I fratelli Grimm visti da Gramsci

I fratelli Grimm visti da Gramsci

Le traduzioni delle novelle raccolte nei Quaderni del carcere

Martedì 07 aprile 2009
Il terzo volume dei “Quaderni del carcere”, in uscita domani, contiene le traduzioni delle novelle dei fratelli Grimm curate da Gramsci agli inizi della sua carcerazione, una fase segnata da enormi difficoltà di concentrazione e avvio del piano di lavoro. Era infatti impossibile un rapporto di discussione con altri soggetti, necessario ad evitare un lavoro troppo autoriflessivo; era difficilissimo ottenere i mezzi per studiare con continuità e scrivere secondo un ordine razionale. Lo sconforto conseguente alle prime disordinate letture gli fanno dubitare sulle reali possibilità di riuscita del progetto. Così in una lettera a Tania, il 23 maggio 1927, annunciava di volersi dedicare a due attività con scopo terapeutico come gli esercizi ginnici e le traduzioni dalle lingue straniere: «Un vero e proprio studio credo mi sia impossibile, per tante ragioni non solo psicologiche ma anche tecniche; mi è molto difficile abbandonarmi completamente a un argomento o a una materia e sprofondarmi solo in essa, proprio come si fa quando si studia sul serio, in modo da cogliere tutti i rapporti possibili e connetterli armonicamente. Qualche cosa in tal senso forse incomincia ad avvenire per lo studio delle lingue, ora leggo le novelline dei fratelli Grimm. Sono proprio deciso a fare dello studio delle lingue la mia occupazione predominante».
Il terzo volume in edicola domani con L’Unione Sarda fa parte della collana di diciotto libri dedicati alla fedele riproduzione, in copia anastatica, dei “Quaderni del carcere”, scritti tra il 1929 e il 1935. Un’operazione culturale che ha ottenuto subito un’inaspettata risposta dai lettori ed è nata dalla collaborazione tra il giornale, l’Istituto Treccani, le Fondazioni Gramsci e Siotto.
Al di là dell’aspetto “terapeutico” le traduzioni dei fratelli Grimm presenti nel terzo volume sono importanti anche sul piano biografico. In una lettera alla sorella Teresina del 18 gennaio 1932, Gramsci scriveva di voler dare un suo piccolo contributo allo sviluppo della fantasia dei nipoti ricopiando e spedendo loro le traduzioni dei fratelli Grimm: «una serie di novelline popolari proprio come quelle che ci piacevano tanto quando eravamo bambini. Sono un po’ all’antica, alla paesana, ma la vita moderna, con la radio, l’aeroplano, il cine parlato, Carnera, ecc. non è ancora penetrato abbastanza a Ghilarza perché il gusto dei bambini d’ora sia molto diverso dal nostro di allora».
Pur provenendo dalla tradizione tedesca, le novelle, ambientate in boschi fitti e tenebrosi popolati di spiriti, streghe e folletti, non erano distanti dalla tradizione orale della fantasia popolare sarda e sembravano plasmarsi perfettamente sull’atmosfera della sua terra e del suo paese, un luogo «dove esisteranno sempre tipi all’antica come tia Adelina e Corroncu e le novelle avranno sempre un ambiente adatto». Queste traduzioni,rimasero escluse dalla pubblicazione delle precedenti edizioni dei Quaderni. La presente edizione ha il merito filologico di restituirle alla loro collocazione originaria, fornendo un quadro più esaustivo allo studio completo dell’opera.
GIANNI FRESU

 

