Gramsci e l’ammirazione per Goethe

Gramsci e l’ammirazione per Goethe

Il poeta tedesco è una figura molto presente nei Quaderni

Martedì 05 maggio 2009
Il terzo Quaderno di traduzioni, riprodotto nel volume in uscita domani, oltre a proseguire lo studio sui ceppi linguistici di Franz Nikolaus Finck, contiene le traduzioni delle “Conversazioni con Goethe” di Eckermann. Le Conversazioni raccolgono le memorie del grande poeta e scrittore tedesco attraverso i colloqui con il suo segretario Joahn Peter Eckermann. Goethe è stato definito un genio universale per la versatilità del suo estro manifestatosi in diversi campi del sapere, poesia, letteratura, scienza, filosofia. Eckermann tramite i ricordi ne ricostruisce l’universo ideale, il mondo e i valori, fino a tratteggiare un affresco biografico ritenuto uno dei più grandi patrimoni della letteratura occidentale, definito da Niezstche “il miglior libro tedesco mai scritto”.
Goethe è una figura sistematicamente presente nei Quaderni come nelle lettere. Per Gramsci ogni nazione ha un letterato che ne riassume in qualche modo la gloria intellettuale, Shakespeare per l’Inghilterra, Cervantes per la Spagna, Dante per l’Italia, Goethe per la Germania. Tuttavia solo Shakespeare e Goethe possono ritenersi figure intellettuali operanti anche nell’età contemporanea, autori attuali, per la loro capacità “d’insegnare come dei filosofi quello che dobbiamo credere, come poeti quello che dobbiamo intuire (sentire), come uomini quello che dobbiamo fare”. In Goethe Gramsci intravede una forza politico-culturale capace di varcare il suo tempo e imporsi al presente: “solo Goethe è sempre di una certa attualità, perché egli esprime in forma serena e classica ciò che nel Leopardi è ancora torbido romanticismo”.
Si comprende dunque, nel lavoro di traduzione preliminare allo studio dei Quaderni, l’importanza di quest’opera essenziale per comprendere il grande poeta tedesco e rispetto alla quale c’è un ulteriore elemento da tenere in considerazione. La lettura delle Conversazioni con Goethe nella condizione di detenzione accomuna l’esperienza di Gramsci con quella di un grande critico letterario francese vissuto negli stessi anni. Nel Quaderno I Gramsci riporta alcuni stralci delle Impressioni di prigionia di Jacques Rivière, storico editore della “Nouvelle Revue Française”, pubblicate nel 1928 tre anni dopo la sua morte. In esse Rivière raccontava le vessazioni subite durante la prigionia nella prima guerra mondiale, in particolare l’umiliazione patita nel corso di una perquisizione nella sua cella, quando vennero sequestrate le sue poche cose e soprattutto l’unico libro che aveva con sé, appunto le Conversazioni con Goethe.
Gramsci ha trascritto le sensazioni di disperazione e angoscia del francese per lo stato brutale e incerto di una prigionia, vissuta come un’ineliminabile “stretta al cuore”, nella quale si è costantemente esposti a ogni tipo di angheria e la condizione di oppressione fisica e psichica diviene insopportabile.
Un’angoscia condivisa dall’intellettuale sardo che non a caso concluse queste note scrivendo del pianto in carcere “quando l’idea della morte si presenta per la prima volta e si diventa vecchi d’un colpo”.

