interessi – ad impugnare di fronte alla Corte costituzionale la cosiddetta “Legge salvacoste”, attraverso la quale la Giunta Soru ha introdotto nuovi pesanti vincoli contro la cementificazione selvaggia delle coste e più in generale la devastazione del territorio sardo.

Oggi in Sardegna sia la lotta per la pace e contro la guerra, sia quella per la tutela ambientale, investono una vera e propria questione di sovranità, nella quale la Regione e i suoi organismi esecutivi e legislativi esigono di essere soggetti attivi della ridiscussione e della trattativa sulla presenza militare e più in generale sulle scelte fondamentali che riguardano il proprio territorio. Questa è forse la novità più importante su cui si va evidenziando una discontinuità rispetto ai governi regionali del passato.

Segni forti di questa consapevolezza sono sempre più chiari e palesi. A Teulada sia la lotta dei pescatori per gli indennizzi e la bonifica, sia il confronto duro attuato da parte della Regione con lo Stato per porre fine al più complessivo sistema di occupazione militare ne sono – seppur da versanti diversi – l’emblema.

Nel braccio di ferro ingaggiato con il Governo e le autorità militari il Presidente della Regione sarda Renato Soru ha cercato di raggiungere una soluzione che mantenesse strettamente saldati i diritti all’indennizzo dei pescatori con la ridiscussione della servitù, rifiutando le ipotesi pasticciate avanzate dal Ministero che rimettevano in discussione intese precedentemente raggiunte sulla progressiva dismissione delle aree militari3 e rigettavano le deliberazioni legittimamente assunte dal COMIPA contro la prosecuzione delle esercitazioni nell’isola. Martino e il sottosegretario Cicu hanno infatti preteso che dal protocollo venisse stralciata tutta la questione della bonifica e delle dismissioni previste, oltre a pretendere che venissero ritirati i no alle esercitazioni del COMIPA.

L’atteggiamento del Ministero della Difesa, che con malcelati ricatti e intimidazioni ha eluso tutti i problemi posti sul tappeto, rinviandone dolosamente la soluzione, ha dunque ingenerato uno scontro istituzionale senza precedenti tra Stato e Regione inducendo il Presidente Soru a non firmare il protocollo con il Ministero, ad annunciare l’avvio di una fase di «resistenza pacifica» ed a chiedere ai propri rappresentanti nel COMIPA di opporsi ad oltranza a qualsiasi richiesta proveniente dai militari.

Presidente Soru, nei mesi precedenti lei ha avviato un durissimo confronto con Governo e Autorità militari sulle servitù, tanto da parlare di “resistenza pacifica”, quali saranno i prossimi passi del suo Governo in proposito e quali i suoi obiettivi.

In tema di servitù militari non possiamo fare molto col nostro Statuto, però possiamo fare resistenza pacifica, una specie di guerra pacifica. Nei prossimi mesi ci ingaggeremmo in una battaglia di resistenza pacifica. In che modo? Abbiamo già conferito un mandato ben preciso alla nuova commissione paritetica per le servitù militari, che è stata recentemente costituita dal consiglio regionale: non autorizzare nulla. Noi ci opporremo a tutto, anche quando la ragione ci dovrebbe suggerire che potremmo essere favorevoli a quel che ci viene richiesto in tema di servitù militari, di cambiamenti operativi, di spostamenti logistici. Noi non autorizzeremo più niente fintanto che non ci verrà riconosciuto il peso eccessivo, ingiusto, iniquo, delle servitù militari nella nostra regione in questo momento. Fintanto che questo tema non verrà riconosciuto, noi non autorizzeremo neanche l’apertura di una finestra in una caserma. Quando ci verrà chiesto, noi lo respingeremo, e quando ci verrà fatta la notifica di utilità da parte del Ministro, noi la respingeremo e andremo nel Consiglio dei Ministri a rivendicare le ragioni del nostro rifiuto. E vi garantisco che sarà così ogni volta, fino a quando non otterremo un riequilibrio delle servitù militari che liberi la Sardegna dagli attuali gravami.

Lei ha più volte detto che la Sardegna ha già ampiamente fatto la sua parte sul versante militare e sulla base di ciò ha chiesto al governo Berlusconi un profondo riequilibrio della presenza delle servitù che liberi l’isola dai gravami subiti, che cosa si aspetta in proposito da un eventuale governo di centro sinistra se nelle elezioni del 2006 dovesse determinarsi una svolta nel governo nazionale?