Gramsci, l’alfiere del Mezzogiorno

Gramsci, l’alfiere del Mezzogiorno

Nel “Quaderno uno” l’analisi dei difficili rapporti tra Nord e Sud

Martedì 31 marzo 2009
Nel Quaderno uno è analizzato un tema organico all’intera opera, la debolezza delle classi dirigenti italiane: l’arresto dello sviluppo della civiltà comunale e la mancata formazione di uno Stato unitario moderno, i limiti del Risorgimento e l’assenza di una compiuta dialettica parlamentare in età liberale, il fenomeno del trasformismo. Il Risorgimento, tuttavia, è lo snodo analizzato maggiormente nel primo Quaderno, a iniziare dal fallimento delle prospettive democratiche del partito di Mazzini e dalla capacità egemonica dei Moderati di Cavour, i veri protagonisti dell’unificazione nazionale per l’intellettuale sardo. Il problema tutto italiano del “trasformismo” non era per Gramsci semplicemente un fenomeno di malcostume politico, bensì un preciso processo di cooptazione con il quale, dal Risorgimento in poi, si è ottenuto un consolidamento del potere politico attraverso la decapitazione e l’assorbimento dei gruppi avversi allo Stato.
L’importanza di queste analisi, che tratteggiano i termini essenziali di una “biografia nazionale”, è notevole sia per la storia che per la scienza politica e in esse sono contenute alcune tendenze che ciclicamente ricorrono nella vita politica italiana, specie nelle sue fasi di crisi. Ma l’originalità di tale analisi risiede nel comprendere che ogni sistema di potere si regge non solo sull’uso della forza ma anche sul consenso, sulla capacità di formare sul piano culturale e sociale ciò che comunemente si definsce “opinione pubblica”: la funzione essenziale degli intellettuali in una società moderna.
La famosa lettera scritta alla cognata Tania Schucht il 19 marzo 1927 dal carcere di Milano, nella quale Gramsci avanzava l’esigenza di dedicarsi ad un lavoro di ricerca “disinteressato” capace di occuparlo intensamente, costituisce un ponte tra l’analisi sulla Questione meridionale e quella dei Quaderni. Questa lettera è la prima esposizione del piano di lavoro ipotizzato per gli anni di detenzione. Già nel primo Quaderno, il tema dei rapporti tra Settentrione e Meridione è indagato con una prospettiva storica che investe le dinamiche del Risorgimento italiano e la funzione politica degli intellettuali. Per Gramsci l’Unità d’Italia si è realizzata attraverso una relazione squilibrata dove l’arricchimento e l’incremento industriale del Nord dipendevano dall’impoverimento del Mezzogiorno. Egli parla di uno sfruttamento semicoloniale occultato da tutta una letteratura che spiegava l’arretratezza del Sud con l’incapacità organica, l’inferiorità biologica, la barbarie congenita dell’uomo meridionale. Un Meridione liberato dal giogo borbonico, ritenuto fertile e ricco di risorse naturali, e ciò nonostante incapace di emanciparsi dalla miseria per ragioni tutte interne al Meridione stesso. Un Sud “palla al piede” che impediva al Nord un più rapido progresso verso la modernità industriale.
GIANNI FRESU

 

Ricomporre la diaspora comunista

Ricomporre la diaspora comunista.

Di Gianni Fresu (CPN PRC)

«La Rinascita», numero 8, giovedì 26 febbraio 2008

La ricomposizione della diaspora del ’98, per ricostruire insieme un’alternativa comunista forte e credibile in Italia, penso sarebbe la migliore risposta possibile ad una depressione economica mondiale che non è solo crisi del cosiddetto neo liberismo. La contraddizione è del capitalismo in quanto tale – delle sue regole di produzione, sfruttamento e appropriazione delle ricchezze – di ciò dobbiamo tenere conto, sapendo bene che la natura ciclica di queste crisi è fisiologica alle stesse modalità di espansione del capitalismo.

Le ragioni della frattura sono state ampiamente superate su tutti i versanti e contro l’ipotesi del riavvicinamento non vale l’argomento sulle presunte diversità politiche e culturali che ancora sussistono. Già ora all’interno di PRC e PdCI sono presenti orientamenti diversi e ciò non è di certo un ostacolo, inoltre vale la pena ricordare che veniamo tutti dalla stessa scommessa: la rifondazione di una teoria e una prassi comunista in Italia come risposta alla svolta della Bolognina. È chiaro, pensare di fare una semplice fusione di gruppi dirigenti sarebbe un errore destinato a non produrre nulla di buono, la riunificazione deve partire dalla presentazione di liste unitarie per le europee per poi divenire processo organico di integrazione e riconoscimento reciproco, attraverso la diffusione orizzontale e collegiale degli strumenti di elaborazione e direzione politica.