 

Il Risorgimento, l’occasione fallita

Il Risorgimento, l’occasione fallita

Nei Quaderni del carcere viene analizzata la storia d’Italia

Martedì 28 aprile 2009
Il sesto volume in uscita domani contiene il Quaderno 9 nel quale Gramsci delinea la struttura della sua ricerca sul Risorgimento italiano, poi sviluppata in dettaglio nel resto dell’opera. Qui vengono ipotizzati due lavori distinti: uno specifico sull’Età del Risorgimento e uno di introduzione al tema, costituito da una raccolta di saggi sulle diverse fasi della storia mondiale e le ripercussioni di questa sulla storia italiana. Il periodo storico compreso è molto vasto: dalla caduta dell’Impero romano al Medio Evo; dall’Età del mercantilismo e delle monarchie assolute all’Età liberale. Nel riconsiderare il Risorgimento Gramsci si pone l’obiettivo di distruggere le «concezioni antiquate, retoriche» e oleografiche della storia nazionale. L’intellettuale sardo individua i limiti essenziali della realtà politica e sociale italiana, compreso l’avvento del fascismo, entro la cornice di una debolezza congenita delle sue classi dirigenti. Limiti che affondano le radici indietro nel tempo, ben prima dell’Ottocento, nell’arresto dello sviluppo capitalistico della civiltà comunale, nella natura cosmopolita dei suoi ceti intellettuali, nella mancata formazione di uno Stato unitario moderno, prima che una serie di coincidenze internazionali consentissero tale processo.
La pretesa di concepire e presentare il Risorgimento come fatto essenzialmente italiano tradiva il provincialismo e la poca attendibilità scientifica di tanta parte della storiografia italiana. Il concetto di “personalità nazionale” era cioè una mera astrazione se considerata al di fuori dei rapporti internazionali. Il Risorgimento non potrebbe spiegarsi senza tenere conto dei mutamenti che si producono negli equilibri europei tra Settecento e Ottocento, della rivoluzione francese, della diffusione dei principi universali del liberalismo. Le interpretazioni del Risorgimento erano molteplici e disparate, e anche questa “ricchezza” sarebbe stata in realtà un manifesto della debolezza delle forze che lo hanno prodotto, della carenza di elementi sufficientemente nazionali, della mancanza di uno “spirito nazionale popolare”. L’insieme di queste interpretazioni aveva un carattere immediatamente politico e non storico, oltre ad essere affetta da una certa astrattezza e tendenziosità di fondo. Per l’autore, si trattava di una letteratura che germoglia nelle fasi più acute di crisi politico-sociale, segnate dal distacco tra governanti e governati e dalle paure per i rischi di travolgimento della vita nazionale nei suoi equilibri conservatori.
È in queste condizioni che i ceti intellettuali si prodigano nella riorganizzazione di correnti ideologiche e di forze politiche in crisi. Anche attraverso l’utilizzo strumentale della storia si esercita il dominio politico, ecco perché la cosiddetta ideologia è una tra le più essenziali funzioni di governo. Ecco perché, per Gramsci, ciò che si intende per Stato non va limitato a governo, magistratura e polizia ma esteso al concetto di egemonia sociale e alla funzione politica degli intellettuali e della cultura.
GIANNI FRESU

 

