Risorgimento, la via all’unità nazionale

Risorgimento, la via all’unità nazionale

Gramsci critica l’interpretazione liberale del processo storico

Martedì 14 luglio 2009
Con l’avvicinarsi del 2011 e delle celebrazioni per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, i temi sulla storia del Risorgimento stanno tornando di grande attualità. Gramsci dedica alla questione una grande attenzione e il Volume 17, in uscita domani, contiene proprio il Quaderno 19 sul Risorgimento. Quegli avvenimenti sono stati spesso riletti in chiave politica, sia per contestare l’esito del processo, sia per farne la base ideale del nuovo Stato attraverso la costruzione artificiale di una “biografia nazionale”. Una interpretazione che ha dato luogo a rappresentazioni oleografiche totalmente astratte. L’antistoricità di tale approccio deriva dal fatto che esso impediva contemporaneamente la comprensione della realtà, con cui era in contraddizione, e insieme di cogliere la reale portata dello sforzo compiuto dai protagonisti del Risorgimento. L’analisi del passato d’Italia, dall’epoca romana a quella risorgimentale e post-unitaria, era volta a trovare in esso una unità nazionale di fatto, quindi a giustificare il presente con il passato storico. Secondo Gramsci, si è cercato di sostituire l’adesione organica delle masse popolari allo Stato, con la selezione di “volontari” di una nazione concepita astrattamente. Questo modo di rappresentare gli avvenimenti storici rendeva protagonisti della storia d’Italia personaggi astratti e mitologici e così il problema di ricercare le origini storiche di un evento concreto e circostanziato, la formazione dello Stato moderno italiano, nel secolo XIX, veniva trasformato in quello di «vedere questo Stato, come Unità o come Nazione o genericamente come Italia in tutta la storia precedente così come il pollo deve esistere nell’uovo fecondato».
L’idea che l’Italia sia sempre stata una nazione è per Gramsci una pura costruzione ideologica, un preconcetto, che ha portato la classe intellettuale italiana alle acrobazie più antistoriche per rintracciare questa unità nel passato pre-risorgimentale. In Italia nel XIX secolo non poteva esserci questa unità nazionale perché mancava ad essa l’elemento fondamentale del popolo-nazione e un collegamento stretto di questo con gli intellettuali nazionali. Per queste ragioni le ricostruzioni storiografiche erano in realtà propaganda che cercavano di creare quella Unità basandosi sulla letteratura più che sulla storia; per Gramsci quell’approccio all’unità era un “voler essere” piuttosto che un “dover essere”. Il susseguirsi delle diverse interpretazioni ideologiche sulla nascita dello Stato italiano, legate agli impulsi individuali di singole personalità, è specchio fedele della natura primitiva ed empirica dei vecchi partiti politici e quindi dell’assenza nella vita politica italiana di un movimento organico e articolato potenzialmente capace di favorire uno sviluppo politico-culturale permanente e continuo. Al di là delle valutazioni critiche, il Quaderno 19 introduce una gran quantità di strumenti analitici per comprendere approfonditamente l’evento che più di ogni altro ha segnato la storia moderna e contemporanea del nostro Paese.
GIANNI FRESU

 

