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VII Congresso Nazionale Congresso Nazionale – Chianciano, 24- 28 luglio 2008.

VII Congresso Nazionale Congresso Nazionale

Chianciano, 24- 28 luglio 2008.

Intervento di Gianni Fresu

 

Tra tanti indicatori, alcuni dei quali contraddittori, il congresso due segnali chiari li ha sicuramente dati. Il primo è che il partito non intende più essere il martello nelle mani di un singolo uomo; il corpo militante non vuole ancora fare la parte della massa di manovra ipnotizzata e sedotta dall’oratoria brillante, dai colpi di teatro. È finito il tempo delle deleghe passive agli organismi dirigenti.

Uno dei limiti maggiori che abbiamo scontato in questi anni risiede nel concetto di autonomia del politico, e con esso la convinzione che i problemi del Partito si potessero risolvere sul terreno del carisma, delle virtù taumaturgiche del leader.

Nuovamente, anche in questo congresso, si è tentata la stessa strada: così, prima ancora di avanzare una analisi minima sulle cause del disastro e prima di aver chiarito quale progetto politico si intendesse realizzare, è stata proposta la candidatura di un singolo compagno alla guida del partito, quasi a voler rassicurare la base sul fatto che quel nome con la sua storia dovesse essere la garanzia primaria per la nostra salvezza e il rilancio. A prescindere dal nome in sé e dalle sue capacità, il congresso ha anzitutto bocciato il metodo.


In questo anno trascorso ci siamo interrogati spesso sulla cosiddetta «crisi della politica», senza però andare mai al fondo dei nodi che ci riguardano più da vicino, quelli sul funzionamento del nostro partito e sulle modalità di selezione dei suoi gruppi dirigenti e istituzionali, spesso avvenute per cooptazione attorno a singole personalità su base puramete fiduciaria e prescindendo dalle effettive capacità e competenze specifiche.

È sicuramente essenziale un intervento teso a limitare i privilegi della politica e rilanciare una questione morale ad ampio raggio, capace di investire tutti gli aspetti della problematica, tuttavia, a me la tesi sulla «casta politica» non convince del tutto, o meglio, pare insufficiente. Nel nostro paese c’è un problema più ampio che riguarda le classi dirigenti, in cui rientra anche la politica, ma di cui fanno parte le burocrazie statali, il mondo accademico, quello industriale, quello giornalistico e dell’alta cultura. La vera casta si annida dietro la solidarietà tra cointeressati che si dispiega nelle funzioni dirigenti e in quelle intellettuali, dando a questa definizione l’accezione più ampia che Gramsci gli attribuiva. Pur in presenza di una forte stratificazione sociale, nel nostro paese esiste una netta frattura tra dirigenti e diretti, lo stipendio del parlamentare è solo il sintomo più superficiale e forse meno grave.

Dunque, da comunisti, credo che dovremmo avere la capacità da un lato di intervenire sulle distorsioni più macroscopiche della degenerazione nel rapporto di rappresentanza, ma dall’altra bisognerebbe andare più alla radice del problema. La nostra Costituzione nasce e disegna una struttura istituzionale che ha quale sua base d’attacco fondamentale le reti di partecipazione popolare rappresentate nell’immediato dopoguerra dai grandi partiti di massa. Nessuna opera di ingegneria istituzionale è in grado di ovviare alla scomparsa di quella base d’attacco, dopo un lungo e inesorabile processo di decadenza che aveva fatto di quei partiti strumenti inadeguati, spesso in balia della legge ferrea delle oligarchie, dell’eterogenesi dei fini. Sinceramente non capisco perché certi compagni, anche su questo tema, continuino a scagliarsi contro le «grandi categorie della politica novecentesca». La crisi della politica non è dovuta alla loro persistenza, ma al fatto che esse sono state progressivamente abbandonate e sostituite da rapporti fiduciari-oligarchici e da intrecci lobbystici tra politica ed economia. Dico questo perché non mi sembra affatto che le grandi categorie del XXI secolo, quelle dell’innovazione, del saper fare, della contaminazione, abbiano prodotto una svolta. Anzi, noi stiamo facendo i conti con gli stessi problemi di tutti gli altri partiti – anche da extraparlamentari – dopo una lunga stagione di smantellamento dell’idea del partito di massa. L’idea assembleare dell’agire politico, non ha portato a maggiore partecipazione, ha determinato semmai l’emergere di una concezione sempre più leggera, mediatica e carismatica dell’organizzazione politica. Ogni picconata all’idea del partito di massa è stata un contributo alla edificazione di nuove oligarchie politiche e non la liberazione di nuove energie democratiche. Una delle più grandi questioni nella storia dei partiti di massa risiedeva proprio nella costruzione dei suoi gruppi dirigenti e nel rendere sempre più diffuse e collettive le funzioni di direzione politica, non è un caso che l’attività della formazione fosse una funzione dell’organizzazione, e non di un indistinto dipartimento cultura-scuola-università.