Gramsci contro la casta e i leader

Gramsci contro la casta e i leader

Il grande pensatore sardo critica la politica gestita dall’alto

Martedì 21 aprile 2009
Il quinto volume dell’edizione anastatica dei Quaderni del carcere, in uscita domani, riproduce il secondo Quaderno denominato Miscellanea, proprio per indicare la presenza di argomenti tra loro diversi e l’assenza di un filo conduttore principale. Tra essi uno emerge con particolare forza, dato che costituisce un grande tema non solo dei Quaderni ma dell’intera attività politica e teorica di Antonio Gramsci: il rapporto tra dirigenti e diretti nella scienza politica, l’utilizzo strumentale e interessato delle grandi masse da parte di ristretti gruppi che controllano oligarchicamente partiti politici, organizzazioni sociali, istituzioni rappresentative. Un tema di assoluta attualità, in un tempo nel quale con sempre più insistenza si discute della cosiddetta “casta” e si impone all’attenzione generale la crisi del rapporto di rappresentanza, la distanza della politica dai reali interessi popolari. Nel Quaderno 2, in particolare, Gramsci si sofferma sull’opera di Robert Michels che agli inizi del Novecento aveva analizzato questo fenomeno nelle organizzazioni del movimento operaio. Lo studioso tedesco affermava che nella democrazia la tendenza all’organizzazione e alla specializzazione delle funzioni di direzione politica è una conseguenza inevitabile. Ciò valeva particolarmente per i grandi partiti di massa dove il corpo vasto degli aderenti finiva per essere tiranneggiato da una minoranza dirigente, che trasformava l’organizzazione stessa da mezzo a fine. Nei Quaderni del carcere Gramsci esprime dei giudizi taglienti e sarcastici sugli studi di Michels sui partiti politici, definendoli superficiali e strumentali. Ciò nonostante per Gramsci essi ponevano problemi reali impossibili da trascurare per un’organizzazione politica che intendesse trasformare radicalmente la società. La stessa preoccupazione è presente, sempre nel Quaderno 2, nelle note dedicate al Generale Cadorna che a suo modo costituisce una figura rappresentativa della mentalità delle classi dirigenti italiane e un emblema della contraddizione tra governanti e governati. In politica come in caserma, per i gruppi dirigenti, una volta individuata la direttiva essa va applicata con obbedienza, senza discutere, senza sentire l’esigenza di spiegarne la necessità e la razionalità. Il “cadornismo” consiste nella persuasione che una determinata cosa sarà fatta perché il dirigente la ritiene giusta e razionale, e per questa ragione viene affermata come dato di fatto indiscutibile. Esso per molti versi è la metafora di un problema storico irrisolto: l’utilizzo strumentale delle masse, il fatto che esse finiscano per essere un materiale grezzo nelle mani del “capo carismatico” di turno. Il supermento del “cadornismo”, per Gramsci sarebbe dovuto avvenire attraverso il sostituirsi nella funzione direttiva di organismi politici collettivi e diffusi ai singoli individui, ai “capi carismatici”, fino a sconvolgere i vecchi schemi “naturalistici” dell’arte politica. L’antidoto al capo carismatico sarebbe stato l’intellettuale collettivo, ma questo è già un argomento dei quaderni successivi.
GIANNI FRESU

Gramsci, la passione per le lingue

Gramsci, la passione per le lingue

Chiuso in cella traduce di tutto e studia le diversità del sardo

Martedì 14 aprile 2009
L’interesse di Gramsci per la linguistica risale ai tormentati anni dello studio universitario nella grande Torino, resi difficili da salute cagionevole e disponibilità economiche che rasentavano la miseria più assoluta. Il giovane sardo attirò subito l’attenzione di uno dei più importanti studiosi di glottologia del tempo, Matteo Bartoli, e intensificò i rapporti con il docente di letteratura Umberto Cosmo, in passato professore al Liceo Dettori di Cagliari. Bartoli in particolare lo incoraggiò nello studio della linguistica sarda. Così non è inusuale trovare lettere ai familiari riguardanti questo tema. In una destinata al padre del 3 gennaio 1912 chiedeva quando nel dialetto fonnese la s «si pronuncia dolce, come in italiano rosa» e «quando dura, come sole», in altre destinate alla sorella chiedeva di informarsi circa alcune peculiarità del logudorese e del campidanese, su termini, pronunce, varianti. Non è dunque un caso se nei Quaderni tanta attenzione sia dedicata alla glottologia e in generale alla linguistica.
Il volume in uscita domani, con le traduzioni del manuale di Franz Nikolaus Finck, all’epoca l’opera più rigorosa di classificazione delle lingue del mondo, ne è una prima manifestazione. Dopo anni di militanza e un’intensa attività teorico-politica, le traduzioni di queste prime note dal carcere avevano un valore propedeutico, oltre che terapeutico, necessarie all’inizio di un lavoro “disinteressato” rispetto al quale le condizioni ambientali non aiutavano. È ancora una lettera alla cognata Tania del 15 settembre 1930, nella quale considerazioni personali e di studio si mischiano, ad accennarlo: «sarà perché tutta la mia formazione intellettuale è stata di ordine polemico; anche il pensare disinteressatamente mi è difficile, cioè lo studio per lo studio. Solo qualche volta, ma di rado, mi capita di dimenticarmi in un determinato ordine di riflessioni e di trovare per dir così, nelle cose in sé l’interesse per dedicarmi alla loro analisi. Ordinariamente mi è necessario pormi da un punto di vista dialogico o dialettico, altrimenti non sento alcuno stimolo intellettuale».
Al di là di questa valutazione autocritica, tratto caratteristico della personalità di Gramsci, le traduzioni e gli studi di linguistica sono condotti con assoluto rigore filologico, curiosità intellettuale e un metodo oggi analizzato con grande attenzione dagli specialisti della materia. Nel comunicare in una lettera la volontà di dedicarsi ad uno studio sistematico della linguistica comparata, egli confessò alla cognata Tania che uno dei suoi maggiori rimorsi intellettuali era «il dolore procurato al buon professor Bartoli dell’Università di Torino», che intravedeva per Gramsci un grande futuro tra i “neogrammatici”. Ma gli avvenimenti del “mondo grande, terribile e complicato”, che precedettero e seguirono la guerra, avevano spinto il giovane intellettuale sardo, come tanti della sua generazione, a trovare nell’impegno politico una nuova ragione di esistenza per la quale valeva la pena di rischiare tutto, compresa la vita.
GIANNI FRESU