Partitocrazia figlia della politica malata

Partitocrazia figlia della politica malata

Il pensatore sardo oltre 70 anni fa anticipò temi ancora attuali

Martedì 07 luglio 2009
La crisi della politica ha monopolizzato anche recentemente le pagine dei giornali interessando le stesse riflessioni del presidente della Repubblica. Il volume 16 in uscita domani riproduce i Quaderni 14, 16 e 17 nei quali questo argomento è ampiamente svolto a partire dalle considerazioni sul partito politico, lo strumento attraverso il quale il rapporto di rappresentanza dovrebbe superare la sua condizione di delega passiva. In realtà esso ha finito per convertirsi in luogo di occupazione e gestione oligarchica dei centri di potere e di perpetuazione esclusiva delle sue funzioni dirigenti. Non a caso è sorta ed è diventata di uso comune l’espressione partitocrazia. Il problema della degenerazione del partito politico riguarda anzitutto le relazioni che sussistono tra le sue parti costitutive – direzione nazionale, quadri intermedi, base di massa – e i suoi meccanismi di selezione e formazione dei gruppi dirigenti. Il rapporto tra questi elementi deve presupporre insieme disciplina e partecipazione; un rapporto organico tra governanti e governati tendente a generare una volontà collettiva, non l’accoglimento passivo e meccanico di ordini da eseguire senza discutere. Se concepita in questo modo, la disciplina non annulla la personalità e la libertà, ma diviene consapevole assimilazione di un indirizzo da realizzare.
Il problema non è la disciplina in quanto tale ma la fonte da cui proviene quell’indirizzo: se questa è democratica, non un arbitrio o un’imposizione esteriore, allora la disciplina diviene un elemento necessario. Per Gramsci il rapporto governanti governati è conseguente alla divisione del lavoro, alla distinzione tra funzioni intellettuali e manuali: «ogni uomo è un filosofo», è l’organizzazione tecnica a farne un diretto e non un dirigente, pertanto se lo scopo principale di un partito consiste nel formare dirigenti il suo dato di partenza deve risiedere nel non ritenere naturale e immodificabile quella distinzione. Il problema dell’assenza di un rapporto organico di rappresentanza in politica non riguardava solo i partiti di élite della tradizione liberale, dove la funzione di direzione era esercitata unilateralmente da uomini di cultura, ma anche i cosiddetti partiti di massa del movimento operaio. Se le masse in un partito non hanno altra funzione al di là della fedeltà militare verso i gruppi dirigenti il rapporto dualistico è esattamente lo stesso: «la massa è semplicemente di manovra e viene occupata con prediche morali, con pungoli messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate».
Un partito serio, non l’espressione arbitraria di individualismi, deve essere portatore di qualcosa di simile allo spirito statale, un sentimento di appartenenza che lega il presente e il futuro con la tradizione e rende i suoi cittadini solidali con l’azione storica delle forze spirituali e materiali nazionali. Allo stesso modo deve esistere uno spirito di partito, un senso di responsabilità generale, da non confondere con la “boria di partito”.