Il nostro compito oggi è aggredire sia il problema del rapporto di rappresentanza, realizzando anzitutto al nostro interno una sempre maggiore diffusione nella elaborazione e direzione politica, sia quello più complessivo delle classi dirigenti nel nostro paese e con esse la condizione di dominio (economico e politico) imposto alle classi subalterne.

Il passaggio dalla classe in sé alla classe per sé è un processo che può dispiegarsi appieno solo attraverso il sovvertimento dei vecchi schemi naturalistici dell’arte politica, dall’abbandono completo di un modo dualistico di intendere il rapporto tra direzione politica e masse in ragione del quale il politico diviene una sorta di sacerdote incaricato di interpretare i sentimenti delle masse popolari per tradurli poi in direttive politiche che esse devono applicare meccanicamente se non militarescamente.

Nell’idea carismatica della direzione politica la linea soge dall’intuizione individuale nel costante tentativo di far satare il banco con i colpi di teatro. Con questo Congresso speriamo si celebri, al nostro interno, definitivamente, il funerale alla politica intesa come costante ricerca della mossa del cavallo e che essa porti con sé nella tomba tutto il suo carico di cadornismo e plebiscitarismo.

Serve un mutamento profondo, molecolare, nella vita di questo Partito. Bisogna addivenire ad una elaborazione e una direzione che sia finalmente collettiva, diffusa, condivisa, non il frutto dell’intuizione intellettuale di un singolo capo tradotto in idee forza dai meccanismi burocratici dell’organizzazione. Bisogna voltare pagina. Ripartire dal processo della Rifondazione comunista, senza arrestare il processo di unità a sinistra ma avendo chiaro che due dei quattro soggetti della cosiddetta Sinistra Arcobaleno già non esistono più e guardano in direzione del PD. Fino ad ora nei rapporti a sinistra si è oscillato tra la competizione senza esclusione di colpi, (ingresso nell’Unione concordato con le forze moderate, primarie, assetti di governo, Sinistra europea), e la proposta di un partito unico all’interno del quale quella dei comunisti sarebbe dovuta essere solo una «tendenza culturale». Come stupirci della disaffezione verso il nostro Partito se è da otto anni che si ripropone il tema del suo «superamento», prima nei movimenti, poi nella Sinistra europea, quindi nella Sinistra Arcobaleno o nella Costituente della sinistra?

L’autonomia comunista resta il primo strumento per raggiungere l’unità della sinistra senza gettare via il patrimonio di diciassette anni di militanza e lotte, senza rinnegare l’intuizione fondamentale che nel ’91 ci portò a rifiutare la Bolognina e l’idea di una sinistra senza aggettivi priva di connotati di classe. Ecco dunque il secondo segnale chiaro di questo congresso, che non potrà essere ignorato: nessuna unità della sinistra può fondarsi sulle macerie della nostra organizzazione che resta per l’oggi e per il domani. Dobbiamo ripartire da noi, dalla Rifondazione comunista, senza avere l’illusione di essere autosufficienti ma al contempo senza ritenere che il meglio sia sempre altrove.

Vorrei concludere con una battuta. All’indomani delle elezioni il compagno Vendola volle commentare il disastro elettorale affermando che “il Novecento ci era caduto addosso”. Forse, se avesse analizzato con un minimo in più di umiltà e autocritica, si sarebbe accorto che invece ci è precipitato addosso il 2008 e con esso tutto il portato di una linea politica sbagliata che il nostro elettorato ha rifiutato. È ora che quella linea cambi e profondamente.

 

 

 

Professore di Filosofia politica presso la Universidade Federal de Uberlândia (MG/Brasil), Dottore di ricerca in filosofia Università degli studi di Urbino. Ricercatore Università di Cagliari.