 

I fratelli Grimm visti da Gramsci

I fratelli Grimm visti da Gramsci

Le traduzioni delle novelle raccolte nei Quaderni del carcere

Martedì 07 aprile 2009
Il terzo volume dei “Quaderni del carcere”, in uscita domani, contiene le traduzioni delle novelle dei fratelli Grimm curate da Gramsci agli inizi della sua carcerazione, una fase segnata da enormi difficoltà di concentrazione e avvio del piano di lavoro. Era infatti impossibile un rapporto di discussione con altri soggetti, necessario ad evitare un lavoro troppo autoriflessivo; era difficilissimo ottenere i mezzi per studiare con continuità e scrivere secondo un ordine razionale. Lo sconforto conseguente alle prime disordinate letture gli fanno dubitare sulle reali possibilità di riuscita del progetto. Così in una lettera a Tania, il 23 maggio 1927, annunciava di volersi dedicare a due attività con scopo terapeutico come gli esercizi ginnici e le traduzioni dalle lingue straniere: «Un vero e proprio studio credo mi sia impossibile, per tante ragioni non solo psicologiche ma anche tecniche; mi è molto difficile abbandonarmi completamente a un argomento o a una materia e sprofondarmi solo in essa, proprio come si fa quando si studia sul serio, in modo da cogliere tutti i rapporti possibili e connetterli armonicamente. Qualche cosa in tal senso forse incomincia ad avvenire per lo studio delle lingue, ora leggo le novelline dei fratelli Grimm. Sono proprio deciso a fare dello studio delle lingue la mia occupazione predominante».
Il terzo volume in edicola domani con L’Unione Sarda fa parte della collana di diciotto libri dedicati alla fedele riproduzione, in copia anastatica, dei “Quaderni del carcere”, scritti tra il 1929 e il 1935. Un’operazione culturale che ha ottenuto subito un’inaspettata risposta dai lettori ed è nata dalla collaborazione tra il giornale, l’Istituto Treccani, le Fondazioni Gramsci e Siotto.
Al di là dell’aspetto “terapeutico” le traduzioni dei fratelli Grimm presenti nel terzo volume sono importanti anche sul piano biografico. In una lettera alla sorella Teresina del 18 gennaio 1932, Gramsci scriveva di voler dare un suo piccolo contributo allo sviluppo della fantasia dei nipoti ricopiando e spedendo loro le traduzioni dei fratelli Grimm: «una serie di novelline popolari proprio come quelle che ci piacevano tanto quando eravamo bambini. Sono un po’ all’antica, alla paesana, ma la vita moderna, con la radio, l’aeroplano, il cine parlato, Carnera, ecc. non è ancora penetrato abbastanza a Ghilarza perché il gusto dei bambini d’ora sia molto diverso dal nostro di allora».
Pur provenendo dalla tradizione tedesca, le novelle, ambientate in boschi fitti e tenebrosi popolati di spiriti, streghe e folletti, non erano distanti dalla tradizione orale della fantasia popolare sarda e sembravano plasmarsi perfettamente sull’atmosfera della sua terra e del suo paese, un luogo «dove esisteranno sempre tipi all’antica come tia Adelina e Corroncu e le novelle avranno sempre un ambiente adatto». Queste traduzioni,rimasero escluse dalla pubblicazione delle precedenti edizioni dei Quaderni. La presente edizione ha il merito filologico di restituirle alla loro collocazione originaria, fornendo un quadro più esaustivo allo studio completo dell’opera.
GIANNI FRESU