GIANNI FRESU

 

Gramsci contro l’ipocrisia delle regole

Gramsci: Naturale e contro natura. Il significato convenzionale dei valori morali.

Martedì 30 giugno 2009
Per Gramsci, se si vuole comprendere la storia dell’umanità bisogna evitare una sua rappresentazione per compartimenti stagni. La complessità della realtà è data dalle mille sfaccettature in cui si essa si compone, dallo stretto intreccio di elementi diversi che emergono nel movimento dialettico della storia. In tal senso “I Quaderni del carcere” indagano a 360 gradi senza fermarsi né davanti ai templi incensati dell’alta cultura, né di fronte a quegli aspetti della cultura popolare o del senso comune ritenuti frivoli o insignificanti. Trattano, infatti, con la stessa curiosità e assenza di pregiudizio la grande filosofia come i romanzi d’appendice. Il volume 15 in uscita domani contiene il quaderno 11 intitolato “Introduzione alla filosofia”, e il quaderno 16 “Argomenti di cultura”. Tra essi è possibile trovare temi che ancora oggi riempiono le pagine dei giornali. Oggi come allora, ad esempio, determinati comportamenti personali e manifestazioni del costume sono classificati come “naturali” o “contro natura”. Secondo Gramsci, naturale coincide con ciò che si considera giusto e normale sulla base della coscienza storica attuale, anche se noi tendiamo a rappresentarlo in termini assoluti e immutabili. Sulla base di quella coscienza storica, divenuta senso comune, vengono definiti contro natura determinati comportamenti, specie sessuali, riscontrabili invece nel mondo animale.
La natura dell’uomo è determinata dall’insieme dei rapporti sociali che formano una coscienza storica. I modelli culturali, gli stili di vita e i rapporti sociali non sono fissi e omogenei per ogni uomo, luogo e tempo, ma sono in rapporto contraddittorio e in continuo mutamento e soprattutto non hanno nulla a che vedere con la naturalità delle cose. Ciò che in un periodo storico si afferma come necessario e universale è determinato dal tipo di civiltà economica nel quale si è inseriti. Essa non solo definisce l’obiettività e la necessità di un determinato attrezzo per la produzione, stabilisce norme di condotta morale, gli stili educativi, le regole di convivenza di una determinata società. Nella storia capita che certe concezioni morali risultino invecchiate e non più corrispondenti alla realtà e la loro persistenza sia solo formale, esteriore, inducendo «a una doppia vita, all’ipocrisia e alla doppiezza». La facciata della rispettabilità, dell’ossequio ai valori religiosi e familiari parallelamente a una seconda vita all’insegna della trasgressione e dell’edonismo. Nuovamente, il problema non è la naturalità dei comportamenti ma la natura convenzionale dei valori morali e, se vogliamo, la sincerità con cui li si assume come norma di condotta.
Le fasi esasperate di libertinaggio e dissolvimento della morale tradizionale che in genere reagiscono contro questa condizione di doppiezza, annunciano per Gramsci una nuova concezione morale che si va affermando. Con questa chiave di lettura, ad esempio, la stagione di contestazione culturale del ’68 potrebbe essere compresa molto più razionalmente.
G. F.