La Sardegna si è già sacrificata fin troppo nel corso della sua storia per le esigenze militari dell’Italia: la partecipazione alla “grande guerra” della Brigata Sassari, di Emilio Lussu, del suo attendente, di tutti gli sconosciuti, cittadini di questa regione che hanno pagato duramente il loro contributo, in quella come nelle altre guerre. E il nostro contributo lo abbiamo dato anche in tempo di pace, come ai tempi della guerra fredda, così come lo stiamo dando anche oggi, accettando, nei fatti, la presenza di una base militare americana. Però ora vogliamo un riequilibrio che ponga fine ad una condizione inaccettabile per la quale nel nostro territorio vengono esplose circa l’80% delle bombe utilizzzate in Italia, e vogliamo un riequilibrio che intervenga su un altro fatto non certo piacevole e positivo per la nostra terra, il transito e la sosta dei sottomarini nucleari. Come già detto, noi abbiamo fatto la nostra parte e ora è tempo che qualcun altro si sostituisca a noi, ci avvicendi in questo “fronte di ospitalità”.

In proposito mi aspetto molto dal governo di centrosinistra. Ho chiesto a tutti i leader del centrosinistra dal palco del comizio conclusivo della campagna elettorale per le amministrative, a primavera, che nel programma della coalizione venga scritto questo punto: il riequilibrio del peso delle servitù militari nel territorio nazionale. C’erano Prodi e D’Alema, ai quali l’ho ripetuto anche dopo i comizio. Porterò questa posizione che è sta ribadita più volte dal Consiglio regionale della Sardegna, in tutte le occasioni che ci saranno in queste settimane di messa a punto del programma del centrosinistra. E ho fiducia, molta fiducia, che questo segnale verrà dato, a tutti i sardi, dalle forze che si candidano, con molte speranze, a governare l’Italia nei prossimi anni

Secondo diversi analisti gli interessi sempre più divergenti tra i principali poli imperialistici nella lotta per l’accaparramento delle risorse energetiche e per il controllo delle relative reti di trasporto ha reso nuovamente il Mediterraneo strategicamente centrale – insieme al Mar Nero e al Mar Caspio. L’indisponibilità a dismettere le basi in Sardegna si inserirebbe dunque in questo contesto e nel delinearsi di due “modelli di difesa” distinti e potenzialmente contrapposti tra USA e UE. Lei che idea si è fatto e soprattutto, la sua battaglia contro la presenza militare in Sardegna ha quale movente essenziale solo la necessità di sottrarre quelle aree da un utilizzo che ne impedisce lo sviluppo, o ha invece anche una valenza politica più ampia che investe i temi della pace e della contrapposizione al nuovo scenario di “guerra permanente” aperto dal primo conflitto nel golfo del 1991?

Dal 1972 a oggi, da quando è stato concesso alla Marina Usa di insediare una base alla Maddalena, la situazione strategica internazionale, la politica internazionale è totalmente cambiata. Sono passati 32 anni. Non c’è nulla di ideologico nella mia posizione. C’è solamente la stanchezza di un soldato che è stato al fronte troppo a lungo, e che chiede di essere avvicendato, anche nell’ospitare i sommergibili nucleari. E credo di rappresentare l’interesse di tutta la Regione, nel chiedere che la nostra isola venga avvicendata in questo gravosissimo compito. Su questo è necessario che chi rappresenta il governo della Regione abbia per quanto possibile il sostegno di tutta la politica sarda, di tutto il Consiglio regionale, di tutti i cittadini sardi. Per questo non è una fuga in avanti del Presidente. Per questo è necessario il contributo di tutti i sindaci, le forze sindacali, di quelle politiche, dei lavoratori, delle forze imprenditoriali, di tutta quella gente che crede in un altro utilizzo possibile e migliore del territorio.

Coloro che si oppongono alla dismissione delle basi utilizza come argomento la presunta ricaduta occupazionale che essa comporta affermando che essa porterà ad un’ulteriore impoverimento dell’isola, lei al contrario afferma che dalla fine della presenza militare può venire un nuovo impulso decisivo per il benessere della nostra Regione, che idea di sviluppo ha per quei territori una volta liberati da filo spinato, poligoni e caserme.

Anzitutto va precisato che chiudere un poligono non significa necessariamente dover mandare a casa i militari, o comunque non è incompatibile con la presenza di militari. Recentemente a S. Antioco, un paesino del basso Sulcis, mi è capitato di parlare con un alto ufficiale. E gli ho chiesto ma perché dovete sparare per forza sempre in Sardegna? La sua risposta è stata semplice: “perché gli unici poligoni sono qui”.

Nelle mie posizioni non c’è antimilitarismo, sia chiaro, i militari sono importanti. Importantissimi. Non abbiamo difficoltà ad ospitarli e ospitarne anche di più in futuro. Tuttavia rivendichiamo il nostro diritto ad essere trattati come i cittadini di tutte le altre regioni italiane. Con gli stessi diritti e con gli stessi doveri. Con lo stesso dovere di partecipare nei diversi modi dovuti alla difesa di questo paese, in tempo di pace, ospitando attività militari. Siamo interessati a farlo in maniera equilibrata. In maniera paragonabile all’ospitalità che viene resa in altre regioni d’Italia. La legge già prevede tutto questo, va semplicemente applicata.