 

Gramsci, l’alfiere del Mezzogiorno

Gramsci, l’alfiere del Mezzogiorno

Nel “Quaderno uno” l’analisi dei difficili rapporti tra Nord e Sud

Martedì 31 marzo 2009
Nel Quaderno uno è analizzato un tema organico all’intera opera, la debolezza delle classi dirigenti italiane: l’arresto dello sviluppo della civiltà comunale e la mancata formazione di uno Stato unitario moderno, i limiti del Risorgimento e l’assenza di una compiuta dialettica parlamentare in età liberale, il fenomeno del trasformismo. Il Risorgimento, tuttavia, è lo snodo analizzato maggiormente nel primo Quaderno, a iniziare dal fallimento delle prospettive democratiche del partito di Mazzini e dalla capacità egemonica dei Moderati di Cavour, i veri protagonisti dell’unificazione nazionale per l’intellettuale sardo. Il problema tutto italiano del “trasformismo” non era per Gramsci semplicemente un fenomeno di malcostume politico, bensì un preciso processo di cooptazione con il quale, dal Risorgimento in poi, si è ottenuto un consolidamento del potere politico attraverso la decapitazione e l’assorbimento dei gruppi avversi allo Stato.
L’importanza di queste analisi, che tratteggiano i termini essenziali di una “biografia nazionale”, è notevole sia per la storia che per la scienza politica e in esse sono contenute alcune tendenze che ciclicamente ricorrono nella vita politica italiana, specie nelle sue fasi di crisi. Ma l’originalità di tale analisi risiede nel comprendere che ogni sistema di potere si regge non solo sull’uso della forza ma anche sul consenso, sulla capacità di formare sul piano culturale e sociale ciò che comunemente si definsce “opinione pubblica”: la funzione essenziale degli intellettuali in una società moderna.
La famosa lettera scritta alla cognata Tania Schucht il 19 marzo 1927 dal carcere di Milano, nella quale Gramsci avanzava l’esigenza di dedicarsi ad un lavoro di ricerca “disinteressato” capace di occuparlo intensamente, costituisce un ponte tra l’analisi sulla Questione meridionale e quella dei Quaderni. Questa lettera è la prima esposizione del piano di lavoro ipotizzato per gli anni di detenzione. Già nel primo Quaderno, il tema dei rapporti tra Settentrione e Meridione è indagato con una prospettiva storica che investe le dinamiche del Risorgimento italiano e la funzione politica degli intellettuali. Per Gramsci l’Unità d’Italia si è realizzata attraverso una relazione squilibrata dove l’arricchimento e l’incremento industriale del Nord dipendevano dall’impoverimento del Mezzogiorno. Egli parla di uno sfruttamento semicoloniale occultato da tutta una letteratura che spiegava l’arretratezza del Sud con l’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita dell’uomo meridionale. Un Meridione liberato dal giogo borbonico, ritenuto fertile e ricco di risorse naturali, e ciò nonostante incapace di emanciparsi dalla miseria per ragioni tutte interne al Meridione stesso. Un Sud “palla al piede” che impediva al Nord un più rapido progresso verso la modernità industriale.
GIANNI FRESU

 

Ricomporre la diaspora comunista

Ricomporre la diaspora comunista.