Gramsci a Cagliari, gli anni difficili della giovinezza

MEMORIA.

Nessuna epigrafe oggi ricorda i luoghi che frequentò durante il periodo del liceo

Gramsci a Cagliari, gli anni della difficile giovinezza

Dal caffè Tramer al Dettori, dal circolo Bruno alla trattoria di Stampace

“L’Unione Sarda”, martedì 30 giugno 2009
Nel 1891, quando nasce Gramsci, l’Italia era impegnata da alcuni anni nella guerra doganale con la Francia ingaggiata da Crispi per difendere la nascente industria nazionale e le grandi produzioni agricole dei latifondi. La Sardegna, travolta nell’87 dal crollo del suo sistema bancario, vide chiudersi improvvisamente il mercato della Francia verso cui era destinato la gran parte delle sue esportazioni, in particolare bestiame, agrumi, vino e olio. Ciò provocò l’ulteriore immiserimento e abbandono delle campagne dove l’unica alternativa era la pastorizia, azzoppata però dal costituirsi tra il 1885 e il 1900 delle prime industrie casearie che imponevano un prezzo del latte talmente basso da impedire qualsiasi ipotesi di sviluppo. L’altra alternativa alla fame erano le miniere, ma anche qui le condizioni di vita e lavoro erano disastrose e, a causa della crisi, a fronte di un costante aumento dello sfruttamento si registrava la diminuzione dei salari, enormemente più bassi rispetto al resto d’Italia. L’Isola era considerata dallo Stato una grande prigione a cielo aperto e così i funzionari statali coinvolti negli scandali venivano mandati qua ad esercitare le loro funzioni. L’insieme di queste condizioni creava in Sardegna una contesto potenzialmente esplosivo dato dalla difficile condizione sociale, dal risentimento verso le “ingiustizie subite”, dal bassissimo prestigio di cui godeva lo Stato italiano presso le masse popolari e i ceti medi, dalla convinzione di ricevere dalle autorità un trattamento da dominio coloniale. Anni segnati dall’eccidio di Buggerru, che non a caso originò il primo sciopero generale della storia d’Italia, e dai moti insurrezionali del 1906 partiti proprio da Cagliari.
Tutto questo è importante perché l’opera di Gramsci non è il grande piano “steso a tavolino” da un intellettuale brillante, si tratta semmai di un lavoro che nasce a tamburo battente nel vivo di lotte sociali, dall’esperienza diretta di una condizione di miseria ed emarginazione sociale. Gramsci arriva a Cagliari nel 1908, dopo gli anni nello “scalcinato” ginnasio di Santu Lussurgiu, e un’infanzia a Ghilarza resa difficile dai problemi di salute e da una condizione economica pesantissima conseguente alla carcerazione del padre. Complice l’isolamento geografico, Cagliari era allora in tutti sensi la capitale della regione, percorsa dai fermenti sociali, dalle prime manifestazioni di una politica di massa, da una certa vivacità culturale testimoniata dall’esistenza di ben tre quotidiani e diversi periodici di approfondimento e polemica politica.
A Cagliari, dove il fratello maggiore Gennaro diviene segretario della sezione socialista e tesoriere della Camera del lavoro, Gramsci si avvicina al socialismo ma non disdegna i temi della rivendicazione sardista. Come egli stesso ricorderà criticamente in seguito, negli anni cagliaritani non era inusuale sentirgli pronunciare la frase “a mare sos continentales”. Nel capoluogo Gramsci divide prima una camera in affitto in Via Principe Amedeo 24, poi si trasferisce in un’umida stanzetta nel Corso Vittorio Emanuele 149, e frequenta il Liceo Classico Dettori allora situato in piazza Dettori nel centro della Marina. Sembra impossibile, eppure in nessuno di questi tre luoghi della città esiste una lapide che ricorda il passaggio dell’autore italiano più studiato e tradotto al mondo insieme a Dante e Machiavelli. Potendo contare su una disponibilità economica che a stento gli consentiva di sopravvivere, solo raramente poteva permettersi un qualche tipo di evasione che comunque non andava mai oltre un caffé da Tramer in Piazza Martiri, o un pasto frugale con il fratello nella trattoria di Piazza del Carmine. Negli anni liceali Gramsci si fa promotore con i suoi compagni del circolo “i martiri del libero pensiero: Giordano Bruno”, dove assume anche il suo primo incarico come tesoriere, entra in contatto con le riviste e i giornali socialisti, compie le sue prime investigazioni filosofiche che lo portano dall’idealismo di Benedetto Croce al materialismo storico di Marx.
Cagliari dà a Gramsci anche l’opportunità di cimentarsi con il giornalismo con le prime corrispondenze per “L’Unione Sarda”. Si potrà obiettare che negli avvenimenti epocali che segnano la sua biografia quelli cagliaritani fossero semplici episodi, eppure è in quegli anni che Gramsci forma il suo carattere, inizia a forgiare le sue attitudini intellettuali e la sua propensione alla militanza politica. Anni importanti dunque, che forse meriterebbero di essere indagati più in profondità di quanto si sia finora fatto.
GIANNI FRESU