Per quanto riguarda le prospettive successive alla dismissione dei poligoni militari mi basta dire che ho fiducia nell’intelligenza e nel coraggio dei sardi. Ho la fiducia che sia nell’intelligenza e nel coraggio dei sardi poter fare più e meglio nell’arcipelago di La Maddalena piuttosto che ospitare sommergibili nucleari. E ciò vale per tutte le altre aree della nostra regione sottoposte al regime di servitù militare.

Recentemente il PRC ha avanzato una mozione in Consiglio regionale nella quale impegna il suo Governo a farsi promotore presso gli organismi competenti di una conferenza internazionale tesa a denuclearizzare il Mediterraneo tramite accordi internazionali analoghi a quelli che tra il 1985 e il 1996 istituirono quattro zone libere da armi nucleari in America Latina (1985); Pacifico del Sud (1985), Sud Est Asiatico (1995), Africa (1996). Cosa pensa di questa proposta e che passi intende intraprendere se la ritiene valida per fare realmente della Sardegna “isola di pace” al centro del Mediterraneo?

Sono stato al centro di una polemica durissima quando in campagna elettorale ho avuto modo di dire che avremmo voluto non vedere mai più le immagini dei soldati sardi di ritorno da un fronte di guerra. Allora tornavano da Nassirya e le televisioni mandavano le immagini di questi ragazzi al ritorno in aeroporto, una musica da film come commento musicale, e poi fanfare. Dissi: non facciamoci distrarre, non facciamoci distrarre e non facciamoci ingannare.

I Governi qualche volta ingannano, e quando non riescono a creare e distribuire lavoro, quando non garantiscono equità, quando non riescono a garantire il diritto all’ istruzione, alla sanità, allora ricorrono a simboli, medaglie, fanfare e marcette militari per sostituire tutto quel che manca e che non sono riusciti a dare.

Noi abbiamo un’altra idea di Sardegna rispetto a quella della retorica da marcetta. Il contesto in cui la Sardegna si colloca oggi è totalmente cambiato e ci può offrire molto di più. È il contesto dell’Unione Europea, della globalizzazione dei mercati, della circolazione delle culture, delle tecnologie di comunicazione e delle pluralità e facilità nei mezzi di trasporto. Le opportunità di conoscenza, di confronto, sono totalmente cambiate e con esse anche i sardi sono cambiati.

L’Europa coinvolge nella sua Unione i paesi di nuova adesione e ci dà anche la responsabilità di aiutare ed avvicinare questi paesi. A questa responsabilità noi siamo chiamati con la consapevolezza che essa è anche un’opportunità enorme, di pace e sviluppo, che ci consente di porre a confronto le diverse culture dell’ Europa con i paesi del Nord Africa, con i popoli del Mediterraneo, per fare interagire insieme tutte queste ricchezze.

E allora se la Sardegna fosse anche luogo d’incontro per questi stessi paesi, un centro attraverso il quale le diverse culture si confrontano e si parlano, si mostrano e si mettono in relazione le une con le altre sostenendosi reciprocamentee, la nostra isola ci guadagnerebbe sicuramente in tutti i sensi assumendo un ruolo importantissimo, un ruolo che in questo momento non è ancora svolto da nessuno, un ruolo per il quale ci possiamo candidare non con proclami, non con domande da riempire, ma con il lavoro quotidiano, giorno per giorno, che già stiamo svolgendo per tessere relazioni con questi paesi e farli crescere insieme a noi. Questa è la nostra idea di convivenza pacifica e tutti gli strumenti che servono a garantirla, compresa una Conferenza Internazionale, sono i benvenuti. Vorremmo fare della Sardegna un’isola di pace in un mare Mediterraneo di scambi e in una Europa che garantisca il progresso alle sue popolazioni e a quelle più prossime.

Un’ultima domanda Presidente, la vittoria della coalizione del Centro-sinistra in Sardegna nel giungo 2004 ha dato forse il primo scossone significativo al Governo delle destre in Italia. Un anno dopo molte roccaforti del centro destra, specie al sud, sono state espugnate e il suo Governo è stato indicato da Nichi Vendola come modello da emulare nella lotta per riscattare il mezzogiorno dal sottosviluppo. In che termini ritiene che da regioni come la Sardegna e il mezzogiorno possa venire un impulso per una nuova stagione di rinnovamento politico in Italia e soprattutto con quale idea di società.