Di Gianni Fresu (CPN PRC)

«La Rinascita», numero 8, giovedì 26 febbraio 2008

La ricomposizione della diaspora del ’98, per ricostruire insieme un’alternativa comunista forte e credibile in Italia, penso sarebbe la migliore risposta possibile ad una depressione economica mondiale che non è solo crisi del cosiddetto neo liberismo. La contraddizione è del capitalismo in quanto tale – delle sue regole di produzione, sfruttamento e appropriazione delle ricchezze – di ciò dobbiamo tenere conto, sapendo bene che la natura ciclica di queste crisi è fisiologica alle stesse modalità di espansione del capitalismo.

Le ragioni della frattura sono state ampiamente superate su tutti i versanti e contro l’ipotesi del riavvicinamento non vale l’argomento sulle presunte diversità politiche e culturali che ancora sussistono. Già ora all’interno di PRC e PdCI sono presenti orientamenti diversi e ciò non è di certo un ostacolo, inoltre vale la pena ricordare che veniamo tutti dalla stessa scommessa: la rifondazione di una teoria e una prassi comunista in Italia come risposta alla svolta della Bolognina. È chiaro, pensare di fare una semplice fusione di gruppi dirigenti sarebbe un errore destinato a non produrre nulla di buono, la riunificazione deve partire dalla presentazione di liste unitarie per le europee per poi divenire processo organico di integrazione e riconoscimento reciproco, attraverso la diffusione orizzontale e collegiale degli strumenti di elaborazione e direzione politica.

Il percorso di riunificazione deve essere necessariamente processuale ma non indefinito nel tempo, la difficile situazione interna ed internazionale non ce lo consentirebbe. La storia ci insegna che le recessioni hanno sempre dato luogo non solo al netto peggioramento delle condizioni di vita e lavoro delle masse popolari, ma a fasi tragiche di imbarbarimento delle relazioni sociali, di involuzione politica e culturale. Ci troviamo nel pieno di una fase di «crisi organica del capitalismo», ed è esattamente in simili contesti che hanno, in genere, luogo i peggiori processi di “modernizzazione” dei rapporti economici e sociali, attuati sempre attraverso la passivizzazione coatta delle grandi masse popolari, ciò che Gramsci definiva «rivoluzioni passive».

A fronte di una situazione tanto complessa il cannibalismo del PD, che ha speso tutte le sue energie per mettere fuori causa la sinistra di classe, anziché impegnarsi in un’opposizione reale alla destra, si è ritorto contro chi l’ha praticato. L’illusione del PD – un “moderno” partito interclassista, che avrebbe dovuto congiungere gli interessi del capitale e del lavoro – si è schiantata sugli scogli di una realtà ben più complessa dei sogni veltroniani. Il PD si è rivelato, in tutta la sua fragilità, un immenso comitato elettorale strutturato per camarille, un agglomerato composto da consorterie condensate attorno a singole personalità che controllano partito, istituzioni e collegi senza alcun disegno complessivo. Già a fine Ottocento la dissoluzione del liberalismo italiano portò al tentativo di assemblaggio dei due raggruppamenti tradizionali della Destra storica e della Sinistra liberale per formare un unico «blocco costituzionale» presentato come baluardo contro le due ali estreme della reazione e della rivoluzione. Oggi come allora più che di “trasformazione del sistema politico” si deve parlare molto più prosaicamente di «trasformismo» e il divampare in tutta la sua virulenza della questione morale ne è una conferma. L’attuale inservibilità politica del PD dimostra ulteriormente quanto fosse avventata l’idea della “costituente della sinistra”, che puntava tutte le chanche di un rilancio della sinistra sul rapporto organico con il partito di Veltroni. Ricomporre la diaspora non significa e non deve significare però chiudersi in un recinto identitario, ma al contrario fare un investimento per l’unità della sinistra, mantenendo anche un interlocuzione dialettica, non subalterna, con le altre forze democratiche. Il PRC è nato sulla base del binomio autonomia e unità, quella deve tornare ad essere la nostra bussola di orientamento per rifuggire ogni tentazione di settarismo minoritario e insieme di opportunismo. Oggi più che mai si sente il bisogno di un partito comunista capace di porre, attraverso il conflitto, al centro dell’agenda politica le questioni del lavoro, di plasmarsi organicamente sulle esigenze delle masse popolari, da qui possiamo ripartire.