Il percorso di riunificazione deve essere necessariamente processuale ma non indefinito nel tempo, la difficile situazione interna ed internazionale non ce lo consentirebbe. La storia ci insegna che le recessioni hanno sempre dato luogo non solo al netto peggioramento delle condizioni di vita e lavoro delle masse popolari, ma a fasi tragiche di imbarbarimento delle relazioni sociali, di involuzione politica e culturale. Ci troviamo nel pieno di una fase di «crisi organica del capitalismo», ed è esattamente in simili contesti che hanno, in genere, luogo i peggiori processi di “modernizzazione” dei rapporti economici e sociali, attuati sempre attraverso la passivizzazione coatta delle grandi masse popolari, ciò che Gramsci definiva «rivoluzioni passive».

A fronte di una situazione tanto complessa il cannibalismo del PD, che ha speso tutte le sue energie per mettere fuori causa la sinistra di classe, anziché impegnarsi in un’opposizione reale alla destra, si è ritorto contro chi l’ha praticato. L’illusione del PD – un “moderno” partito interclassista, che avrebbe dovuto congiungere gli interessi del capitale e del lavoro – si è schiantata sugli scogli di una realtà ben più complessa dei sogni veltroniani. Il PD si è rivelato, in tutta la sua fragilità, un immenso comitato elettorale strutturato per camarille, un agglomerato composto da consorterie condensate attorno a singole personalità che controllano partito, istituzioni e collegi senza alcun disegno complessivo. Già a fine Ottocento la dissoluzione del liberalismo italiano portò al tentativo di assemblaggio dei due raggruppamenti tradizionali della Destra storica e della Sinistra liberale per formare un unico «blocco costituzionale» presentato come baluardo contro le due ali estreme della reazione e della rivoluzione. Oggi come allora più che di “trasformazione del sistema politico” si deve parlare molto più prosaicamente di «trasformismo» e il divampare in tutta la sua virulenza della questione morale ne è una conferma. L’attuale inservibilità politica del PD dimostra ulteriormente quanto fosse avventata l’idea della “costituente della sinistra”, che puntava tutte le chanche di un rilancio della sinistra sul rapporto organico con il partito di Veltroni. Ricomporre la diaspora non significa e non deve significare però chiudersi in un recinto identitario, ma al contrario fare un investimento per l’unità della sinistra, mantenendo anche un interlocuzione dialettica, non subalterna, con le altre forze democratiche. Il PRC è nato sulla base del binomio autonomia e unità, quella deve tornare ad essere la nostra bussola di orientamento per rifuggire ogni tentazione di settarismo minoritario e insieme di opportunismo. Oggi più che mai si sente il bisogno di un partito comunista capace di porre, attraverso il conflitto, al centro dell’agenda politica le questioni del lavoro, di plasmarsi organicamente sulle esigenze delle masse popolari, da qui possiamo ripartire.

Comitato Politico Nazionale PRC, 13-14 dicembre 2008. Intervento di Gianni Fresu.

Comitato Politico Nazionale PRC, 13-14 dicembre 2008. Intervento di Gianni Fresu.

 