In Cina oggi credo che ogni anno si producano circa trenta volte il numero degli ingegneri che si laureano in Inghilterra, immaginiamo che tipo di crescita avranno questi paesi. Ciò nonostante, io non accetto l’idea del declino del Mezzogiorno, e con esso della Sardegna, e penso che l’internazionalizzazione dell’economia possa darci grandi opportunità, non solo svantaggi. In Sardegna solo il 31% supera la terza media, solamente dieci occupati su cento hanno la laurea, mentre in Europa il dato è del 32%, e allora qual è il modello di sviluppo che vogliamo? Noi abbiamo detto anzitutto che è ora di finirla con l’idea basata sulla incessante costruzione di villaggi turistici e seconde case, un’idea di sviluppo miope che consuma il nostro territorio – destinata ad esaurirsi con esso – che offre prevalentemente opportunità di lavoro per le quali basta la terza media (imbianchini, muratori, camerieri).

Io ho in mente una cosa diversa. Questa concezione vecchia di turismo e questa concezione vecchia dell’edilizia non costruiscono nulla, non creano valore, puntano semplicemente alla sopravvivenza. E un po’ come andare avanti alla giornata vendendo i beni di famiglia, ma come tutti sanno non si va avanti per lungo tempo vendendo i beni di famiglia, al massimo ci campa una generazione, già la seconda sarà povera se non avrà mandato i figli a scuola, se non sarà stata capace di creare ricchezza autonomamente.

Oggi, nel mondo attuale, il modo più importante, il modo assolutamente importante, l’unico modo per creare ricchezza passa attraverso la conoscenza. Non ci potrà più essere un paese ricco e ignorante, nel futuro prossimo saranno ricchi e staranno bene solamente i paesi che avranno un livello di conoscenza adeguato per il mondo contemporaneo, per questa Europa che stiamo conoscendo, per questo mondo globale in cui ci tocca vivere. E allora abbiamo bisogno di più diplomati, di più laureati e di meno metri cubi di cemento e villaggi per vacanze preconfezionate. La nostra idea di sviluppo parte dalla cultura diffusa che può esaltare e far germogliare la nostra storia, le nostre tipicità, le nostre ricchezze naturalistiche, che possono interagire splendidamente con l’innovazione e la modernità.

C’è la nuova Europa, la nuova Europa composta da venticinque Paesi e più di cento Regioni. Tante di esse, oltre a quelle del nostro Mezzogiorno, entreranno nei parametri di sostegno allo sviluppo previste dall’Obiettivo 1. Lo sviluppo della Sardegna e del Mezzogiorno oggi è inserito in un quadro di competizione molto più vasto rispetto al passato più recente, tante Regioni percepiranno forme di assistenza europea più elevate rispetto a quelle riservate alla nostra e al Mezzogiorno nel suo insieme. E allora come rispondere a questa nuova sfida? Come potremo dare risposte ai nostri bisogni, con quale tipo di sviluppo? Cercando di fare tesoro, di fare perno, di fare leva su quello che abbiamo. E in tutto il Mezzogiorno abbiamo tanto in tema di storia, cultura diffusa, saperi locali, tradizione, abbiamo tantissimo in tema di ambiente. Dunque per me il motore essenziale dello sviluppo non può che essere l’intelligenza alimentata da un adeguato livello di conoscenza, che non si ferma mai, che non si accontenta del dato acquisito ma continua a crescere su sé stessa.

Questo è, io credo, il vero motore di sviluppo di ogni paese, popolo, nazione e cultura, questa è la battaglia di progresso in cui siamo impegnati.

 

1 Il DECRETO LEGISLATIVO 241 26 maggio 2000 – che ha modificato il DECRETO LEGISLATIVO 230/95, in Attuazione delle direttive 96/29/EURATOM in materia di protezione sanitaria della popolazione e dei lavoratori contro i rischi derivanti dalle radiazioni ionizzanti – prevede agli articoli 117, 118, 119, 120, 121, una normativa molto precisa e dettagliata sui piani di emergenza che sono totalmente elusi dalla Prefettura di Cagliari e dalle altre autorità competenti in materia

2 “L’isola americana” nel numero n. 3 Maggio Giugno 2004 de «l’ernesto».

 

3 Una prima intesa in direzione della progressiva riduzione dei vincoli imposti dalle servitù militari, fu siglata nel 1985 tra il ministro della difesa Spadolini e il presidente della Regione, Mario Melis, quindi nel 1999 venne ratificata una nuova un intesa Stato – Regione, rispettivamente dal Presidente del Consiglio dei Ministri Massimo D’Alema e quello della Regione sarda Federico Palomba. Inutile sottolineare che entrambi gli accordi sono rimasti fino ad oggi lettera morta.

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.