Comitato Politico Nazionale PRC, 13-14 dicembre 2008. Intervento di Gianni Fresu.

Comitato Politico Nazionale PRC, 13-14 dicembre 2008. Intervento di Gianni Fresu.

 

Il quadro politico che emerge dalla crisi del Governo Soru mostra dei tratti di rilievo non solo regionale. La prima considerazione riguarda l’inservibilità politica del PD, artefice principale della crisi. A conferma ulteriore di quanto fosse avventata l’idea della “costituente della sinistra” che puntava tutte le chanches di un nostro rilancio sul rapporto organico con il partito di Veltroni. È paradossale ma il PD, che al momento della sua costituzione è stato presentato come soggetto votato alla stabilizzazione del quadro politico, si è rivelato in tutti i passaggi fondamentali la principale fonte di destabilizzazione e paralisi della maggioranza. Tenendo conto dell’accusa a suo tempo rivolta a Rifondazione (l’inaffidabilità governativa) da DS e Margherita verrebbe da spiegare tutto con la categoria della nemesi. Il PD in Sardegna, ma credo che il discorso valga a livello nazionale, è strutturato come le camarille liberali dell’Ottocento. Non si tratta di un soggetto politico dotato di una sua identità organica e definita ma di un agglomerato composto da consorterie condensate attorno a singole personalità che controllano partito, istituzioni e collegi senza alcun disegno complessivo. A fine Ottocento la dissoluzione del liberalismo italiano portò al tentativo di assemblaggio dei due raggruppamenti tradizionali della Destra storica e della Sinistra liberale per formare un unico «blocco costituzionale» presentato come baluardo contro le due ali estreme della reazione e della rivoluzione. Oggi come allora più che di “trasformazione del sistema politico” si deve parlare molto più prosaicamente di «trasformismo» e il divampare in tutta la sua virulenza della questione morale ne è una conferma. Sia chiaro che neanche Soru, per quanto possiamo rilevare gli aspetti enormemente positivi di questa legislatura, si sottrae a tale dinamica ma è parte in causa. Così, a mio avviso, la vera natura della crisi sta tutta nella lotta senza esclusioni di colpi per la leadership nel PD e nella coalizione di centro sinistra. Detto in altri termini, ci troviamo di fronte ad una crisi pilotata per tagliare gordianamente i nodi non risolti, che scarica irresponsabilmente sulle classi sarde più disagiate il fardello della decomposizione del PD. La crisi è stata decisa proprio quando doveva essere votata la manovra finanziaria, a cui è stata anteposta la legge urbanistica, con il risultato di andare ad elezioni in un periodo di recessione e con la desertificazione industriale in atto (proprio in queste settimane viene chiuso quel che resta dell’industria petrolchimica sarda), condannando l’isola ad un indefinito periodo tempestoso governato con l’esercizio provvisorio. Il nostro Partito si è semplicemente accodato, dopo aver concordato l’intesa futura con il Presidente della Regione non su un accordo programmatico ma su un semplice rapporto fiduciario personale. Su queste basi sarà difficile costruire qualcosa di solido e progressivo, imporre una svolta sul versante delle politiche attive del lavoro e su quelle dell’assetto industriale, deficitarie anche in questa legislatura.