Il quadro politico che emerge dalla crisi del Governo Soru mostra dei tratti di rilievo non solo regionale. La prima considerazione riguarda l’inservibilità politica del PD, artefice principale della crisi. A conferma ulteriore di quanto fosse avventata l’idea della “costituente della sinistra” che puntava tutte le chanches di un nostro rilancio sul rapporto organico con il partito di Veltroni. È paradossale ma il PD, che al momento della sua costituzione è stato presentato come soggetto votato alla stabilizzazione del quadro politico, si è rivelato in tutti i passaggi fondamentali la principale fonte di destabilizzazione e paralisi della maggioranza. Tenendo conto dell’accusa a suo tempo rivolta a Rifondazione (l’inaffidabilità governativa) da DS e Margherita verrebbe da spiegare tutto con la categoria della nemesi. Il PD in Sardegna, ma credo che il discorso valga a livello nazionale, è strutturato come le camarille liberali dell’Ottocento. Non si tratta di un soggetto politico dotato di una sua identità organica e definita ma di un agglomerato composto da consorterie condensate attorno a singole personalità che controllano partito, istituzioni e collegi senza alcun disegno complessivo. A fine Ottocento la dissoluzione del liberalismo italiano portò al tentativo di assemblaggio dei due raggruppamenti tradizionali della Destra storica e della Sinistra liberale per formare un unico «blocco costituzionale» presentato come baluardo contro le due ali estreme della reazione e della rivoluzione. Oggi come allora più che di “trasformazione del sistema politico” si deve parlare molto più prosaicamente di «trasformismo» e il divampare in tutta la sua virulenza della questione morale ne è una conferma. Sia chiaro che neanche Soru, per quanto possiamo rilevare gli aspetti enormemente positivi di questa legislatura, si sottrae a tale dinamica ma è parte in causa. Così, a mio avviso, la vera natura della crisi sta tutta nella lotta senza esclusioni di colpi per la leadership nel PD e nella coalizione di centro sinistra. Detto in altri termini, ci troviamo di fronte ad una crisi pilotata per tagliare gordianamente i nodi non risolti, che scarica irresponsabilmente sulle classi sarde più disagiate il fardello della decomposizione del PD. La crisi è stata decisa proprio quando doveva essere votata la manovra finanziaria, a cui è stata anteposta la legge urbanistica, con il risultato di andare ad elezioni in un periodo di recessione e con la desertificazione industriale in atto (proprio in queste settimane viene chiuso quel che resta dell’industria petrolchimica sarda), condannando l’isola ad un indefinito periodo tempestoso governato con l’esercizio provvisorio. Il nostro Partito si è semplicemente accodato, dopo aver concordato l’intesa futura con il Presidente della Regione non su un accordo programmatico ma su un semplice rapporto fiduciario personale. Su queste basi sarà difficile costruire qualcosa di solido e progressivo, imporre una svolta sul versante delle politiche attive del lavoro e su quelle dell’assetto industriale, deficitarie anche in questa legislatura.

Gianni Fresu, intervento al Congresso Regionale del PRC Sardegna

Gianni Fresu, intervento al Congresso Regionale del PRC Sardegna

Quartu S.Elena, 8 novembre 2008

 

Richiamare la conclusione del Congresso di Chianciano non è un semplice atto formale, ma costituisce un indicazione di lavoro chiara ed inequivocabile che nessuna autonomia statutaria può mettere in discussione, a meno di non voler dar corso ad una qualche operazione di carattere scissionista. Il nuovo corso del PRC ha anzitutto un punto fermo ed irrinunciabile: Rifondazione comunista c’è per l’oggi e per il domani e nessuna ipotesi di Costituente della sinistra, o di nuovo soggetto politico che dir si voglia, ne può mettere in discussione l’autonoma soggettività. Da qui bisogna ripartire per rilanciare il processo della rifondazione comunista in Italia e favorire forme di unità a sinistra, senza precipitazioni organizzative e scorciatoie politiche liquidatorie della nostra storia ed identità.

Unitamente a questa indicazione, il PRC sardo deve fare proprie le valutazioni autocritiche sulle dinamiche degenerative della nostra organizzazione denunciate alla Conferenza di Carrara. Allora parlammo giustamente di una crisi politica e di un “sistema malato” che investiva anche noi. Anche in Sardegna la crescita del Partito si è così scontrata con una realtà che ricorda a volte più le camarille liberali che una moderna organizzazione di massa delle classi subalterne. In quale altro modo potremmo definire la tendenza a piegare l’essenza e la funzionalità delle nostre strutture partecipative alle esigenze di un grande comitato elettorale personale, che si articola dal livello più alto a quello più basso elargendo ruoli e prebende in ragione del rapporto di fedeltà militare? La tendenza a confondere la costruzione del partito con la semplice gestione del potere? L’idea malata in ragione della quale la presenza nei livelli istituzionali è intesa non come inveramento della nostra capacità di amministrazione e direzione politica, ma come semplice lottizzazione funzionale al consolidamento oligarchico dei rapporti di forza interni al Partito?