Un paese senza sentimento nazionale

Un paese senza sentimento nazionale

Gramsci illustra le radici storiche della mancata unità d’Italia

Martedì 02 giugno 2009
Uno dei temi maggiormente indagato nei Quaderni, e presente nell’undicesimo volume in uscita domani, riguarda la mancata formazione di uno Stato italiano unitario nell’età moderna e la tradizionale assenza di un sentimento “nazionale” paragonabile a quello sviluppatosi con la nascita dei grandi Stati assoluti. Le radici storiche di questa assenza andavano ricercate indietro nel tempo. La funzione storica dei Comuni e della borghesia italiana, nella stagione della sua prima fioritura, fu per Gramsci disgregatrice dell’unità esistente e non seppe trovarne forme nuove e più avanzate. Quando gli altri paesi iniziarono ad acquisire una coscienza nazionale e ad organizzare proprie culture nazionali, l’Italia perse la sua funzione di centro internazionale di cultura senza dar luogo, a sua volta, ad un proprio processo di aggregazione nazionale. I suoi intellettuali non si nazionalizzarono e anzi finirono per staccarsi dal proprio territorio sciamando all’estero, per insediarsi nelle corti europee.
L’arresto nello sviluppo e la mancata integrazione nazionale della borghesia italiana, poi spazzata via dalle invasioni straniere, è stata imputata storicamente a fattori esterni: l’invasione turca nel vicino e medio oriente, con l’interruzione dei commerci con il levante; lo spostarsi dei traffici dal Mediterraneo all’Atlantico con la scoperta delle Americhe. In realtà queste non potevano essere considerate le cause della decadenza delle repubbliche italiane semmai l’effetto. La borghesia – sottolinea Gramsci – si sviluppò meglio negli Stati assoluti, esercitando un potere indiretto, piuttosto che in Italia, dove disponeva di tutto il potere. Machiavelli aveva compreso che né il Comune né la signorìa comunale potevano dirsi Stato poiché ad essi mancava un vasto territorio e una popolazione che consentissero una politica internazionale autonoma. Pertanto la borghesia italiana fu la prima a comparire e dar luogo a forme significative di accumulazione capitalistica, ma poi non seppe andare oltre la sua dimensione corporativa-municipale subendo un processo di involuzione che la portò ad abbandonare i commerci e il rischio degli investimenti produttivi in favore della rendita fondiaria.
La borghesia – scrive Gramsci – finì per assumere i tratti parassitari tipici delle vecchie aristocrazie, mentre gli intellettuali mantennero il loro carattere cosmopolita senza divenire mai nazionali. Il cosmopolitismo della tradizione istituzionale e intellettuale italiana – tramandatosi dall’Impero romano alla Chiesa – è una delle cause che portò la penisola a subire passivamente i rapporti internazionali durante il Medio Evo. In Italia la Chiesa, con il suo duplice ruolo di monarchia spirituale universale e principato temporale, non fu mai tanto forte da occupare tutta la penisola né tanto debole da consentire che altri lo facessero. «La tradizione dell’universalità romana e medievale impedì lo sviluppo delle forze nazionali (borghesi) oltre il campo puramente economico-municipale, cioè le forze nazionali non divennero forza nazionale che dopo la Rivoluzione francese».
GIANNI FRESU

 

Gramsci svela i segreti del potere

Gramsci svela i segreti del potere

Lo Stato, la società civile e l’egemonia della classe dirigente

Martedì 26 maggio 2009
Nella scienza politica Gramsci è universalmente riconosciuto come il teorico dell’egemonia per aver svelato la natura molteplice del potere. Una società moderna e avanzata dispone di forme stratificate di direzione politica articolate su due piani: il piano della “società civile” corrispondente alla funzione di egemonia esercitata dalla classe dominante sull’intera società, e il piano della “società politica” o Stato, relativo al dominio diretto, alle funzioni di comando e “governo giuridico”. Il concetto comune di Stato è per Gramsci parziale ed errato perché in genere lo si riduce solo a questo secondo aspetto del dominio, senza tenere conto dell’apparato privato dell’egemonia o società civile. In questo modo si sottovaluta la funzione politica della cultura, delle relazioni sociali e di quelle economiche. Società politica e società civile non sono separate e contrapposte, la seconda è una funzione della prima, la sorregge e alimenta.
La stessa idea di “opinione pubblica” riguarda l’egemonia politica, come punto di contatto della dialettica tra società politica e società civile, tra forza e consenso. «L’opinione pubblica è il contenuto politico della volontà pubblica». C’è una funzione del dominio politico che consiste proprio nel formare un’opinione pubblica preventivamente a determinate scelte impopolari dello Stato, essa consiste anzitutto nell’organizzare e centralizzare certi elementi della società civile. La lotta per il monopolio degli organi dell’opinione pubblica, attraverso il controllo di giornali, partiti e Parlamento, è proprio finalizzata ad evitare che si determini una divergenza e dunque una scissione tra i due livelli.
Diversamente da quanto accaduto in Russia, in Occidente, l’assalto allo Stato sarebbe stato inutile se non preceduto da una conquista egemonica della società civile. Questo è il senso delle celebri note su “guerra manovrata” (l’immediato assalto allo Stato) e “guerra di posizione” (la conquista della società civile). Per Gramsci Lenin fu il primo a comprendere il problema ma non ebbe modo di approfondirlo.
Queste riflessioni assumono un enorme rilievo per la scienza politica in quanto tale, non solo per la strategia di un partito rivoluzionario, perché aprono un campo di analisi del tutto nuovo sulle forme del potere politico. Il decimo volume , in uscita domani, riproduce il Quaderno 7 intitolato “appunti di filosofia”. Nella ricca trattazione di queste note il concetto di egemonia è sviscerato con un linguaggio chiaro e pregnante ben sintetizzato da uno dei più celebri brani dell’opera: «In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolìo dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e casematte; più o meno, da Stato a Stato, si capisce, ma questo appunto domandava un’accurata ricognizione di carattere nazionale».
GIANNI FRESU