Gianni Fresu, intervento al Congresso Regionale del PRC Sardegna

Gianni Fresu, intervento al Congresso Regionale del PRC Sardegna

Quartu S.Elena, 8 novembre 2008

 

Richiamare la conclusione del Congresso di Chianciano non è un semplice atto formale, ma costituisce un indicazione di lavoro chiara ed inequivocabile che nessuna autonomia statutaria può mettere in discussione, a meno di non voler dar corso ad una qualche operazione di carattere scissionista. Il nuovo corso del PRC ha anzitutto un punto fermo ed irrinunciabile: Rifondazione comunista c’è per l’oggi e per il domani e nessuna ipotesi di Costituente della sinistra, o di nuovo soggetto politico che dir si voglia, ne può mettere in discussione l’autonoma soggettività. Da qui bisogna ripartire per rilanciare il processo della rifondazione comunista in Italia e favorire forme di unità a sinistra, senza precipitazioni organizzative e scorciatoie politiche liquidatorie della nostra storia ed identità.

Unitamente a questa indicazione, il PRC sardo deve fare proprie le valutazioni autocritiche sulle dinamiche degenerative della nostra organizzazione denunciate alla Conferenza di Carrara. Allora parlammo giustamente di una crisi politica e di un “sistema malato” che investiva anche noi. Anche in Sardegna la crescita del Partito si è così scontrata con una realtà che ricorda a volte più le camarille liberali che una moderna organizzazione di massa delle classi subalterne. In quale altro modo potremmo definire la tendenza a piegare l’essenza e la funzionalità delle nostre strutture partecipative alle esigenze di un grande comitato elettorale personale, che si articola dal livello più alto a quello più basso elargendo ruoli e prebende in ragione del rapporto di fedeltà militare? La tendenza a confondere la costruzione del partito con la semplice gestione del potere? L’idea malata in ragione della quale la presenza nei livelli istituzionali è intesa non come inveramento della nostra capacità di amministrazione e direzione politica, ma come semplice lottizzazione funzionale al consolidamento oligarchico dei rapporti di forza interni al Partito?

Tutto questo ha prodotto due conseguenze nefaste nella vita del Partito in Sardegna, che ne hanno minato fortemente la credibilità, sul versante sia interno sia esterno delle sue proiezioni.

VII Congresso Nazionale Congresso Nazionale – Chianciano, 24- 28 luglio 2008.

VII Congresso Nazionale Congresso Nazionale

Chianciano, 24- 28 luglio 2008.

Intervento di Gianni Fresu

 

Tra tanti indicatori, alcuni dei quali contraddittori, il congresso due segnali chiari li ha sicuramente dati. Il primo è che il partito non intende più essere il martello nelle mani di un singolo uomo; il corpo militante non vuole ancora fare la parte della massa di manovra ipnotizzata e sedotta dall’oratoria brillante, dai colpi di teatro. È finito il tempo delle deleghe passive agli organismi dirigenti.

Uno dei limiti maggiori che abbiamo scontato in questi anni risiede nel concetto di autonomia del politico, e con esso la convinzione che i problemi del Partito si potessero risolvere sul terreno del carisma, delle virtù taumaturgiche del leader.

Nuovamente, anche in questo congresso, si è tentata la stessa strada: così, prima ancora di avanzare una analisi minima sulle cause del disastro e prima di aver chiarito quale progetto politico si intendesse realizzare, è stata proposta la candidatura di un singolo compagno alla guida del partito, quasi a voler rassicurare la base sul fatto che quel nome con la sua storia dovesse essere la garanzia primaria per la nostra salvezza e il rilancio. A prescindere dal nome in sé e dalle sue capacità, il congresso ha anzitutto bocciato il metodo.