Tutto questo ha prodotto due conseguenze nefaste nella vita del Partito in Sardegna, che ne hanno minato fortemente la credibilità, sul versante sia interno sia esterno delle sue proiezioni.

VII Congresso Nazionale Congresso Nazionale – Chianciano, 24- 28 luglio 2008.

VII Congresso Nazionale Congresso Nazionale

Chianciano, 24- 28 luglio 2008.

Intervento di Gianni Fresu

 

Tra tanti indicatori, alcuni dei quali contraddittori, il congresso due segnali chiari li ha sicuramente dati. Il primo è che il partito non intende più essere il martello nelle mani di un singolo uomo; il corpo militante non vuole ancora fare la parte della massa di manovra ipnotizzata e sedotta dall’oratoria brillante, dai colpi di teatro. È finito il tempo delle deleghe passive agli organismi dirigenti.

Uno dei limiti maggiori che abbiamo scontato in questi anni risiede nel concetto di autonomia del politico, e con esso la convinzione che i problemi del Partito si potessero risolvere sul terreno del carisma, delle virtù taumaturgiche del leader.

Nuovamente, anche in questo congresso, si è tentata la stessa strada: così, prima ancora di avanzare una analisi minima sulle cause del disastro e prima di aver chiarito quale progetto politico si intendesse realizzare, è stata proposta la candidatura di un singolo compagno alla guida del partito, quasi a voler rassicurare la base sul fatto che quel nome con la sua storia dovesse essere la garanzia primaria per la nostra salvezza e il rilancio. A prescindere dal nome in sé e dalle sue capacità, il congresso ha anzitutto bocciato il metodo.

Comitato Politico Nazionale, 21 aprile 2008.

Comitato Politico Nazionale, 21 aprile 2008.

Intervento di Gianni Fresu

È difficile descrivere le sensazioni provocate da questo autentico terremoto politico che ha investito il nostro partito. Tuttavia, le valutazioni emotive non servirebbero a nulla e quella che ci ha investito non è una catastrofe naturale, un fenomeno ineluttabile, bensì un fatto politico le cui cause, concrete e razionali, vanno indagate con precisione se si vuole realmente cambiare registro. Partendo da questa semplice considerazione mi ha lasciato letteralmente interdetto la relazione del compagno Giordano. Non un cenno di autocritica, non un dubbio sul fatto che forse la trionfale storia di “innovazioni e contaminazioni” seguita nell’ultimo decennio dal PRC, in fin dei conti, non è stata tanto trionfale.

Tutta l’analisi di Giordano è incentrata sulle responsabilità del PD. Che le forze moderate del paese avessero un progetto di modernizzazione capitalistica, di «rivoluzione passiva», basata sull’espulsione del conflitto sociale dalla cittadella politica, è un dato acclarato sin dai “gloriosi anni” della “concertazione” (dai governi tecnici del 92-93 in poi), dunque perché stupirsi oggi dell’obbiettivo perseguito e raggiunto da Veltroni? Forse il nostro Partito ha fatto troppo affidamento sul quel quadro politico, smarrendo per strada la sua autonomia e la sua capacità di esistere a prescindere da quelle forze; probabilmente non è stata una gran trovata l’aver affermato che il movimento avesse spostato a sinistra il baricentro delle forze moderate e che dunque si poteva entrare nell’Unione senza preoccuparsi del come, perché e per fare cosa. Le elezioni si sono incaricate di dimostrare quanto tutto l’impianto tattico e strategico del Congresso di Venezia fosse fallimentare. Questa sconfitta non è un terremoto né un fenomeno attribuibile al caso, alla cattiveria di Veltroni o alla follia degli operai che votano Lega.

Il voto utile? A Sinistra!

Il voto utile? A Sinistra!

Gianni Fresu (Comitato Politico Nazionale PRC)

 

Personalmente non ho condiviso le modalità con cui si è giunti a questa unità della sinistra, così come mi ha fortemente contrariato l’autocensura sul simbolo dei due partiti che rappresentano la stragrande maggioranza della coalizione. Ad ogni modo, penso che le valutazioni critiche vadano rinviate al congresso, all’interno di una battaglia nella quale il tema non potrà che essere quello dell’unità d’azione della sinistra d’alternativa (federazione o confederazione che sia), passando per il rilancio del progetto della Rifondazione e, semmai, dell’Unità comunista. Al contempo nel congresso si dovrà necessariamente fare un bilancio serio sul fallimento della linea politica che da Venezia ci ha portato all’attuale situazione.