Ricomporre la diaspora comunista

Ricomporre la diaspora comunista.

Di Gianni Fresu (CPN PRC)

«La Rinascita», numero 8, giovedì 26 febbraio 2008

La ricomposizione della diaspora del ’98, per ricostruire insieme un’alternativa comunista forte e credibile in Italia, penso sarebbe la migliore risposta possibile ad una depressione economica mondiale che non è solo crisi del cosiddetto neo liberismo. La contraddizione è del capitalismo in quanto tale – delle sue regole di produzione, sfruttamento e appropriazione delle ricchezze – di ciò dobbiamo tenere conto, sapendo bene che la natura ciclica di queste crisi è fisiologica alle stesse modalità di espansione del capitalismo.

Le ragioni della frattura sono state ampiamente superate su tutti i versanti e contro l’ipotesi del riavvicinamento non vale l’argomento sulle presunte diversità politiche e culturali che ancora sussistono. Già ora all’interno di PRC e PdCI sono presenti orientamenti diversi e ciò non è di certo un ostacolo, inoltre vale la pena ricordare che veniamo tutti dalla stessa scommessa: la rifondazione di una teoria e una prassi comunista in Italia come risposta alla svolta della Bolognina. È chiaro, pensare di fare una semplice fusione di gruppi dirigenti sarebbe un errore destinato a non produrre nulla di buono, la riunificazione deve partire dalla presentazione di liste unitarie per le europee per poi divenire processo organico di integrazione e riconoscimento reciproco, attraverso la diffusione orizzontale e collegiale degli strumenti di elaborazione e direzione politica.

Il percorso di riunificazione deve essere necessariamente processuale ma non indefinito nel tempo, la difficile situazione interna ed internazionale non ce lo consentirebbe. La storia ci insegna che le recessioni hanno sempre dato luogo non solo al netto peggioramento delle condizioni di vita e lavoro delle masse popolari, ma a fasi tragiche di imbarbarimento delle relazioni sociali, di involuzione politica e culturale. Ci troviamo nel pieno di una fase di «crisi organica del capitalismo», ed è esattamente in simili contesti che hanno, in genere, luogo i peggiori processi di “modernizzazione” dei rapporti economici e sociali, attuati sempre attraverso la passivizzazione coatta delle grandi masse popolari, ciò che Gramsci definiva «rivoluzioni passive».