Fatta questa premessa, non si può non ammettere che l’unità elettorale della sinistra, sotto un unico simbolo, è non solo una esigenza dettata da questa legge elettorale, pessima e oligarchica, ma una necessità che sorge con forza dal comune sentire del nostro popolo. Del resto l’area “essere comunisti” ha sempre posto il tema dell’unità della sinistra d’alternativa, anche quando il partito ha perseguito una linea di divisione e competizione a sinistra (ingresso nell’Unione concordato con le forze moderate, primarie, assetti di governo, sinistra europea).

Ora tuttavia ci sono delle priorità di ordine democratico che si impongono sopra tutte le sottigliezze tattiche. È in atto un tentativo coatto di modernizzazione reazionaria del paese che unisce in un comune disegno di «rivoluzione passiva» PD e PDL. La nostra priorità è sconfiggere l’imposizione di un bipartitismo fasullo che cela la rappresentanza dei medesimi interessi sociali, rispetto ai quali varia solo l’intensità – iperliberista o graduale – con cui essi pretendono di essere tutelati.

La campagna elettorale ha già svelato il colossale bluff che si nasconde dietro la faccia «pacata e serena» di Walter Veltroni. La candidatura di Calearo nelle liste del PD chiarisce ampiamente come la pretesa volontà di intervenire sui salari per un riequilibrio in loro favore sia soltanto uno slogan elettorale. Egli è il prototipo dell’odio di classe mai sopito di una casta di padroni delle ferriere che perpetua, di padre in figlio, il suo dominio politico e sociale. Un falco di Federmeccanica, il principale esponente del braccio armato del capitalismo italiano, quello che prima ha stipulato i famigerati accordi del 92 e 93 sulla politica dei redditi e poi, puntualmente, non è mai disponibile a rispettarli al momento dei rinnovi contrattuali. L’arroganza provinciale di questo padrone impomatato e avvolto dal suo impeccabile doppiopetto gessato, uno che la lotta di classe la fa eccome, mostra il vero volto dell’interclassismo di Veltroni, mettere nelle liste sia i padroni sia i lavoratori, come specchietto per le allodole, e poi rappresentare in via esclusiva le esigenze dell’impresa. Ai lavoratori è riservata la sola funzione degli ascari. Più che alla «Rivoluzione liberale» di Gobetti, il PD sembra ispirarsi al trasformismo arruffone dei Crispi e Giolitti.

Calearo si rivolge spesso agli interlocutori della sinistra accusandoli di essere «rimasti a prima della caduta del muro di Berlino», forse sarebbe ora di fargli notare che invece lui è fermo all’Ottocento! Nel mentre i lavoratori hanno conquistato dei diritti sui quali non sono disposti a trattare. Veltroni presenta come un qualcosa di nuovo questa supposta esigenza di conciliare, in nome dei «supremi interessi del paese», lavoratori e padroni, in realtà si dimentica che un’ideologia di questo tipo l’Italia la ha già avuta e sperimentata, si chiamava «corporativismo» e non credo che i lavoratori abbiano alcuna nostalgia verso le perversioni sociali del Ventennio. La scelta della sinistra di incentrare la campagna elettorale sul tema del conflitto capitale e lavoro, sull’urgenza di una “scelta di parte”, è la risposta più giusta e consona alla sfida pericolosissima che abbiamo di fronte. Per tutte queste ragioni è a Sinistra il solo voto utile e non per “il bene del paese”, entità astratta e misticamente mazziniana, ma per quello delle classi subalterne, la stragrande maggioranza della nostra società, che oggi rischiano seriamente di non trovare più alcuna rappresentanza sociale e politica.

Gianni Fresu, intervento CPN, 5-6 ottobre 2007.

Gianni Fresu, intervento CPN, 5-6 ottobre 2007.