A fronte di una situazione tanto complessa il cannibalismo del PD, che ha speso tutte le sue energie per mettere fuori causa la sinistra di classe, anziché impegnarsi in un’opposizione reale alla destra, si è ritorto contro chi l’ha praticato. L’illusione del PD – un “moderno” partito interclassista, che avrebbe dovuto congiungere gli interessi del capitale e del lavoro – si è schiantata sugli scogli di una realtà ben più complessa dei sogni veltroniani. Il PD si è rivelato, in tutta la sua fragilità, un immenso comitato elettorale strutturato per camarille, un agglomerato composto da consorterie condensate attorno a singole personalità che controllano partito, istituzioni e collegi senza alcun disegno complessivo. Già a fine Ottocento la dissoluzione del liberalismo italiano portò al tentativo di assemblaggio dei due raggruppamenti tradizionali della Destra storica e della Sinistra liberale per formare un unico «blocco costituzionale» presentato come baluardo contro le due ali estreme della reazione e della rivoluzione. Oggi come allora più che di “trasformazione del sistema politico” si deve parlare molto più prosaicamente di «trasformismo» e il divampare in tutta la sua virulenza della questione morale ne è una conferma. L’attuale inservibilità politica del PD dimostra ulteriormente quanto fosse avventata l’idea della “costituente della sinistra”, che puntava tutte le chanche di un rilancio della sinistra sul rapporto organico con il partito di Veltroni. Ricomporre la diaspora non significa e non deve significare però chiudersi in un recinto identitario, ma al contrario fare un investimento per l’unità della sinistra, mantenendo anche un interlocuzione dialettica, non subalterna, con le altre forze democratiche. Il PRC è nato sulla base del binomio autonomia e unità, quella deve tornare ad essere la nostra bussola di orientamento per rifuggire ogni tentazione di settarismo minoritario e insieme di opportunismo. Oggi più che mai si sente il bisogno di un partito comunista capace di porre, attraverso il conflitto, al centro dell’agenda politica le questioni del lavoro, di plasmarsi organicamente sulle esigenze delle masse popolari, da qui possiamo ripartire.

Comitato Politico Nazionale PRC, 13-14 dicembre 2008. Intervento di Gianni Fresu.

Comitato Politico Nazionale PRC, 13-14 dicembre 2008. Intervento di Gianni Fresu.

 

Il quadro politico che emerge dalla crisi del Governo Soru mostra dei tratti di rilievo non solo regionale. La prima considerazione riguarda l’inservibilità politica del PD, artefice principale della crisi. A conferma ulteriore di quanto fosse avventata l’idea della “costituente della sinistra” che puntava tutte le chanches di un nostro rilancio sul rapporto organico con il partito di Veltroni. È paradossale ma il PD, che al momento della sua costituzione è stato presentato come soggetto votato alla stabilizzazione del quadro politico, si è rivelato in tutti i passaggi fondamentali la principale fonte di destabilizzazione e paralisi della maggioranza. Tenendo conto dell’accusa a suo tempo rivolta a Rifondazione (l’inaffidabilità governativa) da DS e Margherita verrebbe da spiegare tutto con la categoria della nemesi. Il PD in Sardegna, ma credo che il discorso valga a livello nazionale, è strutturato come le camarille liberali dell’Ottocento. Non si tratta di un soggetto politico dotato di una sua identità organica e definita ma di un agglomerato composto da consorterie condensate attorno a singole personalità che controllano partito, istituzioni e collegi senza alcun disegno complessivo. A fine Ottocento la dissoluzione del liberalismo italiano portò al tentativo di assemblaggio dei due raggruppamenti tradizionali della Destra storica e della Sinistra liberale per formare un unico «blocco costituzionale» presentato come baluardo contro le due ali estreme della reazione e della rivoluzione. Oggi come allora più che di “trasformazione del sistema politico” si deve parlare molto più prosaicamente di «trasformismo» e il divampare in tutta la sua virulenza della questione morale ne è una conferma. Sia chiaro che neanche Soru, per quanto possiamo rilevare gli aspetti enormemente positivi di questa legislatura, si sottrae a tale dinamica ma è parte in causa. Così, a mio avviso, la vera natura della crisi sta tutta nella lotta senza esclusioni di colpi per la leadership nel PD e nella coalizione di centro sinistra. Detto in altri termini, ci troviamo di fronte ad una crisi pilotata per tagliare gordianamente i nodi non risolti, che scarica irresponsabilmente sulle classi sarde più disagiate il fardello della decomposizione del PD. La crisi è stata decisa proprio quando doveva essere votata la manovra finanziaria, a cui è stata anteposta la legge urbanistica, con il risultato di andare ad elezioni in un periodo di recessione e con la desertificazione industriale in atto (proprio in queste settimane viene chiuso quel che resta dell’industria petrolchimica sarda), condannando l’isola ad un indefinito periodo tempestoso governato con l’esercizio provvisorio. Il nostro Partito si è semplicemente accodato, dopo aver concordato l’intesa futura con il Presidente della Regione non su un accordo programmatico ma su un semplice rapporto fiduciario personale. Su queste basi sarà difficile costruire qualcosa di solido e progressivo, imporre una svolta sul versante delle politiche attive del lavoro e su quelle dell’assetto industriale, deficitarie anche in questa legislatura.