 

Le difficoltà del partito in questa fase non sono riconducibili, esclusivamente, ai suoi limiti attuali; all’interno di questa coalizione di governo, i margini di movimento per la sinistra d’alternativa sono ora risibili se non totalmente inesistenti. Le cause di queste contraddizioni sono a monte, risiedono negli errori di linea politica che hanno preceduto e seguito le passate elezioni politiche e facilitato l’imposizione di una ipoteca moderata, se non proprio conservatrice, che sarà arduo scalzare in questa legislatura. La pagina più significativa sul terreno della sinistra d’alternativa è stata la costituzione dei Comitati referendari per l’estensione dell’articolo 18, che riuscì a catalizzare un significativo consenso attivo su un punto nodale. La cosa più logica sarebbe stata, all’indomani di quella battaglia, che si fosse intrapresa una fase di interlocuzione tra quei soggetti per individuare i temi programmatici fondamentali sui quali avviare il confronto con altre forze dell’Unione, ponendo prima, e non dopo, un limite preciso alle oscillazioni del governo. Al contrario, si è preferito arrestare qualsiasi interlocuzione seria e si è invece avviata una trattativa diretta ed individuale con quelle stesse forze che in occasione del Referendum invitarono gli italiani ad “andare al mare”. Poi si è intrapresa la scorciatoia delle Primarie, dando luogo ad una devastante competizione all’interno della sinistra d’alternativa, che si giocava tutta sul presunto «effetto dirompente della leadership». Risultato: la sinistra d’alternativa ne è uscita a pezzi, polverizzata e ridimensionata, mentre la parte più conservatrice del centro sinistra ha ottenuto un plebiscitario 80% di consensi. Non contenti di tutto ciò, dopo le elezioni, abbiamo proseguito una assurda competizione a sinistra per la definizione degli assetti di governo, peraltro spendendo malissimo il nostro peso elettorale per conseguire un ruolo sicuramente di prestigio, ma totalmente inutile sul piano della battaglia politica, come quello della Presidenza della Camera.

Comitato politico regionale PRC del 9 settembre 2007

Comitato politico regionale PRC del 9 settembre 2007

Intervento sulla statutaria di Gianni Fresu.

 

Evito di perdermi in inutili locuzioni preliminari e cerco di andare al sodo della questione. Io credo che la nostra posizione dovrebbe essere a sostegno della riforma statutaria per due ordini di motivi, che attengono al merito e più complessivamente alle valutazioni politiche sul quadro di fondo.

Partendo dal merito non posso che concordare con la valutazione di quei compagni che individuano nella riforma elementi di presidenzialismo (l’elezione diretta, la nomina e la revoca degli assessori, lo scioglimento del Consiglio in caso di crisi), tuttavia, non concordo affatto con la tesi che interpreta la legge tout court come presidenzialista. Lo era senz’altro la prima bozza licenziata dalla Giunta, ma le modifiche apportate in commissione hanno prodotto il mutamento di alcuni capisaldi della proposta originaria, riaffermando la centralità del Consiglio e stabilendo un principio centrale che non fa parte del modello presidenziale: la possibilità che il Consiglio voti la sfiducia al presidente (art. 22).

Alcuni dei più accaniti detrattori della legge, interni al nostro partito, sorvolano su questo punto, oppure, come è accaduto in CPR, lo definiscono «automatico e scontato». Però bisogna intendersi, perché se si parla di presidenzialismo, in questo caso, di «automatico e scontato» non c’è proprio nulla. Nel sistema americano, l’idealtipo del modello presidenziale, non solo non esiste un simile istituto, ma addirittura esistono le elezioni di medio termine che hanno istituzionalizzato la possibilità di una maggioranza diversa nell’organo legislativo, senza che questo influisca sui rapporti di forza o limiti la potestà del Presidente e del suo esecutivo. Negli USA esiste semmai la messa in stato d’accusa, ma si tratta di un istituto estremo, che non ha natura politica, la cui origine risale alla dialettica tra ordini sociali e Corona britannica, quindi tutt’altra storia. Se proprio dovessimo etichettare dunque la legge statutaria dovremmo semmai parlare di semipresidenzialismo.