Gianni Fresu, intervento al Congresso Regionale del PRC Sardegna

Gianni Fresu, intervento al Congresso Regionale del PRC Sardegna

Quartu S.Elena, 8 novembre 2008

 

Richiamare la conclusione del Congresso di Chianciano non è un semplice atto formale, ma costituisce un indicazione di lavoro chiara ed inequivocabile che nessuna autonomia statutaria può mettere in discussione, a meno di non voler dar corso ad una qualche operazione di carattere scissionista. Il nuovo corso del PRC ha anzitutto un punto fermo ed irrinunciabile: Rifondazione comunista c’è per l’oggi e per il domani e nessuna ipotesi di Costituente della sinistra, o di nuovo soggetto politico che dir si voglia, ne può mettere in discussione l’autonoma soggettività. Da qui bisogna ripartire per rilanciare il processo della rifondazione comunista in Italia e favorire forme di unità a sinistra, senza precipitazioni organizzative e scorciatoie politiche liquidatorie della nostra storia ed identità.

Unitamente a questa indicazione, il PRC sardo deve fare proprie le valutazioni autocritiche sulle dinamiche degenerative della nostra organizzazione denunciate alla Conferenza di Carrara. Allora parlammo giustamente di una crisi politica e di un “sistema malato” che investiva anche noi. Anche in Sardegna la crescita del Partito si è così scontrata con una realtà che ricorda a volte più le camarille liberali che una moderna organizzazione di massa delle classi subalterne. In quale altro modo potremmo definire la tendenza a piegare l’essenza e la funzionalità delle nostre strutture partecipative alle esigenze di un grande comitato elettorale personale, che si articola dal livello più alto a quello più basso elargendo ruoli e prebende in ragione del rapporto di fedeltà militare? La tendenza a confondere la costruzione del partito con la semplice gestione del potere? L’idea malata in ragione della quale la presenza nei livelli istituzionali è intesa non come inveramento della nostra capacità di amministrazione e direzione politica, ma come semplice lottizzazione funzionale al consolidamento oligarchico dei rapporti di forza interni al Partito?

Tutto questo ha prodotto due conseguenze nefaste nella vita del Partito in Sardegna, che ne hanno minato fortemente la credibilità, sul versante sia interno sia esterno delle sue proiezioni.

VII Congresso Nazionale Congresso Nazionale – Chianciano, 24- 28 luglio 2008.

VII Congresso Nazionale Congresso Nazionale

Chianciano, 24- 28 luglio 2008.

Intervento di Gianni Fresu

 

Tra tanti indicatori, alcuni dei quali contraddittori, il congresso due segnali chiari li ha sicuramente dati. Il primo è che il partito non intende più essere il martello nelle mani di un singolo uomo; il corpo militante non vuole ancora fare la parte della massa di manovra ipnotizzata e sedotta dall’oratoria brillante, dai colpi di teatro. È finito il tempo delle deleghe passive agli organismi dirigenti.

Uno dei limiti maggiori che abbiamo scontato in questi anni risiede nel concetto di autonomia del politico, e con esso la convinzione che i problemi del Partito si potessero risolvere sul terreno del carisma, delle virtù taumaturgiche del leader.

Nuovamente, anche in questo congresso, si è tentata la stessa strada: così, prima ancora di avanzare una analisi minima sulle cause del disastro e prima di aver chiarito quale progetto politico si intendesse realizzare, è stata proposta la candidatura di un singolo compagno alla guida del partito, quasi a voler rassicurare la base sul fatto che quel nome con la sua storia dovesse essere la garanzia primaria per la nostra salvezza e il rilancio. A prescindere dal nome in sé e dalle sue capacità, il congresso ha anzitutto bocciato il metodo.